"Babilonia"

Ritratto di Giuseppe Maggiore

13 Marzo 2015, 16:27 - Giuseppe Maggiore   [suoi interventi e commenti]

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"BABILONIA"
"Quis leget haec?" -- Persio -- (chi lo leggerà?)

 

"Rating. Voucher. Brochure. Voluntary disclosure. Jobs act. Flop. Deejay. Speaker. Backstage. Export. Welfare. Meeting. Fatwa. Check point. Reality e Talk show. Fiction. Baulieu. Booking. Stile patchwork. Resort. Restyling. Split payment. Default. Workshop. Stage. Rapper. Working-class. Spending review. Outlet. Shopping. Break. Default. Selfie. Fluently. Gap. Ecc., ecc., ecc......"

E potrei continuare ad libitum!

È il caso di intorbidare un idioma, già di per sé integralmente perfetto, espressivo, melodico, con stranierismi che non appartengono al ceppo della nostra cultura?

Non si può, oggi, leggere una notizia su un giornale, su una rivista, su un qualsiasi pezzo di carta stampata, o ascoltarla dai notiziari radio e TV, senza incappare nelle secche di terminologìe esterofile che inceppano la comprensione di quanto sta scritto o si ascolta.

Ammenoché non si sia poliglotti. E, credo, che i più non lo siano, né che abbiano interesse ad esserlo.

Una babilonia bella e buona, insomma!

È mai possibile, ribadisco con estrema convinzione ed animato da un consolidato spirito nazionalistico, che la nostra lingua, tanto armonica, tanto forbita, tanto nutrita di vocaboli e d'altro, metricamente inappuntabile, elegiaca, duttile, esauriente, completa, con tanta storia letteraria alle spalle, per esprimersi abbia bisogno di fare appello a parole, a modi di dire, a frasi idiomatiche di provenienza straniera, transoceanica, europea, se non, addirittura, di stridula percezione per le nostre caste orecchie avvezzate alla più pura e melodica eufonia?

Oppure l'usarle è un vezzo di chi le scrive per ostentare una conoscenza linguistica cosmopolita, tanto per apparire più acculturato? Per fare più effetto? Per dimostrare carisma? O per confondere le idee?

(Due persone alla buona ad un comizio: "..Come parla bene!.." dice l'uno all'altro, riferendosi all'oratore; "...ma che ha detto?..." chiede il secondo, "...Veramente non l'ho capito!.." risponde il primo).

E, obtorto collo, sorvolo sugli abusati termini lessicali quali stop, okay, leader, black-out, performance, standard, dossier, i più adoperati tra altri consimili, che, a furia di ripeterli da gran tempo, sono talmente entrati nell'uso comune da sembrare, ormai, quasi italiani.

A poco a poco questo discutibile impinguamento lessicale porterà ad una realtà imbarazzante: che, cioè, senza nemmeno accorgercene, ci troveremo a parlare una lingua mista, spuria, ibrida, bastarda se vogliamo, composta da inglese, francese, tedesco, spagnolo, slavo e chissà da quale altro ceppo estero desunta; ed il nostro idioma, tanto amato e venerato dai classici, tanto aulico e celebrato, rimarrà la lingua dei nostri nonni, così come il latino lo fu dei nostri avi.

E che i Penati ci assistano!

Ma dove cazzo (l'espressione fiorita, di incerto gusto, permettetemi, è d'uopo!) siamo arrivati? Come ragioniamo? Dov'é andato a finire il nostro buon gusto? Il nostro buon senso? Le  nostre peculiari caratteristiche  espressive? La nostra dialettica? La nostra filosofia scritturale?  S'è perso il "ben dell'intelletto", forse? Che fanno le Accademie della Crusca e dei Lincei di fronte a questo straripare incontrollato di vocaboli stranieri in una realtà lessicale già di per sé eloquente (aberrante fenomeno ricettivo tipicamente nostrano), per frenarlo, se non addirittura per rifiutarlo a priori d'autorità o, se già malauguratamente ha preso piede, per espellerlo?

E ciò in mezzo alle tantissime altre cose che vanno a puttane (anche qui, credetemi, la locuzione non guasta!) e che sono di pubblico dominio?

Fermiamoci qui, porca miseria! Ci si ammanti di un minimo di ritegno! L'ingordigia espressiva deve pur avere un limite, no?!

Accettando passivamente tutto non dimostriamo, certo, orgoglio nazionale, cari miei! Scimmiottiamo l'altrui, come se non avessimo un prestigioso nostro da ostentare e in abbondanza.

Certo che siamo al punto in cui si sta generando una vera e propria babilonia, per non dire che già s'è generata!

Che direbbero un Manzoni, un Foscolo (per non dire un Dante o un Boccaccio!), un D'Azeglio, un Guerrazzi, un Parini, un Croce ed altri, se fossero costretti ad assistere ad un tale scempio?

Il disfacimento dell'atavica cultura, del nostro più intimo habitat intellettuale, purtroppo continua in sordina inesorabile, imperterrito, ininterrotto, incontrastato.

Con la globalizzazione in atto, presto, culturalmente, non ci distingueremo più dagli altri paesi; stiamo per essere inghiottiti dal gorgo di un ciclone linguistico magmatico che annullerà le nostre radici, il nostro modo di essere, di pensare e di esprimerci, pianificando ogni cosa.

È un progresso, questo, o il contrario?

Ai posteri.....!

E, a proposito dello stato attuale della nostra preclara nazione, consentitemi di rimandarvi alla strofa n.78 del canto VI del Purgatorio del profetico ripetuto padre Dante.

Amen!

Cefalù, Marzo 2015.                                                                                                                                           Giuseppe Maggiore.

Commenti

Mi chiedo, però, come non disperare, se stiamo distruggendo tutta la nostra cultura e ogni nostro retaggio storico-artistico? Non è soltanto la nostra bella lingua a morire, la lingua del Paese dove il sì suona, ma tutta la nostra storia e persino i segni del passaggio di grandi artisti. Muore Pompei, muoiono i monumenti greci  e romani, muore la scuola. Gli Italiani stanno per diventare il popolo di Paul Valery: un popolo, che non conosce la sua storia, è un popolo che non merita di vivere.

Caro Pippo, non credevo che in vecchiaia dovesse toccarmi di assistere a questo inesorabile declino!

Senza voler qui dissertare di linguistica...vorrei semplicemente dire che  una lingua, un dialetto, possono paragonarsi a un torrente impetuoso che scorre e si rinnova continuamente (Giovanni Ruffino dixit)...e aggiungerei anche...per fortuna..con buona pace di quelli che vorrebbero parlare ancora in latino...o con la lingua di Dante...Boccaccio...Manzoni etc. etc...e sempre per citare l'illustre linguista siciliano...egli ricorre a un'altra metafora, a un'altra immagine, quella degli strati geologici...vuol dire che, così come esistono vari strati di un terreno che si sono depositati durante le ere geologiche, esistono anche vari strati linguistici..e ciò è dovuto assai spesso alla forza delle correnti linguistiche nuove proveniente dall'esterno..e questa è la prima e inarrestabile causa del rinnovamento di una lingua.

Sì, non posso condividere in toto. Ogni lingua deve sicuramente rinnovarsi, ma deve continuare a esistere, come continua a esistere l'acqua "nel torrente in piena". Se, infatti, non ci fosse più acqua, non esisterebbe il torrente. La stessa cosa accade con la lingua, che non esiste più se si eccede, senza ragione, a intrusioni, che la inquinano. Si pensi, per esempio, all'inglese, che è stato definito la lingua che ha sepolto se stessa, per l'uso scorretto nella pronuncia e nella sintassi fattone in svariati Paesi.

Personalmente, pur riconoscendone le indiscutibili qualità, a Dante e Manzoni preferisco Galilei e Machiavelli. Discorso a parte meriterebbe Boccaccio.

Altra cosa sono gli idiomi dialettali, tanto cari a Giovanni Ruffino. Qui, però, mi addentrei in un campo con non molte certezze e comunque che va oltre la mia preparazione.

In ogni caso, come può rinnovarsi una lingua, sostituendo ai suoi i termini stranieri? La sostituzione non è un rinnovamento!

Nelle sue considerazioni, quello che mi sciocca maggiormente non sono certo i forestierismi o le contaminazioni, propri di ogni lingua, ma alcune espressioni come..."intorbidare un idioma..già di per sè integralmente perfetto...con stranierismi che non appartengono al ceppo della nostra cultura"...mi ritorna in mente un ventennio nefasto...

 Quando parla di leggere ..riviste.. o un ...pezzo.. il sig. Maggiore saprà certamente che sta adoperando dei francesismi..così come quando parla di ascoltare la TV..saprà senz'altro che sta usando un termine inglese..

..e quando è "animato da un consolidato spirito nazionalistico" di cui và fiero...anche in questo caso dovrebbe sapere che sta usando un altro francesismo.

..e che dire della nostra lingua definita...forbita.. e..completa...due termini stranieri (il primo germanico..il secondo francese..).

E ancora.."a poco a poco questo discutibile impinguamento lessicale porterà ad una realtà ...imbarazzante.."..certo il sig. Maggiore non ha trovato un vocabolo più appropriato di questa parola ...spagnola..e si rammarica già di doversi trovare a parlare una lingua ...bastarda..usando ancora una volta un francesismo.

E tutto va a ...puttane..., secondo lui, magari senza accorgersi di usare un altro francesismo.

In quanto all'...orgoglio... nazionale che dovremmo dimostrare egli dovrebbe sapere che questa parola che ama tanto è di origine tedesca.

Forse "con la ...globalizzazione...culturalmente non ci distingueremo più dagli altri paesi" ma intanto sta usando un altro francesismo....e "stiamo per essere inghiottiti dal gorgo di un ...ciclone...linguistico.." così come il termine inglese che adopera.

E dico al sig. Maggiore e al sig. Sciortino, con simpatia che tutto questo è progresso e non è certamente ...pianificato...altra bellissima parola di origine inglese...così come sono tutte belle le parole di ogni lingua..di ogni idioma o dialetto perchè sono state inventate dalla mente dell'uomo e come essa nascono, si trasformano, mutano, a volte muoiono ma mai, per fortuna, si fossilizzano.

Non sono riuscito, in poche righe, a spiegare la mia opinione.

Escludo, e credo di poterlo fare anche a nome di Pippo Maggiore, che la nostra posizione ha qualcosa da vedere con il cosiddetto Ventennio. Sono d'accordo con quasi tutti i suoi riferimenti, anche se per "ciclone" dovremmo considerare il greco KYKLOS e per TV, che sta per televisione (o l'inglese television), sempre il greco e il latino, dai quali derivano i due lemmi, che compongono il termine. E questo accade con tantissime altre parole inglesi, soprattutto nella scienza e nella filosofia, che nell'inglese si sono create su suggerimento sia del greco antico e sia del latino.

Mi chiedo: perché noi non facciamo lo stesso, visto che siamo figli di quella cultura più degli Inglesi?

Altra questione sono i termini derivanti dalla Francia e dalla Germania. Li usarono persino Dante e Boccaccio, dando loro, però, una ortografia italianizzata. I venti volumi dell'impareggiabile  dizionario del Battaglia sono pieni di questi esempi. Erano gli anni in cui nasceva la nostra lingua e fu giocoforza adattarsi a termini già esistenti nelle altre lingue. Lo si fece, però, cum grano salis.

Nessuna idiosincrasia verso un rinnovamento della lingua, che passa per il confronto con tutte le altre, purché ciò avvenga non con la "sostituzione" o con l'intromissione sic et simpliciter di termini, che hanno un'ortografia non nostra e che sempre più spesso vengono usati per la pigrizia di ricercare termini italiani, sicuramente più comprensibili da parte del grosso pubblico.

Credo che Pippo Maggiore volesse dire proprio questo e non credo che i suoi primi cinque anni vissuti nel vituperato Ventennio abbiano avuto modo di farne un nazionalista.

Inutile aggiungere che tutto questo non mette in forse la simpatia nei suoi confronti, alla quale aggiungo un mio grazie, per aver suscitato questo dibattito, che non soltanto non è sterile, ma persino è stato ed è edificante.

Tengo a ringraziare il Sig. Giovanni D'avola, che non ho il piacere di conoscere, per l'acculturata disamina etimologica che ha voluto licenziare sul mio testo in esame.

Non mi proponevo, scrivendolo, di destare tanto interesse intellettuale e sono grato a chi mi ha dato l'occasione di un dibattito che non reputo affatto sterile.

E', comunque, innegabile che tutte le lingue, alla loro origine, denunzino una necessaria fratellanza idiomatica dalla quale non si può prescindere.

Onestamente, inoltre, debbo confessare che sconoscevo totalmente tutte le provenienze dei vocaboli citati; né l'etimologìa è il mio forte. Francamente, non ritenendomi colto, non me ne sono mai interessato; d'altro canto il sapere da dove derivino i vocaboli che uso non migliora certo i miei scritti, che lasciano sempre il tempo che trovano (per dirla con una frase d'uso).

S'impara sempre nella vita, sino al suo immancabile deprecato varco.

Sono per il rinnovamento di un linguaggio e non per la sua fossilizzazione; ma che ciò avvenga in maniera consona alla cultura del proprio paese e non prendendo in prestito parole straniere che spesso stonano nel fluire armonico (e insito sul termine) del nostro idioma.

Circa il famigeratio ventennio, al quale si allude, non so che dire, non avendolo praticamente mai vissuto (data la mia parvissima età in quel periodo), né avendo mai nutrito simpatie politiche; concordo pienamente con quanto espresso nel penùltimo e terz'ultimo comma del precedente intervento da Angelo Sciortino, del quale mi onoro essere Amico e che ammiro per i suoi sempre spartani interventi.

Gentile Direttore,

vorrei fare qualche commento sull'insorta “querelle” subita dal Maestro Maggiore in relazione alla sua disamina sulla purezza della lingua italiana. Nel commento del Sig. D'Avola mi ha colpito il “riflesso pavloviano” della purezza, dove il pensiero è subito volato alla purezza della razza di hitleriana e mussoliniana memoria. Ora, conoscendo a fondo la “Weltanschauung” del Maestro Maggiore, tutto mi aspetterei, tranne nostalgie totalitarie del noto ventennio.

Il Maestro Maggiore toccava invece un tema molto discusso e controverso, anche tra i linguisti della Crusca e dei Lincei, cioè fino a che punto la lingua italiana debba accogliere i barbarismi che inevitabilmente si trova a subire in seguito a contatti con popoli che parlano una lingua “barbara” intesa etimologicamente come “βαρβαρος”, cioè semplicemente straniera, anticamente “non greca”.

E' indubbio che leggere il testo di una qualsiasi pubblicazione infarcito di termini “barbari” oltre il lecito crea fastidio e irritazione, soprattutto se in italiano sono disponibili ottimi e chiari termini corrispondenti. Leggere continuamente “spending review” invece di revisione della spesa o “jobs act” invece di legge sul lavoro non è, a mio modesto avviso, un bel vedere. Per non parlare degli orrendi annunci sulle saracinesche di esercizi commerciali dove sta scritto “next opening” invece di un semplice e chiaro “prossima apertura”; qui si sconfina nel più bieco provincialismo.

A questo proposito va un grande plauso al realizzatore di un cartellone, in quel di Palermo, dove si annunciava la prossima apertura di un esercizio commerciale in questa guisa: “stamu rapiennu”. Veramente geniale in quanto indirizzato proprio a quanti sono presi dalla smania di utilizzare, a proposito e al sproposito, termini ”barbari”.

Inoltre vorrei invitare il Sig. D'Avola ad andare in Francia e arrischiarsi a pronunciare la parola “computer”; sarebbe sommerso da reprimende anche astiose, perchè i francesi vogliono e pretendono che si usi il termine “ordinateur”. Altro che purezza della razza, pardon, della lingua! Concordo, quindi, pienamente con la disamina del Maestro Maggiore, il quale ha voluto, giustamente, stigmatizzare il provinciale vezzo di ricorrere acriticamente a un termine “barbaro” ove vi sia a disposizione un termine italiano altrettanto chiaro ed esplicativo.

Per quanto riguarda l'etimologia delle parole è indubbio che la stragrande maggioranza derivi dal latino e dal greco, raramente dall'antico alto tedesco. In questa prospettiva, tutte le lingue europee sono lingue “barbare”!

Vincenzo Rosso

Anch’io voglio ringraziare il sig. Maggiore,  il sig. Sciortino e l’ultimo arrivato sig. Rosso per avere stimolato questo interessante dibattito sulla “lingua”. Come ho già detto altre volte seguo con piacere e simpatia “Quale Cefalù” e coloro che vi scrivono…

Al sig. Maggiore, che non conosco vorrei dire che alcune sue frasi e espressioni mi hanno ingannato e fatto pensare quello che non avrei dovuto nemmeno immaginare..e per questo gli chiedo scusa.

In quanto alla “acculturata disamina etimologica”..si è trattato, per me, di un puro divertissement trasmessomi presso la facoltà di Lettere e Filosofia da alcuni maestri quali Giovanni Ruffino e Antonino Di Sparti per citarne solo alcuni.

Relativamente alla querelle sulla lingua, posso solo ribadire le mie convinzioni che sono in contrasto con quelle dei miei interlocutori. Non credo si possa mettere un freno all’uso di parole straniere nemmeno in presenza di traducenti nella nostra bellissima lingua… chi siamo noi per farlo? E come farlo? Le parole scompaiono come foglie che cadono e vengono sostituite da altre più moderne..più usate… e si sa che è l’uso che tiene in vita una lingua…non possiamo costringere le nuove generazioni cresciute nell’era del web a non allinearsi con il resto del pianeta… Le parole viaggiano con le persone e come le persone non si possono arrestare. Purtroppo i vincitori dettano le leggi ed invadono il resto del mondo… americani ed inglesi sono i vincitori. Ci hanno provato i francesi a fermare questa marcia inesorabile della lingua inglese che andava a discapito della loro…ci hanno provato per decenni rifiutando i nuovi termini inglesi e si sono forse dovuti arrendere se è vero che il loro ministro della cultura Flore Pellerin (donna di origine coreana) ha dichiarato che bisogna essere più aperti verso le altre lingue ed accettare questi cambiamenti.

Ad Angelo Sciortino vorrei dire che ha ragione per quanto riguarda le parole “ciclone” e “televisione” per le quali dovremmo considerare il greco ed il latino…ma mi sono riferito, in questo caso, alle accezioni con cui sono entrate nella nostra lingua che sono sicuramente due anglicismi.

Al sig Rosso che dice “…fino a che punto la lingua italiana debba accogliere i barbarismi che inevitabilmente si trova a subire in seguito a contatti con popoli che parlano una lingua “barbara”…  e ancora “… E' indubbio che leggere il testo di una qualsiasi pubblicazione infarcito di termini “barbari” oltre il lecito crea fastidio e irritazione…” vorrei dire che i contatti con i popoli non si subiscono, si accettano ed ancor più si cercano per arricchirsi e sicuramente non danno fastidio ma enorme stimolo e piacere. Ho studiato al Liceo classico con sommo piacere greco e latino e all’università francese, inglese e un poco di spagnolo e russo… sempre con estremo interesse e non ho mai pensato che una lingua potesse essere meglio di un’altra… e in tutte queste lingue ho sempre trovato commistioni e influssi provenienti da altre lingue… In quanto a “…concordo, quindi, pienamente con la disamina del Maestro Maggiore, il quale ha voluto, giustamente, stigmatizzare il provinciale vezzo di ricorrere acriticamente a un termine “barbaro” ove vi sia a disposizione un termine italiano altrettanto chiaro ed esplicativo…”  credo di avere già espresso la mia opinione e non saranno certamente dei “nostalgici” (della lingua pura beninteso) a poter fermare tale continuo mutamento e arricchimento.

Inoltre, colgo con piacere l’invito del sig. Rosso ad andare in Francia, ricordandogli che in quel paese ci vado spessissimo essendovi legato indissolubilmente da vincoli culturali e affettivi (famiglia, parenti e amici) ma soprattutto perché è il paese dove ho mosso i primi passi ed ho imparato la prima lingua della mia vita ancor prima dell’italiano. E posso affermare di  non avere mai subito reprimende astiose per avere usato un termine inglese, italiano o spagnolo…In quanto ai “francesi che vogliono e pretendono che si usi il termine ordinateur…” il sig. Rosso dovrebbe spiegarmi chi sono questi francesi (visto che nella sola Francia metropolitana sono 64,2 milioni)… certamente non i membri dell’Académie che hanno suggerito (mai imposto) di usare certi termini al posto di altri. La gente comune, gli intellettuali usano il linguaggio veicolato dalla mondialisation o globalizzazione che dir si voglia ed il fenomeno è così espanso che, come detto sopra, anche il Ministro della Cultura si è dovuto adeguare.

Torno a ringraziare Giuseppe Maggiore, Angelo Sciortino ed Enzo Rosso per aver stimolato ed arrichito questo dibattito.

                                                                                                      Giovanni D’Avola

Ringrazio il Sig. D'Avola per la garbata replica. Lo so benissimo che una lingua, per restare viva, deve anche confrontarsi con altre lingue. Il mio appunto riguardava solamente le estremizzazioni, l'uso esagerato e ingiustificato dei termini stranieri. A questo proposito è venuto a fagiolo un cartello che proprio stamattina faceva bella mostra di sè in un noto esercizio commerciale del centro storico. Per ovvi motivi ho cassato la parte identificativa.

Gentile Sig. D'Avola, non mi dica che una certa esagerazione non è ravvisabile. Comunque, è sempre simpatico scambiarsi idee e opinioni su argomenti interessanti.

P.S. Prego il titolare dell'esercizio commerciale, ove si risentisse per la foto, ancorché non citato, di tenermi per iscusato. Grazie.

Ho composto questo breve racconto in siciliano per dimostrare il mio amore per la nostra antica e bellissima lingua. Spero perdonerete le molte inesattezze ma il “dialetto” (pur trasmessomi dai genitori) non è mai stato il mio punto di forza. Lo si impara soprattutto da piccolo ed io da piccolo imparavo il francese. Tuttavia, scrivendolo (con divertimento) ho voluto mostrare che la lingua siciliana è anche la storia del popolo siciliano e la Sicilia è stata crocevia del mondo ed è stata arricchita da numerose confluenze di razze, di lingue, di religioni, di culture etc..etc..fenici, greci, romani, bizantini, arabi, normanni, svevi, angioini, spagnoli etc..etc..

In corsivo ho evidenziato quelle parole che ci hanno regalato i nostri invasori e che hanno arricchito la nostra lingua.

Per i curiosi dico che si tratta di:
7 grecismi
21 arabismi (di cui 1 turco)
19 francesismi
7 spagnolismi (catalani e castigliani)
1 germanismo
1 svevo

Turi Macaluso s’arruspighiò, comu ogni matina, a li quattri. Fora c’era ancora scuru e so mugghieri Maria era già na cucina pi pripararici a manciari pi la jurnata di travagghiu in campagna a lu Chianu Piru. Dintra un panaru aveva ‘mpustatu na vastedda ca giuggiulena comu ci piaciva a Turi, na burnia china di alivi e di anciova, un pezzu di ciaraveddu arristatu di lu jornu prima accattatu  ni Michele Ribaudo u vucceri e un pezzu di cubbaita. Maria avia addumatu u focu na tannura e stava quariannu  dintra na pignatedda un pocu di latti e cafè pi la culazioni di so maritu. Turi si susiu  du lettu e s’infilò i tappini pi iri a circari intra l’armuarru un paru di pantaluni e na cammisa. Si vistiu, si misi i scarpuni e mentri so mugghieri finiva di priparari a culazioni iddu inchiu un bummulu cu l’acqua. Pigghiò u cantaru pi iri a sbacantarlu fora. Quannu rapiu a porta, puru ca erano passati appena li quattro di matina, già faceva cauru. Mentri abbivirava i grasti di ciuri vitti dui taddariti ca vulavano supra a so testa. Turnò dintra e s’assittò a lu tavulu di la cucina unni Maria aveva apparicchiatu pi fallo manciari prima di partiri. Na stanza allatu puru lu sceccu era susutu. Turi mpustò i carteddi supra la bestia. Turnò ad abbrazzari a so mugghieri chi era davanti allu specchiu ca s’azzizava un pocu i capiddi. Rapiu la porta di la stadda e fici nesciri lu sceccu. Da quannu si era maritatu, dui anni prima cu Maria, abitavanu na lu borgu di Santa Maria sutta a Rocca. Si ‘nfilò intra na vanedda, passò allatu a la casa di Fofo Alaimo u custureri e dopu a chiesa di Santa Maria si misi a cavaddu di lu sceccu e nisciu du paisi pigghiannu u violu sutta a Rocca ca purtava a Santa Barbara. Pi arrivari o Chianu Piru a strata acchianava verso a Madonna di Gibulimanna. Già erano i cincu e accuminciava a agghiurnari. Quannu arrivò a Allegracuori passò nmezzu a na pocu di sciari. Era lu tirrenu du parrinu, abbannunatu; du panzuni di patri Cicco Taibbi ca un aveva chiu bisognu di fare cultivari a campagna; ci bastavanu i sordi ca ci futteva a la povira genti. Davanti a balata da porta da casa c’era na giarra menza spaccata; i cunzarri di petra e ciaramiti erano arruzzulati; ntornu a casa criscievanu trofe di ddisa e dintra a vasca di l’acqua i giurani accuminciavunu  a cantari. ‘Ncuntrò Pasquali Vadalà a cavaddu di la sua imenta chi puru iddu ogni iornu iava a travagghiari ni lu so terrenu a Cammaruni. Ogni tantu vireva na baddottula ca scappava nmezzu a l’erba. Stava arrivannu a la sua campagna e accuminciava a fari cauru. Pigghiò u muccaturi p’asciucarisi u sururi. Dintra a sacchetta truvò quarchi pezzi di calia e misi a mangiarisilli. Ogni tantu si vutava a taliari u mari e a Rocca. Vitti dui rizzi ca scantati s’ammucciaru darreri un munzeddu di ligna. E mentri stava arrivannu pinsava a chiddu c’aveva a fari. Attaccari a vigna ca a racina accuminciava a ngrussari. Purtari u fumeri no iardinu pi fari crisciri megghiu pumaroru e milinciani. E mentri pinzava, passannu sutta un carrubbu s’addunò ca ci cattigghiava u coddu, era un schirpiuni ca c’era carutu ntesta. E poi aveva a cogghiri i varcoca e i cirasi e inchiri  i carteddi pi accanzari a iurnata.

Racconto degno di essere continuato. Reale. Veridico. Gustoso. Uno squarcio visivo su un passato obsoleto. M'è sembrato di assistere ad una mezza giornata di Carmine Papa, riscoprendo un habitat contadino di un tempo che fu; di un tempo in cui "u bummulu" era l'antesignano dell'odierno frigorifero, in cui "u cantaru" assolveva benissimo alla funzione di "cesso". Un tempo, se vogliamo, aulico, in cui la vita scorreva più a livello d'uomo che di macchina. L'epoca dei nostri nonni, insomma, alla quale il vernacolo concede un'esatta dimensione esistenziale.. La descrizione analitica, capillare, degli accadimenti, poi, dei gesti del personaggio, dei suoi programmati impegni, fanno del racconto visivo una sceneggiatura bella e buona: un filmato da girare in bianco e nero; un filmato cult, d'essai.

Complimenti.