10 Gennaio 2014, 16:38 - Giuseppe Maggiore [suoi interventi e commenti] |
Tra storia e leggenda:
“DELLA STATUA DELL’ECCE HOMO DI CEFALU’”
di Giuseppe Maggiore
Le notizie sotto riportate non derivano da documenti (tranne quelli notarili che assegnano per lascito la proprietà del manufatto), ma sono state tramandate da padre in figlio fra i diretti interessati alla cura della Sacra Edicola dell’ “ECCE HOMO” di Cefalù, oggi a me devoluta nella qualità di ultimo discendente in linea diretta della prosapia
Fino a che punto questa storia sia attendibile io non lo so.
So, comunque, che in tal guisa, oralmente, sempre è circolata nella mia famiglia.
Nicolao Maggiore (1750/1820) era un uomo benestante dalle molteplici iniziative. In gioventù era stato artigiano, poi, per poco tempo, aveva funto da “razionale” (amministratore) in una congregazione religiosa che operava nella nostra città e infine, in là con gli anni, si era dato al commercio.
Commerciava in ogni genere commerciabile e portava avanti la carretta con una certa dose di fortuna.
A metà del cammino di sua vita (per ricordare Dante) s’era congiunto in matrimonio con Monica Spinnato, dalla quale aveva avuto quattro figli: Carmelo, Francesco, Antonio e Anna.
Ora pare che in uno dei suoi viaggi a Lipari, intrapreso fra la fine del ‘700 ed il principio dell’ ‘800, viaggi che egli compiva periodicamente per provvedersi di pomice che poi rivendeva in patria traendone un giusto profitto, stivata già la merce su un barcone e in attesa di prendere il mare per ritornare a Cefalù, si sia trovato a passare per caso dinanzi la bottega di un artigiano scultore, il quale, ben conscio anche a quei tempi che la pubblicità è l’anima del commercio, aveva esposto i propri lavori immediatamente sulla strada accanto alla porta del proprio opificio.
C’era di tutto fra quella merce: pastori di terracotta, piatti, “lemmi”, “cantari”, soprammobili, recipienti di vario genere e statue di Santi, della Madonna e del Cristo.
Ma più di tutti i pezzi esposti, ad attirare l’attenzione e l’interesse del Nostro fu proprio un simulacro dell’Ecce Homo a grandezza quasi naturale, lavorato in terracotta, che, a parte le fattezze ben rese, aveva un’espressione particolarmente suggestiva e carismatica: un viso umano pregno di una accettata sofferenza e uno sguardo penetrante e benigno rivolto al passante, quasi a volergli significare un preciso messaggio: “… Vedi come soffro? Lo faccio per te!.... “
A onor del vero a questo punto bisogna pur riferire che Nicolao non era un fervente cattolico e neppure osservante. Si, certo, era un onest’uomo che aveva eletto a suo dogma la massima: “Non fare agli altri ciò che non vorresti che fosse fatto a te stesso”; ma tale sua radicata convinzione traeva origine più dalla sua umanità e dalla caratteriale rettitudine dei costumi suoi che dalla fede (verso la quale, tuttavia, nutriva quel profondo rispetto che è giusto che venga tributato alle certezze altrui), perché credente non era. E se pure ammetteva l’esistenza di un Essere Creatore Universale, ad ogni modo nutriva le più ampie riserve sulla estrema bontà e misericordia che Gli venivano attribuite.
Posto ciò, bisogna riconoscere che era un perfetto gentiluomo, o, almeno, si comportava da tale e dai suoi concittadini e anche altrove era tenuto in gran conto.
La visione, pertanto, di una tale scultura toccò vivamente il Nostro, preminentemente nei suoi interessi commerciali. Infatti, data l’espressione del viso della statua, la sua buona fattura, il suo atteggiamento carismatico coinvolgente, a buon diritto egli ritenne che avrebbe potuto trarne un consistente guadagno se l’avesse rivenduta ad alcuna delle pie congregazioni religiose che operavano nel paese natio, se non addirittura alla stessa compagnia dei Bianchi presso la quale egli aveva prestato saltuariamente i suoi buoni uffici di razionale.
Così si produsse nell’acquisto. Ebbe, a dire il vero, qualche difficoltà a far capitolare il bravo artigiano-artista che l’aveva modellata a cedergliela, anche perché proprio questa statua pare fosse stata già promessa a terzi; ma poiché costoro non si erano ancora praticamente presentati per saldare il conto e ritirarla, ed era già trascorso un mese, Nicolao, facendo leva su ciò ed aggiungendo qualcosa in più al prezzo richiesto, se l’aggiudicò con buon grado dell’artista. E fattala caricare sul barcone dove aveva stivato la pomice, salpò alla volta di Cefalù con l’animo lieto e leggero di chi ha fatto un buon affare.
Ma poiché la serenità non può allignare sempre nell’animo dell’uomo, perché, altrimenti, la vita sarebbe un eden e non anche un inferno, il fatto fu che si produsse un violento fortunale a guisa di quello che molestò il gran Conte Ruggero durante la storica traversata da Salerno a Palermo tanto da ingenerargli il famoso voto che viene costantemente ricordato.
Di bel nuovo, infatti, la calma delle acque si tramutò in tempesta e il legno che si trovava già a metà navigazione tra Lipari e Cefalù fu più volte sul punto di naufragare.
Nicolao perdette la fiducia nella sua buona stella e cominciò a temere, più che per il ricco carico, per sé, per la propria preziosa vita. Immaginò una morte orribile fra i flutti, paventò di non poter più abbracciare i propri figli, alcuni dei quali ancora in tenera età, vide la propria moglie già priva di qualsiasi sostegno e della sua preziosa competenza negli affari e, angosciato, fu certo di una sua immediata rovina. Riconoscendo, altresì di non esser mai stato uno stinco di santo in fatto di religione, temette che il buon Dio, in una ipotetica sua salita al cielo, non si sarebbe dimostrato benigno verso di lui e vide chiaramente le fiamme dell’inferno (nel quale non aveva mai creduto) prossime a divorarlo.
Il coacervo di tutte queste simultanee terribili visioni lo ridusse moralmente a terra; ed egli, nella stiva del barcone, inconsciamente tenendosi abbracciato alla statua quasi a un salvagente, congiungendo le proprie guance a quelle dure della terracotta, chiese perdono a Dio di tutti i suoi nutriti e propalati dubbi e Lo implorò di non voler guardare ai propri peccati e di perdonarlo e di salvarlo per questa volta dal terribile destino che pareva apparecchiarglisi, promettendo solennemente, come fece Ruggero, non certo di costruire una cattedrale nel luogo del salvamento e nemmeno una cappelletta, per la verità, bensì di comportarsi per l’avvenire da buon credente, sforzandosi di addormire il proprio senso critico e la propria saccente ironia nei suoi rapporti col Divino. Giurò, inoltre, che mai e poi mai si sarebbe disfatto della statua alla quale si teneva avvinghiato, ma che anzi l’avrebbe tenuta carissima per sé e per i suoi discendenti.
Tutto qui. Ognuno, certamente, nel bisogno, promette ciò che può; tranne, poi, nella stragrande maggioranza dei casi, a dimenticare le promesse giurate appena cessato il pericolo. Perché è una costante di certa umanità quella di rivolgersi al Cielo durante le avversità, pur razionalmente credendoLo una pietosa chimera.
O che i cieli, inteneriti dalla disperata prece dell’affannato, abbiano optato per l’indulgenza o che la insorta tempesta avesse tracimato il suo acme, di fatto avvenne che i venti cessarono di sventagliare le vele e la furia delle acque smise di vessare il povero legno e i suoi occupanti cedendo il posto ad una calma piatta, irreale, nel breve spazio di tempo di un quarto d’ora; tanto che il barcone potè proseguire la sua rotta e di lì a qualche ora approdare felicemente e senza danni od altre traversìe nella accogliente rada di Cefalù.
Nicolao, ritornato in sentimento e in forze, gioiosamente sbarcato e rincasato, cominciò a ragionare fra sè e sé sugli eventi occorsigli e fu assalito da dubbi. Perfettamente conscio del proprio modo di pensare, delle proprie abitudini, delle proprie intemperanze verbali quando qualcosa gli andava di traverso, delle proprie convinzioni incredule, dopo una notte insonne spesa a coprire in lungo e in largo la distanza che separava una parete dall’altra nel salotto della sua casa dove aveva fatto portare la statua e riguardandola spesso, quasi a trarre conferma ai suoi ragionamenti dalla particolare espressione del Cristo flagellato, ben sapendo che prima o poi la fervente fede ingeneratagli dal corso pericolo se ne sarebbe volata via al primo disappunto, al primo manrovescio del quotidiano, e, d’altro canto, non volendo fermamente trovarsi a mancare alla promessa votiva fatta, si rese conto di rimaner fermo ancora al punto di partenza con i suoi ragionamenti, non apparendogli più alcuna via d’uscita, non foss’altro che una soluzione onorevole per lui che lo togliesse dalla presente insorta ambascia, senza, però, pregiudicarne il voto.
Ed in questa tribolazione dell’animo si dibatteva, quando inaspettatamente sentì picchiare veementemente al portone di casa.
Era il suo fratello Giuseppe che lo veniva a trovare, mostrando, tuttavia, un atteggiamento insolitamente esagitato.
Era costui uomo pio e timorato di Dio; commerciante pure lui seppure nel settore esclusivamente alimentare, tutto casa e chiesa, ma più chiesa che casa, che passava la maggior parte del suo tempo, mentre nella sua bottega aspettava i clienti, a recitare sommessamente orazioni e giaculatorie, convintissimo che in tale modo avrebbe, nell’ora suprema, facilitato il suo ingresso in Paradiso.
Nicolao andò ad aprire e fu edotto del motivo della visita.
Pare che Serafina, la figlia di Giuseppe di quattr’anni, avesse disavvedutamente ingerito per sbaglio qualche sorso di saponata che si trovava in una bottiglietta e non riusciva a vomitare, neppure ingerendo acqua calda e Giuseppe correva dal fratello, che sapeva ritornato, per chiedergli se si trovasse un qualche emetico, essendo lo speziale del paese introvabile e la sua bottega chiusa.
Nicolao, che commerciava di tutto, andò a rovistare tra la sua merce in un vecchio scaffale alla ricerca dello sciroppo di ipecacuana che sapeva avere. Frattanto Giuseppe, che era rimasto ad aspettare nel salotto, vide la statua dell’Ecce Homo e preso da moto improvviso, irrefrenabile e istintivo, che d’altronde gli era congeniale, le si buttò ai piedi piangendo, pregando ed implorando la grazia per la propria figlia.
E, tornandosene a casa recando la mistura salvatrice, trovò, evento inspiegabile, Serafina in sentimenti: la bambina aveva vomitato spontaneamente e adesso stava bene e addirittura giocava con la bambola.
Giuseppe gridò al miracolo assieme alla moglie Terracina Serafina che aveva sposato nel 1772. Tornò, allora, di corsa a casa del fratello e si profuse in orazioni di riconoscenza dinanzi al simulacro. Quindi implorò il germano di vendergli la statua a qualsiasi prezzo.
Due Immagini del 1920 ( proprietà dell'autore)
Nicolao non credette alle proprie orecchie. Quale migliore collocazione avrebbe potuto avere la statua dell’Ecce Homo se non nella casa di Giuseppe, casa che, fra l’altro, si trovava proprio nel corso Ruggero e, per di più, accanto alla Cattedrale? Là sarebbe stata curata, venerata ed osannata ad ogni piè sospinto. Vide risolversi d’un tratto tutti i problemi che l’avevano vessato e che gli avevano tolto il sonno a seguito dello scampato pericolo e del conseguente voto. Così gliela cedette di cuore, senza richiederne in cambio alcun prezzo, contento, anzi, della onorevole soluzione determinatasi. Né s’ebbe a sentire in colpa per non aver personalmente adempiuto al voto fatto perché, in fondo, la statua veniva ceduta a titolo gratuito e sempre in famiglia restava e lui avrebbe potuto onorarla ogniqualvolta avesse voluto.
Dal canto suo, Giuseppe, fu più che felice del ricevuto donativo al quale inconfutabilmente attribuiva l’estemporaneo risanamento della figlia e se ne infervorò a tal punto che in una stanza, la migliore, della sua abitazione, che era ubicata proprio sopra l’attuale edicola dell’Ecce Homo, fece costruire una nicchia e, collocatavi la statua, non mancava giorno di riunire lì tutta la propria famiglia a recitare le giornaliere orazioni.
Ora avvenne che una notte il buon Giuseppe ebbe un sogno. Gli parve che il simulacro dell’Ecce Homo, vivificato, si avvicinasse al suo letto e lo svegliasse toccandogli un braccio. Il brav’uomo si stropicciò ben bene gli occhi e, come se l’apparizione fosse più che naturale, chiese cosa si volesse da lui.
Il Cristo allora parlò. Disse che non voleva che il suo simulacro fosse tenuto in quella stanza, circoscritto alla venerazione di quel solo focolare, ma che intendeva che lo Stesso fosse collocato all’esterno, in un costruendo apposito tabernacolo, per essere esposto al pubblico culto.
Tale intendimento fu senz’altro recepito ed eseguito dal buon Giuseppe, che, sin dall’indomani istesso, provvide alle operazioni edili del caso, realizzando una nicchia in muratura nella parete esterna della sua casa che fronteggiava la pubblica strada. In essa allocò la statua con gran concorso di amici e parenti e con solenne cerimonia religiosa.
Da allora iniziò per il simulacro una venerazione pubblica che non si è più estinta; e non fu raro che qualcuno vantasse d’aver ricevuto qualche grazia dall’Ecce Homo.
Di lì a poco la semplicità della costruzione si arricchì di due colonne scanalate laterali con sovrapposto frontone, il tutto sempre in muratura, dando la forma di tempietto al complesso e il mio avo Giuseppe diede inizio alla tradizione (che ancor oggi si mantiene) che ogni Venerdì Santo, dopo la rituale processione che si snoda per le vie del paese passando anche dinanzi al simulacro dell’Ecce Homo, la banda musicale si riuniva dinanzi alla Sacra Edicola e suonava in segno di omaggio dei pezzi consoni alla particolare ricorrenza liturgica, ricevendo, poi, come guiderdone, un bicchierino di rosolio bevuto su, in casa dell’anfitrione.
Questa tradizione della musica non è stata mai interrotta, con l’attuale semplice sostituzione, tuttavia, del “bicchierino di rosolio” con un modesto donativo monetario.
Verso la fine dell’800 dei pescatori cefalutani, durante la usuale pesca al largo della rada, nel tirare su la rete la sentirono alquanto appesantita e di primo acchito pensarono ad una provvidenziale abbondanza di pescato. In realtà, dipanate le maglie, trovarono un bassorilievo marmoreo impigliato fra di esse nel quale era scolpito il Cristo che verosimilmente parla ai fedeli. Attesane l’ampiezza che era consona alla capacità della sacra Edicola, devotamente destinarono la scultura all’abbellimento della Stessa.
Foto S. Culotta - 2011
Nel 1947, come recita un’epigrafe, la Famiglia Portera, assolvendo ad un voto, ricoprì con marmi le due paraste laterali, la sovrastante trabeazione e il timpano, dando al manufatto dell’Ecce Homo l’aspetto che si può ammirare oggi.
Giuseppe Maggiore
L'Edicola addobbata - foto dell'autore, 2005 | Foto Salvatore Culotta, 2011 |
Un momento della preparazione
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Commenti
Giuseppe Fazio -
Grazie
Gent. sig. Maggiore, grazie per questo interessante articolo che, anche se riporta solo fonti orali, mi sembra attendibile nei suoi dati essenziali. Io, da storico dell'arte, le posso dire che la datazione dell'opera è assolutamente compatibile con le date che lei riporta; che la scultura è sicuramente un prodotto siciliano; e che il fatto che la statua sia in terracotta (io ho sempre pensato che fosse in legno) la rende ancora più interessante.
Assai verosimile è anche il racconto del ritrovamento del rilievo con la "Predica di Cristo" da parte di marinai, infatti esso è un manufatto cinquecentesco parte di un complesso più ampio che non trova attualmente riscontri a Cefalù, probabilmente disperso in mare durante un naufragio. Era infatti usuale che le opere d'arte viaggiassero via mare per giungere alla loro destinazione. Nel nostro caso specifico il rilievo mi sembra prodotto del Manierismo messinese della seconda metà del Cinquecento.
Grazie anche per le belle immagini fotografiche. Mi ha colpito molto la foto che mostra l'edicola nel 1920 e devo dire che i lavori del 1947, anzichè migliorare, hanno notevolmente danneggiato e peggiorato l'aspetto settecentesco del complesso devozionale.
Giuseppe Fazio
Giuseppe Maggiore -
Tra storia e leggenda. Della Statua dell'Ecce Homo.
Egregio Sig. Fazio, sono io che La ringrazio per le competenti precisazioni storiche addotte in merito al manufatto di cui in epigrafe. Non sbaglio dicendo che Lei è stato il primo a farle.
Voglia gradire il senso della mia più viva stima (per quanto non abbia il piacere di conoscerLa).
Cordialmente.
Giuseppe Maggiore.