1 Aprile 2014, 10:20 - Angelo Sciortino [suoi interventi e commenti] |
Imazighen: questo nome, con il quale si indica nella lingua berbera il popolo del deserto – e i Tuareg sono berberi del Niger – significa uomini liberi. I Berberi, e con essi i Tuareg, non hanno mai condotto guerre di conquiste, sebbene si siano difesi con coraggio e spesso con successo contro coloro che tentarono di sottometterli. Ciò perché la loro altissima considerazione della libertà li portava a ritenere che essa fosse un diritto di tutti e non soltanto di un'etnia più forte.
Non è quindi strano che i Tuareg, pur di vivere liberi, amino il deserto senza confini e per questa libertà accettino di vivere in condizioni difficili. Non a caso, quando il colonialismo disegnò i confini, per segnare ciò che apparteneva ai conquistatori, proprio i Tuareg si ribellarono e combatterono in difesa della loro libertà.
Quando questa lotta li vide soccombenti, essi emigrarono. Così accadde, per esempio, quando l'Islam ne conquistò i territori. Allora essi emigrarono in Sicilia, dove li ritrovò Ruggero II, che proprio dei Berberi fece la sua scorta, perché erano alti e forti come i suoi Normanni ed erano persino coraggiosi. Di questa presenza passata rimangono in Sicilia non pochi cognomi, come La Barbera, Barbera, Barberi e così via. Si tratta di una storpiatura del nome berbero.
Cefalù vide i suoi primi Berberi con Ruggero II, quando Egli veniva spesso, accompagnato dalla sua scorta di Berberi, per seguire i lavori della Cattedrale. Giorni fa nella Sala delle Capriate è tornato un Tuareg, per presentare il libro Il deserto negli occhi, scritto dalla giornalista Elisa Cozzarini, che ha raccolto il racconto di Ibrahim Kane Annour, un tuareg esule politico in Italia.
L'incontro è stato molto interessante, perché ha permesso ai presenti di conoscere dalla viva voce di un tuareg il disagio attualmente vissuto da quel popolo del deserto, che ormai da decenni si vede chiuso dai confini territoriali, inventati dalla cosiddetta civiltà, che a ben guardare tale non è. Non può essere civiltà, infatti, tutto ciò che toglie all'uomo la sua libertà.
Il disagio è ancora più insopportabile, se si pensa che i confini sono controllati da governi dispotici, che per la ricchezza accettano persino di esporre i loro popoli agli effetti mortiferi dell'uranio e perseguitano i Tuareg, che vi si ribellano.
In questo senso, quindi, il messaggio del libro – il messaggio di Ibrahim – non ha un valore antropologico, o soltanto antropologico, ma è un messaggio morale, che proprio noi, figli di Ruggero, dobbiamo e possiamo accogliere in nome di un'uguaglianza e della libertà dell'uomo, che nacque proprio in Africa oltre 160.000 anni fa, per poi spandersi su tutta la Terra. Quando questi uomini moderni s'incontrano, devono ricordarsi, come i Tuareg nel deserto, che essi sono fratelli. Non per nulla il DNA mitocondriale, trasmessoci esclusivamente dalla madre, è identico da migliaia di anni in tutti gli uomini. È questa identità genica, che dimostra la nostra appartenenza alla specie umana, che non può essere divisa in razze. I Tuareg questo lo sanno quasi inconsapevolmente, se si parla di consapevolezza scientifica, ed è per questa ragione che essi hanno un'altissima considerazione della donna, al punto di concederle persino di restare unica proprietaria di ogni loro avere nel caso di separazione dei coniugi.
I Tuareg, quando s'incontrano nel deserto, non guardano agli altri come a pericolosi nemici, ma a uomini fratelli, dai quali potranno ricevere aiuto, se ne avranno bisogno. È forse questa la ragione per cui i loro occhi e soltanto i loro occhi rimangono sempre scoperti, perché in essi si riflette la loro anima, come facevano gli occhi di Ibrahim.
Insomma, se un messaggio ho colto nella presentazione del libro e poi nella sua lettura, questo dice che gli uomini, tutti uguali, devono attenersi ai principi della convivenza e non della convenienza.
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