18 Febbraio 2014, 22:49 - Rosalba Gallà [suoi interventi e commenti] |
ANTONIO CASTELLI, FIGLIO PER SEMPRE
di Rosalba Gallà
Nel tentativo di comprendere le motivazioni profonde, forse consapevoli, forse inconsce, della complessa e tormentata personalità di Antonio Castelli, vorrei riflettere su una delle affermazioni più forti e incisive dello stesso autore: “Più che di paura della morte (la mia ventiquattr’ore per la morte è pronta da tempo) io soffro di una sindrome – come dire? – della cancellazione; di qui il fervore, e l’angoscia, di durare, questa voglia carnale della vita, sotto specie di sentimenti, di affetti, di rapporti: col cibo, con la Natura, con l’Eros, con la musica, col libro…” (Taccuino, in Antonio Castelli, Opere, a cura di Giuseppe Saja, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma, 2008). L’autore sente la necessità di sottolineare che la sua non è semplice paura della morte, per la quale dichiara di essere pronto da tempo, ma della cancellazione, termine che con la sua definitività dà il senso di un’angoscia senza via d’uscita: essere cancellati significa essere ridotti alla dimensione del nulla, dell’oblio, della dimenticanza perenne: un uscire di scena senza lasciare traccia. Eppure Castelli sapeva benissimo che avrebbe lasciato traccia di sé attraverso le sue opere: certo, le difficoltà editoriali possono averlo scoraggiato, la mancanza di un pubblico riconoscimento può aver provocato delusione, ma uno scrittore, come tutti gli artisti, sa che qualcuno lo ricorderà attraverso la sua opera. Inoltre, Castelli era stimato ed apprezzato da intellettuali e scrittori affermati e questo avrebbe dovuto rassicurarlo.
Non si può, però, non notare un’apparente contraddizione: se da una parte c’è la “sindrome della cancellazione”, dall’altra c’è un disagio testimoniato da Leonardo Sciascia nel suo discorso pronunziato a Cefalù il 18 febbraio 1986, in occasione del conferimento da parte dell’Amministrazione comunale della cittadinanza onoraria allo scrittore di Castelbuono: “Castelli soffre quando si parla di lui” (Ibidem).
Sembrano due stati d’animo antitetici, due sofferenze opposte.
Cerchiamo di capire.
Lo scrittore fa risalire la sua nevrosi e la sua insonnia ad una data ben precisa, 20 giugno 1950, “giorno in cui il padre subì un delicato intervento chirurgico” (N.d.C., Ibidem) ed afferma che da quel giorno ogni mattina deve fare i conti con “le lesioni, i crolli” che sono avvenuti nella sua interiorità dopo l’ennesima notte d’insonnia. “Mi osservo, penso, cerco di organizzare i ‘soccorsi’; elaboro un piano, un piano per il giorno che si inizia e che forse varrà per quel giorno, varrà quanto varrà, poco, pochissimo, niente” (Ibidem). Questo fa chiarezza su quello che doveva essere il rapporto con il padre, un rapporto intenso, tanto da indurlo a desiderare “un rapporto di incorporazione, di assunzione, di impossessamento, senza ‘resti’ l’uno dell’altro…” (Ibidem).
Tante volte l’autore insiste sui concetti di “infanzia ininterrotta”, di “creaturalità perenne” e di una vera e propria “teologia dell’innocenza”. E’ vero che ad un certo punto distingue l’innocenza dell’adulto da quella del bambino, ma sono illuminanti le seguenti affermazioni: “Il gettito delle generazioni: i bambini che crescono; le parentele scoperte attraverso il raffronto delle fisionomie, le mutazioni e gli assestamenti somatici […] Così il bambino, il ragazzo diventano patrimonio di tutti, non soltanto dei genitori. Costituiscono la salvaguardia, la speranza di rivincita dei grandi. Essi hanno il dono di rinettare l’aria dell’uomo dai parassiti, le abulie, le omissioni, le viltà che infettano, estenuano la sua ansia di migliorarsi. Come le rondini, che alla grazia di essere volatili aggiungono quella, altrimenti provvida, di adempiere la pulizia del cielo” (Gli ombelichi tenui, parte seconda, Ibidem). Forse c’è, in queste parole, la cifra esistenziale della mancata prospettiva paterna, il desiderio di un bambino, di un ragazzo che potesse garantirgli una rivincita, che gli potesse ripulire l’aria, “ritessere la sua propagazione d’innocenza” e concedergli la sua grazia. In un’altra occasione Castelli afferma: “I bambini sono di tutti. Anche gli uccelli sono di tutti, e hanno pure essi il padre e la madre. La loro attitudine naturale è il volo, perciò appartengono al cielo. La letizia è l’attitudine naturale dei bambini, perciò appartengono all’umanità” (Entromondo, Ibidem). Sono evidenti le associazioni bambini/uccelli, letizia/volo: sembra, ancora, che al nostro autore sia mancata proprio l’opportunità di volare che, nella sua sofferta visione, probabilmente solo la letizia di un bambino poteva donargli. Castelli dichiara esplicitamente la sua consapevolezza di avere un credito affettivo, tanto da dire: “Un credito di affetti che cresce e che non riscuoterò mai (M. Cucchi)” (Taccuino, Ibidem). Da questo punto di vista, le affermazioni “I bambini sono di tutti”, “appartengono all’umanità”, “diventano patrimonio di tutti” possono essere lette in chiave compensatoria, come se lo scrittore volesse riempire, attraverso analisi apparentemente condotte sul piano della razionalità, un vuoto interiore destinato comunque a crescere e ad assumere il carattere dell’incolmabilità.
A questo, probabilmente, si può collegare anche l’ossessiva dichiarazione delle sue “radici”, Castelbuono e Cefalù, come se la mancanza della prospettiva di durare nel futuro potesse essere compensata da un forte radicamento nel passato e nelle origini.
In sintesi, da un lato c’è da sottolineare il perdurare di uno stato di creaturalità e di infanzia che creano un legame mai interrotto con la figura paterna, nei confronti del quale Castelli vive quasi in una perenne condizione di debito affettivo, dall’altro è come se la mancata paternità lo allontanasse dalla sua dimensione adulta, dalla possibilità di distacco dal padre e, nello stesso tempo, generasse in lui la consapevolezza di un credito d’affetto che non avrebbe mai potuto riscuotere. L’amore totale e assoluto che lui ha dedicato al padre, non ci sarebbe stato nei suoi confronti: questo potrebbe spiegare la “sindrome della cancellazione”.
Infine, a conforto della mia riflessione, vi è uno dei più interessanti momenti narrativi di tutta l’opera di Castelli, quello in cui racconta di Sara, “una vecchietta piccola e ossuta, dagli occhi spiritati” che “gira sempre per le strade con un sacco. Che riempie d’ogni cosa le capiti sotto tiro, e, una volta colmato, va a casa a vuotarlo. Poi ricomincia di nuovo […] Sara avanza contenta verso casa, coi ragazzini dietro che le tamponano il sacco. Finché sopravviene il figlio che, vedutala, le corre incontro e, con carezze, con parole ferme e supplichevoli, la persuade a dare a lui il sacco. Quella resiste, gli sfugge, infine cede. Egli accosta il sacco al muro, prende la madre per mano. Ora vanno insieme a casa, e il figlio protegge la testa della madre sotto l’ascella, teneramente” (Gli ombelichi tenui, parte seconda, Ibidem).
Probabilmente anche in Antonio Castelli c’è il profondo, e forse inconscio, desiderio di un figlio pronto ad accoglierlo, a prenderlo per mano e a salvarlo.
Desidero ringraziare il mio amico Angelo Ciolino per i suoi suggerimenti e, soprattutto, per avermi incoraggiata a portare alla luce queste mie riflessioni scritte oltre un anno fa, in una particolare ‘stagione dell’insonnia’ della mia vita.
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Commenti
Giuseppe Maggiore -
"Su Antonio Castelli, scrittore"
Complimenti!
Un'umana interiorità esteriorizzata con acume letterario non scevro da profonda sensibilità artistica e partecipazione.
La capillare analisi dispiegata sulle considerazioni espresse da Antonio Castelli nelle sue opere citate rivela nell'Analista una profonda valenza culturale e una capacità introspettiva di tutto rispetto.
E' una dissertazione critica, la Sua, degna delle migliori antologìe.
Ancora complimenti!