26 Marzo 2014, 16:09 - Giuseppe Maggiore [suoi interventi e commenti] |
“DAL ROMANZO AL FILM”
(“Quantum mutatus ab illo” / come cambiato da quello che era)
di Giuseppe Maggiore
In armonia col pensiero dei tanti grandi Maestri che mi hanno preceduto trattando analiticamente l’argomento, mi sento ragionevolmente in minoranza a dipanarlo anch’io, quantunque il mio cognome farebbe supporre il contrario.
Mi limiterò, pertanto, ad esporre soltanto qualche concetto sul tema dei film derivati da romanzi, sperando che ciò sortisca un positivo interesse da parte della massa dei neofiti.
Intanto debbo subito osservare che è difficile che un’opera che abbia trovato nel genere letterario la sua forma espressiva per eccellenza possa con eguale risultato essere trasposta in film.
I casi di buoni film tratti dalla letteratura sono rari.
Soltanto il “talento” può riuscirvi. La difficoltà sta, appunto, nella trasposizione, nel passaggio, nella catarsi, cioè, dalla forma lessicale a quella cinematografica, figurativa. Due stili diversissimi per quanto per alcuni aspetti complementari.
Infatti risulterebbe enormemente prosaico tradurre in film la trama di un romanzo o romanzero che sia, seguendone pedissequamente il lessico con le sue descrizioni periodali, col suo fraseologico respiro narrativo, con la sua particolare metrica. Col suo stile individualista.
Un’operazione catartica di riduzione del genere presupporrebbe una totale rigenerazione del testo, sfrondandolo da tutte quelle ramificazioni di squisito carattere letterario, che, tuttavia, spesso intraducibili, in un’opera visiva peserebbero inevitabilmente sull’economia del racconto.
Ciò perché il film deve proporre delle azioni ben determinate, deve rendere visibili dei fatti, dei pensieri, che valgano a far scaturire il significato ideologico contenuto nel romanzo, dove tutto è riflessione.
Pertanto per uno sceneggiatore o per un regista impegnarsi in una consimile operazione di riduzione della storia da un testo letterario di pregio per trasporlo in un prodotto cinematografico che ne superi o, tantomeno, ne eguagli il successo e il merito ottenuti dall’opera nella sua forma nella quale è stata concepita, è un impegno molto laborioso che spesso non dà i risultati sperati.
Visconti c’è riuscito, col “Gattopardo”; Bolognini, pure, con “Il bell’Antonio”, tanto per citare un esempio.
"Il Gattopardo" di Visconti | "Il bell'Antonio" di Mauro Bolognini |
"Il Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa | "Il bell'Antonio" di Vitaliano Brancati |
Lampedusa e Brancati possono ben non rivoltarsi nella tomba per questa trasposizione delle loro opere eseguita dai due pregevoli Maestri della settima arte sopra menzionati; e ciò perché il film “Il Gattopardo” di Luchino Visconti o il film “Il bell’Antonio” di Mauro Bolognini strutturalmente non hanno niente a che vedere con i corrispondenti rispettivi testi letterari di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e di Vitaliano Brancati.
Entrambi, identici nella sostanza, sono diversissimi nella concezione e nella forma.
Simili, dissimili, insomma. Una “coincidenza d’opposti”, a prima vista.
Sembra anacronistico il fraseggio, ma non è proprio così. Sinossi, sceneggiatura e montaggio, peculiarità espressive dell’assunto filmico, si discostano nettamente dalla nomenclatura letteraria come il libro dalla pellicola, come la carta dalla celluloide: supporti complementari ma eterogenei, estranei.
La riscrittura del testo li ha irreversibilmente diversificati, ecco tutto.
E’ più facile, invece, ispirarsi alla trama di un romanzo, opportunamente dichiarandolo nei titoli di testa del film e trarne una storia che ne riecheggi i motivi, le dinamiche, i concetti, si, ma sostanzialmente mutandone nella traduzione soggetto e struttura.
Eppure la matrice letteraria, intesa preminentemente come sorgiva inesauribile di temi, idee, trame e spunti, è stata la prima fonte ispiratrice dell’opera cinematografica, soprattutto ai primordi del suo luminoso embrionale cammino.
E ciò in aperto contrasto con l’opinione colta, corrente a quel tempo, che considerava il cinema più come un fenomeno da baraccone, come curiosità illusoria scacciapensieri da programmare nei giorni festivi nelle sagre paesane, nelle fiere, nei mercati e consimili, che come espressione artistica vera e propria, autonoma, capace di accedere al novero intellettuale delle arti tradizionalmente conosciute ed apprezzate.
Tale fenomeno, infatti, diretto discendente degli incerti tentativi di trasmettere l’immagine in movimento, tentativi che, partendo da geniali invenzioni meccaniche (la “Ruota di Farady”, il “Taumatropio” di Fitton, lo “Zootropio” di Horner, il “Prassinoscopio” di Reynaud, il “Fenachistoscopio” di Plateau) approdarono, poi, nella costruzione della prima vera macchina da presa ad opera dei fratelli Lumière nel 1895, ha saputo gradualmente conquistarsi un mercato, economico e culturale, sicuramente connesso con la stessa letteratura con la quale è in aperta naturale simbiosi.
Grazie, dunque, all’ingegnoso meccanismo creato dalla fantasiosa lungimiranza dei detti fratelli Lumière si è potuta avere la prima vera e propria proiezione cinematografica pubblica avvenuta il 28 Dicembre di quell’anno al “Grand Cafè” sul “Boulevard des Capucines”, a Parigi (l’ “Arrivèe du train”).
"L'Arrivée d'un train en gare de La Ciotat (o L'Arrivée d'un train à La Ciotat)" dei fratelli Auguste e Louis Lumière
Inoltre, l’impegno di cineasti dell’epoca del muto, profuso nella riscrittura per lo schermo di opere letterarie di un certo spessore (perché, come si è accennato, proprio queste sono state le basi che hanno supportato il cinema al suo esordio), si rivelò come un malriuscito tentativo di togliere all’opera cinematografica quel carattere di provvisorietà tanto deprecato dalla “intellegentia” del tempo.
Infatti la valutazione ottimale che veniva concessa al cinema era quella di un sottoprodotto dell’espressione teatrale; dimensione, quest’ultima, secondo, appunto, l’originaria imperante comune addottrinata convinzione, depositaria della vera cultura.
E gli stessi famosi scrittori che vi si accostarono lo fecero esclusivamente per ragioni di guadagno; ma non mirarono mai al cinema ritenendolo capace di poter esaltare la propria opera. Temevano, anzi, che la corrispondente riduzione per lo schermo ne pregiudicasse il valore.
Fra questi grandi non possiamo non ricordare i nomi di Gabriele D’Annunzio, di Giovanni Verga e dello stesso Luigi Pirandello.
Ma con l’affinarsi della capacità espressiva del linguaggio cinematografico e del suo stile, grazie all’impiego della specifica metrica direttamente scaturente dalle peculiarità del nuovo mezzo nel quale il montaggio rappresentava e rappresenta lo specifico filmico per eccellenza, la collettiva sfiducia degli intellettuali e dei benpensanti subì un determinante giro di boa.
Si capì, in sostanza, che la macchina “cinema”, assommando in sé praticamente tutte le altre arti ma pur conservando inalterata una propria precisa fisionomia, era perfettamente in grado di trasmettere emozioni fortissime, più di quelle che poteva ingenerare il romanzo.
Il cinema rappresenta, infatti, come tutti sappiamo, un coacervo riassuntivo della pittura, della scultura, del dinamismo plastico, dell’architettura e del teatro sintetico; per non dire di tutte le altre espressioni artistiche messe assieme.
E così (tanto per restare in Italia) a partire da film quali “Sperduti nel buio” di Martoglio e “Teresa Raquin” di Zola, entrambi portati sullo schermo dallo stesso Martoglio, la convinzione che il film fosse un autonomo fatto artistico a sé stante prese piede e creò dei capolavori.
"Sperduti nel buio" di Nino Martoglio, 1914 | "Teresa Raquin" di Nino Martoglio, 1915 |
La denominata “settima arte”, nell’era moderna universalmente conosciuta ed apprezzata, ha fatto sì che autorevoli registi del calibro dei già citati Visconti e Bolognini, di un De Sica, di un Rossellini, di un Rosi, di un Lattuada (sempre per limitarci al prodotto nostrano) e di tanti altri che ne onorarono la tradizione con opere originali appositamente create per lo schermo, abbiano preminentemente espresso la propria poetica nell’ambito squisitamente cinematografico non trascurando, tuttavia, importanti riduzioni di capolavori letterari, quali “Le notti bianche”, “Il Gattopardo”, “Lo straniero”, “Morte a Venezia”, “Giacomo l’idealista”, “Il mulino del Po”, “Il cappotto”, tanto per citarne alcuni.
Pertanto, la dimensione filmica di un’opera letteraria validamente trattata e riscritta ha ampiamente dimostrato di non risultare una trasposizione amorfa del testo originario, ma pur conservandone il significato, lo spirito e il carisma, rigenerata nella forma ma non nella sostanza, si è rivelata un prodotto nuovo, autosufficiente e senza alcuna dipendenza dal testo da cui è stata tratta.
Cefalù, Marzo 2014 Giuseppe Maggiore
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