Poesia e Pittura: una relazione antica

Ritratto di Rosalba Gallà

6 Gennaio 2014, 13:25 - Rosalba Gallà   [suoi interventi e commenti]

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POESIA E PITTURA: UNA RELAZIONE ANTICA
Antonino Cicero e Giuseppe Forte
di Rosalba Gallà

 

"La pittura è poesia silenziosa, la poesia è pittura che parla".
(Simonide, poeta greco, 556-468 a.C. - in Plutarco, Della gloria degli ateniesi, II sec.)

“Ut pictura poesis” - La poesia è come la pittura.
(Orazio, Ars poetica, I sec. a.C.)

“La pittura è una poesia che si vede e non si sente, e la poesia è una pittura che si sente e non si vede”.
“La pittura è una poesia muta, e la poesia è una pittura cieca”.
(Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, XVI sec.)

Il rapporto tra poesia e arti visive, pittura in particolare, è molto antico e i dibattiti sull’argomento sono stati sempre ampi e articolati. Nel corso dei secoli sono state percorse almeno due vie: quella della ‘contaminazione’ tra le due forme espressive e quella dell’‘accostamento’ tra le due manifestazioni artistiche.

Per quel che riguarda la prima via, già Teocrito, nel III sec. a.C., con la sua Siringa, tentava di trasformare le parole in immagine:

Οὐδενὸς     εὐνάτειρα      Μακροπτολέμοιο     δὲ    μάτηρ
μαίας        ἀντιπέτροιο      θοὸν      τέκεν       ἰθυντῆρα,
οὐχὶ  Κεράσταν   ὅν   ποτε   θρέψατο  ταυροπάτωρ,
ἀλλ'οὗ πειλιπὲς αἶθε πάρος φρένα τέρμα σάκους,
οὔνομ'  Ὅλον,  δίζων,  ὃς  τᾶς  μέροπος  πόθον
κούρας   γηρυγόνας   ἔχε   τᾶς   ἀνεμώδεος,
ὃς      μοίσᾳ     λιγὺ     πᾶξεν     ἰοστεφάνῳ
ἕλκος, ἄγαλμα πόθοιο πυρισμαράγου,
ὃς     σβέσεν     ἀνορέαν      ἰσαυδέα
παπποφόνου Τυρίας τ'ἐξήλασεν.
ᾧ  τόδε   τυφλοφόρων   ἐρατόν
πῆμα Πάρις θέτο  Σιμιχίδας·
ψυχὰν     ᾇ,   βροτοβάμων,
στήτας  οἶστρε Σαέττας,
κλωποπάτωρ, ἀπάτωρ,
λαρνακόγυιε, χαρείς,
ἁδὺ         μελίσδοις
ἔλλοπι    κούρᾳ,
K α λ λ ι ό π ᾳ
νηλεύστῳ.  


E ancora nel Novecento, Guillaume Apollinaire proseguirà questo percorso con la creazione di Calligrammi, in maniera tale da dare all’occhio la visione complessiva del messaggio poetico:

Il Futurismo porterà alle estreme conseguenze il processo di contaminazione tra testo poetico e immagini, come mostra la poesia visiva di Corrado Govoni, Il palombaro:

Anche i pittori inseriranno parole nelle loro opere. Un esempio per tutti, l’opera di René Magritte:

Il percorso che intendo seguire in questa sede è però relativo all’accostamento tra poesia e opera pittorica, non quello della loro contaminazione, per mostrare, ancora una volta, come arte verbale e arte iconica, con i loro diversi linguaggi e con le loro diverse tecniche, possono essere splendide vie per esprimere la stessa percezione del mondo e dell’esistenza, gli stessi stati d’animo e labirinti interiori.

L’accostamento tra le due arti, a sua volta, può essere voluto dagli autori (e si ha un vero e proprio intreccio) o può essere scoperto da altri, dopo che le due manifestazioni artistiche hanno fatto un percorso autonomo.

Mi è di aiuto, in questa circostanza, il ricordo di un interessante incontro, avvenuto nel marzo 2005 presso l’Istituto Statale d’Arte di Cefalù, oggi Liceo Artistico, con lo scrittore Vincenzo Consolo sul tema “Rapporti tra letteratura e pittura” in cui l’illustre ospite ha evidenziato quanto fosse antico il rapporto e “l’intreccio” tra le due forme artistiche: “Da sempre la letteratura si ispira alla pittura e la pittura illustra la letteratura. La letteratura si svolge nel tempo, la pittura si staglia nello spazio: la letteratura ha uno sviluppo lineare, la pittura usa colori e forme che si collocano nello spazio”. Tuttavia, la distinzione tra letteratura e pittura sulla base della temporalità e della spazialità viene meno quando si pensi ad un racconto pittorico sequenziale, come nel caso di un trittico o di un retablo, e risulta superata l’dea che la poesia esprima l’azione, mentre l’arte visiva i corpi. Consolo ha fatto riferimento, nel corso della trattazione, ad autori che hanno affrontato l’argomento, in particolare a Gotthold Ephraim Lessing con l’opera Laocoonte - Dei limiti della pittura e della poesia (1766) e a Cesare Segre con l’opera La pelle di san Bartolomeo – Discorso e tempo dell’arte (2003), per evidenziare poi che “l’ispirazione della letteratura alla pittura può essere esplicito (come nelle sue opere: Il sorriso dell’ignoto marinaio, Retablo, Lo spasimo di Palermo) o implicito”. Lo scrittore ha poi parlato di questo rapporto facendo riferimento a Cervantes, Goya, Proust, Baudelaire e altri artisti e scrittori della cultura internazionale: ma, in questa circostanza, vorrei riportare solo un particolare accostamento, quello tra alcune terzine del X Canto del Purgatorio di Dante Alighieri e l’Annunciazione di Simone Martini. Diceva Consolo: “Il rapporto tra letteratura e pittura risale a tempi molto lontani, quando si cominciò a rappresentare un momento particolare del Vangelo, l’Annunciazione, in cui Maria si presenta stupefatta, ma disponibile all’accettazione del proprio destino. I pittori antichi rappresentarono il momento riportando nel quadro le parole pronunciate dall’Angelo, creando così un rapporto esplicito tra parola e icona. Nel X Canto del Purgatorio di Dante c’è come una visione di questi quadri […] e l’autore scrive dei versi che sembrano  la lettura dell’Annunciazione di Simone Martini”.

Ecco i versi 34 - 45 ai quali faceva riferimento Vincenzo Consolo, accostati all’opera di Simone Martini:

L’angel che venne in terra col decreto
de la molt’anni lagrimata pace,
ch’aperse il ciel del suo lungo divieto,

dinanzi a noi pareva sì verace
quivi intagliato in un atto soave,
che non sembiava imagine che tace.

Giurato si saria ch’el dicesse “Ave!”;
perché iv’era imaginata quella
ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave;

e avea in atto impressa esta favella
“Ecce ancilla Dei”, propriamente
come figura in cera si suggella.

E’ evidente che Dante non conoscesse l’opera di Martini, essendo morto nel 1321, mentre l’opera pittorica è datata 1333. E’ uno dei casi in cui gli artisti seguono strade autonome che solo successivamente saranno accostate da altri.

E così, pur senza pretendere di collocarmi al pari di illustri scrittori o critici letterari e d’arte, vorrei tentare anch’io un accostamento tra le opere di due persone amiche, così come in precedenza ho provato a fare con la produzione poetica e artistica del poeta Santo Atanasio e dello scultore Giovanni Di Nicola (https://www.qualecefalu.it/node/4813).

In questa occasione vorrei parlare della poesia di Antonino Cicero e della pittura di Giuseppe Forte e cominciare da una figura femminile di grande fascino, Penelope.

L’AMORE DI PENELOPE
              

Quanti anni sono ormai?
Le dita si sono raggrinzite
e a volte fanno male.
Gli occhi le si stanno chiudendo,
due piccole fessure da cui
non passa più luce.
Il giorno è al telaio
e poi la notte ancora.
Tanta devozione manca pure
al pescatore con il suo mare.
Ha scoperto suoni mai uditi prima
che entrano dalla finestra.
Ogni stagione è un volto nuovo
e il suo, a volte, non lo riconosce più.
Chiama Ulisse in quelle poche ore
di sonno che le sono rimaste
e pensa ad Itaca, isola maledetta,
dove stenta a confondersi tra le altre donne.
E immagina la sua veste tra le chiome di quegli ulivi.
Sono un tronco avvizzito. Da quanti anni ormai?
Aspetta Ulisse per farsi raccontare cosa c’è oltre Itaca.
Costruisce e distrugge e il giorno
e la notte amano il suo biascicare.
Ulisse è tornato! Ulisse è tornato!
C’è un popolo in festa. È tornato.
Quanti anni sono ormai?

Condizione umana, Olio su tela

Quella di Penelope, così come ci è stata tramandata dal poema omerico,  è una figura complessa, simbolo della fedeltà coniugale, ma anche donna astuta in grado di raggirare i suoi pretendenti, di tessere la sua tela di giorno per disfarla di notte, lasciando così trascorrere il tempo e, con il suo apparente non agire, decidere il destino di Itaca, nell’attesa del ritorno di Ulisse. Tra le scelte possibili, Penelope ha operato quella più difficile, quella che richiedeva una forza interiore immane, un logoramento esasperante. Ed è proprio quest’ultimo aspetto che Antonino Cicero ha evidenziato: il corsivo nel testo Quanti anni sono ormai?, all’inizio, nel corpo e alla fine della lirica, insiste proprio sugli anni trascorsi nell’attesa e infondono nel lettore un senso di stanchezza, la perdita di un entusiasmo accentuato dalla consapevolezza di essere un tronco avvizzito. Così, mentre il popolo è “in festa” per il ritorno di Ulisse, è come se noi sentissimo il tono sommesso e mesto di Penelope, quasi un pianto: Quanti anni sono ormai? Una vita chiusa entro il cerchio di Itaca, dove il trascorrere delle stagioni si è disegnato sul volto della donna, volto che lei stessa stenta a riconoscere, una devozione assoluta che “manca pure / al pescatore con il suo mare”, per poi ritrovarsi ancora una volta sola con se stessa  a chiedersi, mentre gli altri festeggiano, Quanti anni sono ormai?

Così, nella tela di Giuseppe Forte, tra le mille sfumature di azzurro e di rosa, nel mare, nel cielo e nella roccia, che potrebbero indurre alla gioia e alla “festa”, una donna dall’aspetto dolce e sofferto, con una postura un po’ abbandonata e il volto appoggiato ad una mano, ad occhi chiusi sembra interrogarsi sul senso della sua esistenza e delle sue scelte, se è stato un bene rimanere al di qua del muro e rinunciare a quell’orizzonte lontano.

Sembra un pianto sommesso o, meglio, un “canto sommesso”, in cui le lacrime che “paiono tutte uguali” ma che sono tutte differenti, perché differente è il sostrato esistenziale personale da cui esse sgorgano, si adagiano “sui respiri interrotti”.

 

LACRIME
(Canto sommesso)


Ho ascoltato le mie lacrime
zampillare come gocce d’autunno,
dentro ad una ciotola sporca.
Le raccolgo con mano ferma
e ne disseto canarini e pause sinfoniche.
Le lacrime paiono tutte uguali.
Acqua d’insieme e di concetto,
benedetta da una commozione
che stenta nelle sue fattezze
ad esser riconosciuta.
Gli occhi s’acquietano,
massaggiati da emozioni informi
e il corpo stramazza al suolo
come bestia trucidata da pallottole appuntite.
E conto i bossoli per terra
senza aspettarmi che vi siano tutti.
Pianto diurno
tra luce e teatro;
pianto di notte
senza confusione per le strade,
nel silenzio di una campagna
che t’invoglia a gettare dentro
quel che hai dentro.
Distese grigioverdi,
lacrime assenti, seducenti, d’amanti incompresi
lotta di convenzioni e di fedeltà
primizie carnali e lacrime ancora,
pure ruvide come di coccodrillo, quasi
e lacrime, sempre, d’ogni fattezza e d’ogni forma,
strutture informi che v’adagiate sui respiri interrotti.

Condizione umana, Olio su tela

 

Lacrime, “strutture informi”, che danno forma al dolore, ad ogni tipo di dolore, anche a quello di un condannato a morte, anche a quello del suo secondino: sì, del suo secondino, con le sue “guerre personali”, con la sua vita “scalzo e senza affetti”, “povera bestia da circo / ammaestrato al dolore altrui”, sconfitto dalla lucidità del suo prigioniero che chiede solo un regalo: “una sera, / una notte ed un mattino / di cielo e di sole, / ancora una volta”, una notte intera per potere asciugare le lacrime di coccodrillo del suo aguzzino. Così, questa poesia ci ripropone l’alterna vicenda dei ruoli umani, di vittima e carnefice, mai del tutto definiti, perché anche il carnefice porta dentro il suo dolore e le sue debolezze.
 

PREGHIERA DI UN CONDANNATO A MORTE
 

Secondino delle meraviglie
accarezza la mia paura
diroccata sotto le macerie
dei pensieri vuoti,
appestati dall’immobilità
delle ore.
Sorreggi i miei passi
lungo le linee tratteggiate
dal protocollo.
E non vantarti
davanti ai miei occhi lucidi,
della tua retta via
vuota come il tuo animo
indurito dagli anni di servizio.

Secondino delle meraviglie
portami nel tuo paese
fuori dalle mura bianche,
raccogli l’avorio delle culture
sparse nelle foreste morenti
e fammene una corona
di preghiere notturne.
Raccontami le tue guerre personali
e regalami la tua famiglia
e il tuo stipendio
sereno e incosciente.

Secondino delle meraviglie
nascondimi sotto il cuscino
ancora per una sera;
regalami le candele colorate
delle torte augurali;
accoglimi tra i tuoi cani
dentro il recinto di pietra
e filo spinato,
all’aria aperta e trapassato
dalle ciminiere.
Gettami il cibo dall’alto
dentro la mia ciotola;
bastonami, se piango,
al freddo delle tue mani,
ma regalami ancora una sera,
una notte ed un mattino
di cielo e di sole,
ancora una volta.

Secondino delle meraviglie
voglio essere il tuo schiavo
ma distruggi quella sedia e quei
veleni sui lettini morbidi di morte.
Secondino dei miei stivali,
non vali niente,
perché quel niente
lo vedrò appena aperta
quella porta,
scalzo e senza affetti.

Secondino delle meraviglie
augurerei la mia stessa fine
al tuo sorriso spietato,
ma so che non è colpa tua,
povera bestia da circo,
ammaestrato al dolore altrui
senza battere ciglio.
Adesso puoi,
sì, adesso puoi piangere tu,
anche tu.
Io ho smesso, ed
ho ancora una notte intera
per asciugare
le tue lacrime di coccodrillo.

Condizione umana, China


Entrambi sconfitti, dunque, entrambi prigionieri l’uno dell’altro e, fondamentalmente, ciascuno di se stesso, con il corpo che “stramazza al suolo / come bestia trucidata da pallottole appuntite”.

Condizione umana, Olio su tela

 

Pennellate potenti, le parole di Antonino Cicero, potenti quanto quelle di Giuseppe Forte: parole brucianti, le pennellate di Giuseppe Forte, brucianti quanto quelle di Antonino Cicero.
Nella tela, l’uomo può essere sia il secondino che il condannato a morte, perché entrambi sono prigionieri e vivono in un mondo senza orizzonti, fatto di blocchi litici, di rigide chiusure, di orizzonti mancanti, in cui il sole è un non-sole, è falso, e nella fissità dell’ambiente emerge il corpo sofferente e, in particolare, la mano protesa verso l’esterno, verso l’osservatore, a invocare aiuto: quasi il corpo di Cristo, drammatica condensazione di tutte le sofferenze umane.

Uomini dal volto nascosto dalle scorie della loro esistenza, dai profili appena accennati e disarticolati, alla ricerca di una identità che nella tela di Forte emerge solo in un ‘quadro nel quadro’, dove il ritratto ricostruisce il volto dell’uomo, simbolo della complessa relazione tra realtà e finzione, tra identità e apparenza, tra autenticità esistenziale e maschera sociale.

 

Se l’essere umano è spesso schiacciato dalle sue stesse scelte o, comunque, dalle circostanze in cui si è trovato a vivere, può accadere, purtroppo è accaduto, che un evento storico folle intervenga a mutare il corso della vita di popoli interi e di singole esistenze, fino a spingerle alla scelta della non vita, dove a ripresentarsi è “il solito ricordo”, ma dove Nora, “una delle tante” non vuole “avere più memoria”. Ciò che resta di un’esperienza come la shoah è la “paura della vita”.

 

LE PAROLE DI NORA ESENSTEIN,
UNA DELLE TANTE
                                                    

“Tra qualche tempo
smetterò di contare le mie rughe;
ho capito che non ha tanto senso
rincorrere i paradossi.
Tra un po’ rimarrò alla finestra:
non è più tempo neanche per un tè.
Una pausa strana che mi accarezza
l’anima, quel brandello di lucciola
che ancora mi trascino dietro.
Tra qualche tempo è il solito ricordo
e non voglio avere più memoria.
Gli anniversari ho smesso di frequentarli
quando ne avevo otto di anni.
Appena entrai là, odiai i cani.
Non riesco più ad accarezzarne uno.
Uno di quelli mi sbranò un braccio e
il numero furono lesti a bruciarmelo sull’altro.
Sono sola al mondo.
Mio padre, mia madre, mia nonna,
mio fratello e mia sorella li ho perduti uno ad uno.
E i miei occhi erano stanchi.
Fu come perdere ad un brutto gioco
tutte le biglie colorate che mi restavano.
Una ad una.
Non ce l’ho fatta a risposarmi.
Ho avuto paura della vita; che mio figlio
potesse essere un altro numero.
O forse ho avuto più paura che potesse farsi
crescere i baffi, indossare un’uniforme
ed alzare teso il braccio.
Non sopporto la storia che si ripete.
A otto anni non decisi io di non vivere;
fuori da quei cancelli raccolsi quel che restava
della mia pelle e ritornai a casa.
Per decidere di non vivere. Ancora una volta”.

Condizione umana, Olio su tela

 

Paura di vivere, dunque, paura di concepire altra vita, per non mettere al mondo altre vittime, ma anche per non mettere al mondo nuovi possibili carnefici.
Poesia intensa, dove ogni parola ha un peso, dove ogni verso incide l’anima, dove gli enjambement rallentano e spezzano la lettura là dove è proprio necessario: “Una pausa strana che mi accarezza / l’anima”. C’è tutto il bisogno di una carezza interiore, di una dolcezza che possa sfiorare una vita infranta, che in qualche modo compensi l’incapacità acquisita di ritornare nel mondo, di accarezzare un cane (ritorna, per antitesi, l’immagine della carezza) e la rinuncia alla maternità:  “Ho avuto paura della vita; che mio figlio / potesse essere un altro numero. / O forse ho avuto più paura che potesse farsi / crescere i baffi, indossare un’uniforme / ed alzare teso il braccio”.
Efficace, visiva e pittorica l’immagine con cui viene resa quella terribile esperienza: “Fu come perdere ad un brutto gioco / tutte le biglie colorate che mi restavano. / Una ad una”.

Nella tela di Giuseppe Forte, io vedo Nora, raccolta e ripiegata nelle sue memorie, chiusa nel suo dolore, desolata per l’assenza delle persone perdute e di quelle mai nate, in procinto di mettersi alla finestra per fissare il mondo senza guardarlo: “non è più tempo neanche per un tè”.

Ed ecco la sofferenza che racchiude simbolicamente in sé tutti i dolori dell’umanità, con parole e immagini a cui non vorrei aggiungere nulla, se non per evidenziare che la ‘materia’ scelta da Forte, i vecchi fondi di botte con tutte le spaccature provocate dal tempo, sembra riprodurre i ritmi spezzati della poesia,

 

    

Fondi di botte, Soggetti religiosi

 

SANTO VENERDÌ
 

Cantare e cuntari
dentro i vicoli
in cui si vucia
e pesci e grotte,
verdi di fichi e agnelli
trapuntati,
e per tragitti di pietra
veder passeggiare dentro l’urna
imbevuta di vasati
quel Cristo morto,
che par dormire,
e gli incappucciati
d’inquisizioni e autodafè
cercano e cuntano che ogni identità
smagrisce al tramonto.
Albeggiano candele e candelore
inservienti di luci immobili e fitto fitto
il silenzio che sbava sui piedi
e d’ogni ora è il battito di ombre
al passo di zoccoli e centurioni.
La storia gesticola ed appare arduo
ad ogni uomo veder morire se stesso
ed arduo quel gioco ai dadi
ch’ha per posta
il sospiro d’un’ultima preghiera.

 

    

    

Fondi di botte, Via Crucis


 

Condizione umana, China
La storia gesticola ed appare arduo / ad ogni uomo veder morire se stesso / ed arduo quel gioco ai dadi /
ch’ha per posta / il sospiro d’un’ultima preghiera. 

 

Fin qui, come in un climax ascendente, ho presentato l’aspetto relativo alla sofferenza umana, in alcune delle sue possibili sfaccettature. Questo percorso, all’interno delle produzione poetica di Antonino Cicero, come nella produzione pittorica di Giuseppe Forte, è frutto di una mia scelta (pertanto soggettiva e opinabile), perché altri percorsi sono possibili, altrettanto efficaci e praticabili, relativi anche a tematiche più liete e leggere: ad esempio c’è in entrambi gli artisti una grande apertura verso il cielo e le nuvole, espressione sicuramente di fantasia, desiderio, sogno, di arditi voli, di un volere andare oltre il limite della terra.

Nella semplice alternanza di versi e immagini, lascio al lettore il piacere del ‘gioco delle nuvole’.

 

NUVOLE


Non c’è nuvola che possa correre
senza uno sguardo ad aiutarla da quaggiù.

Uno sguardo improvviso, appresso al volo di qualche aereo.
Ho provato a pensarle capaci di farcela da sole
ma è difficile. Se le vedi ne approfittano, spugnose
e avide. A volte le conto, altre è il gioco delle forme.
Ne ho avuto per le mani eserciti mutilati.
Un guizzo e giù un braccio, senza scudo alcuni,
senza testa altri, in corteo.

Ho pensato pure di farmici una famiglia lì dentro.
Ho sempre immaginato bene come dovesse essere la mia
donna e i miei bambini, il profilo morbido e morbido
il corpo e vivaci d’occhi i marmocchi.

E però non ne esco mai a capo.
Ne viene fuori sempre un altro essere
a due teste – e forse andrebbe pure bene, una per i giorni pari
e l’altra per i dispari, per non sentire sempre le stesse cose
a tre seni, cinque occhi, mezzo corpo e mai un bambino sano.
Ho pensato allora di farmici una truppa assoldata di animali.
L’unico è il corvo nero però, che mi passa davanti.
A volte è una rondine
che sporca il bianco e vola via.

Non ne esco mai a capo, ma le guardo spumose, morbide.
Mi ci vorrei buttare sopra.
Chissà che sapore avrebbe il sonno lì.

 

Altro tema caro ai due autori è quello della “terra di mezzo” (titolo della poesia di Antonino Cicero), terra di Sicilia, terra collocata al centro del Mediterraneo, luogo di arrivo e di sbarco da secoli, terra di incontro, amata da popoli stranieri che l’hanno desiderata e posseduta, poi perduta e nostalgicamente rivissuta. “E sopra i rami i frutti / tremavano quali seni di ragazze belle / e come rami di salice ben snelle. […] mentre in alto / superbe s’innalzavano le palme / adorne in cima di datteri a collana” (in M. Freni, Il giardino di Hamdis, Sellerio): così si esprimeva Abd ar-Rahman, poeta arabo nato e cresciuto in Sicilia, che scelse l’esilio all’arrivo dei Normanni, esprimendo il rimpianto per quella terra nei confronti della quale avvertiva un forte sentimento di appartenenza. Terra di mezzo, terra del mito, ma anche terra del dolore, della colpa, terra del “canto, / che è cunto”, dove il paesaggio è “il manto del principe / bianco, oro, verde. Ogni stagione / è la regale transumanza della storia”.
Superbi questi versi, che non sono semplici versi, ma pennellate di colore; sono immagini che si fissano sulla tela e ci restituiscono la nostra terra “sospesa tra le acque che / non ci sono altrove” e “La riconosci questa terra / perché non può essere altro”.
E allo stesso modo la riconosci nelle tele di Giuseppe Forte, poesie di colori e forme: una terra altrettanto ricca di forme e colori, così ricca e straripante che non sempre riesci a contenerla all’interno dei confini di un quadro.

TERRA DI MEZZO


La senti dentro, un filo d’aria
che pesa come la colpa,
un profilo di spine aperte sul capo.
La senti dentro, come il crocifisso
di legno scuro sulla parete
ingessata della chiesa.
La riconosci dal canto,
che è cunto, nella voce
addormentata del paese.
È la terra di mezzo,
sospesa tra le acque che
non ci sono altrove.
La riconosci ad occhi chiusi,
tra le greggi impietrite e i casolari
diroccati, lungo i bordi delle strade.
Le chiglie annerite che sbraitano
al sole del mattino, sanno di pesce
buono sul tavolo del bastione.
La riconosci da un fotogramma
questa Sicilia che umetta
le labbra dei voyeurs.
Una terra che acceca, che infiamma
come la donna allo zenit.
Ondeggia, gorgheggia e
partorisce i suoi figli come
sassi piantati sul terreno.
La riconosci questa terra di mezzo,
con le gocciole d’acqua santa in tasca,
flebile sgomento da sagrestia
dove tutto è silenzio.
Sotto il sole i cappelli di paglia
lastricano il giorno di un pastore.
Le cicale sono grilli che frullano
come motori di città.
È la terra di mezzo questo paesaggio
spiantato, col manto del principe
bianco, oro, verde. Ogni stagione
è la regale transumanza della storia.
La riconosci questa terra
perché non può essere altro.
 

    

Paesaggi siciliani, Olio su tela
È la terra di mezzo, / sospesa tra le acque che / non ci sono altrove.

    

    

Paesaggi siciliani, Olio su tela
È la terra di mezzo questo paesaggio / spiantato, col manto del principe / bianco, oro, verde.

Terra di mezzo è la poesia vincitrice del Premio Auser all’VIII Concorso “Poeti e Sognatori” – 2013, organizzato dal Circolo Auser di Lascari, con il patrocinio del Comune di Lascari, non ancora edita in volume.

Tutte le altre poesie di Antonino Cicero, presenti in quest’articolo, sono tratte dalla raccolta La forma perfetta, Edizioni Arianna, Geraci Siculo, 2012.

Le opere di Giuseppe Forte sono tratte dal sito dell’artista (http://www.giuseppefortepittore.it), in cui è possibile ‘visitare’ opere, mostre, recensioni, note critiche di una carriera lunga cinquant’anni.

Voglio concludere con un breve testo di  Antonino Cicero, posto  in epigrafe alla silloge La forma perfetta, che sintetizza, in maniera originale e sottilmente ironica, aspetti poetici e visivi:

Sarebbe bello se riuscissi a scrivere una poesia…”
- disse A., scrivendo “poesia” sullo specchio annacquato dal vapore.
Questa, finalmente, è la prima volta che ne scrivi una…”
                                                           - rispose lo specchio.
                                                                                                    “Già
- fece A.. E chiuse la porta del bagno.

Commenti

Dotta ed esaustiva dissertazione sull'accostamento tra poesia e pittura, condotta con puro stile icastico da Rosalba Gallà.

Intuizione profonda non disgiunta da un bagaglio culturale di notevole spessore, quella della Scrittrice.

Calzante la concezione del binomio "Letteratura e Pittura" espressa da Consolo: che la prima, cioè, si ispiri alla seconda e che quest'ultima illustri la prima; e che "tempo" e "spazio" siano in stretta correlazione.

Personalmente ritengo che l'originaria rivelazione dell'animo umano attraverso l'espressione dell'arte siano stati i graffiti ad evidenziarla.

Pregnanti le liriche di Cicero in netta simbiosi con le tele di Forte.

                                                                                                                                                                                                Giuseppe Maggiore