10 Febbraio 2014, 17:58 - Giuseppe Maggiore [suoi interventi e commenti] |
“TEMPORA MUTANTUR, NOS ET MUTAMUR IN ILLIS”
(prefazione al libro di Antonio Barracato “Strati e Stratuzzi”)
di Giuseppe Maggiore
E’ vero, i tempi cambiano e, inevitabilmente, per legge di natura noi mutiamo con essi; solo i sentimenti, buoni o cattivi che siano, rimangono sempre gli stessi, inalterati, insensibili all’erosione del tempo. Eraclito fu un precursore quando stigmatizzò la celebre considerazione che “tutto scorre”, “passa”, “si modifica” e, ineluttabilmente, “si dissolve”.
E sono proprio essi, i sentimenti, che favoriscono il pensiero, i desideri, i progetti, la volontà cosciente di riscattarsi dalla precarietà della comune condizione umana che ci sovrasta (una scomoda spada di Damocle!) e dalla quale non si può prescindere, checché ci si adoperi.
Da qui, la tendenza a creare a nostra volta, noi che siamo il frutto precipuo di una primaria creazione, qualcosa che lasci una traccia, che testimoni il nostro passaggio, il nostro essere stati (... “fiato di vento…!”, chiosava il poeta), che esterni il nostro più riposto “io” che alita dentro il nostro involucro e che determina l’evoluzione del nostro modo di essere e di operare.
L’arte è, appunto, la sublimazione del magma delle nostre più riposte ambizioni.
Conosco Antonio Barracato da una vita, come si suol dire. Collega di banca, prima, collaboratore e collega sul set, dopo; amico fraterno da sempre.
E’ stato lui ad indurmi, nel 1989, “a fare qualcosa” in video VHS. Così mi sollecitò, io che, prima, avevo sempre “girato” con la cinepresa e consideravo una “prostituzione” passare alla telecamera. E tanto insistette, lui ancora in servizio ed io già in pensione (me ne andai che avevo appena 49 anni di età e quasi 30 di ufficio) , che alla fine capitolai e “girammo” una cosetta che, trasmessa poi in TV su canali non primari, fece un certo scalpore.
Da lì il nostro sodalizio artistico continuò fattivamente per qualche tempo; poi, però, Antonio, ragazzo intelligente, capace e interessatissimo a “rubare il mestiere” (se per me di mestiere cinematografico si possa parlare), divenne autore a sua volta consolidando una sua concezione artistica basata, appunto, sulla indomita volontà del “fare”, sostanziata da una congerie di fortunate iniziative intraprese e portate a termine con successo (mostre, festivals di filmati, concorsi di fotografia e quant’altro) e perseguendo a testa alta le sue mire sulla non facile strada dell’immaginario nell’immagine.
Artisticamente il nostro rimase e rimane, comunque, sempre un rapporto costante seppure fraseologico.
Così Antonio espresse il suo Karma partendo da una base eminentemente fotografica. Divenne un “professionista”, insomma; non nel senso che esplicava il mestiere di fotografo, ma perché, spinto da una passione indefessa per l’arte e ben comprendendo che solo attraverso di essa l’essere umano può esprimere se stesso innalzandosi al di sopra delle immancabili miserie terrene, non demorse mai dal suo impegno e puntò sempre al massimo delle sue possibilità.
In questa mia prefazione al testo, testè licenziato alle stampe, mi sembra doveroso disquisire dell’excursus del Nostro, che, come in un crescendo rossiniano, nacque all’arte, si evolse ed ha raggiunto posizioni certamente encomiabili.
Serio, preparato, infaticabile, memore di quanto ebbe ad apprendere “rubando il mestiere”, come si disse, stando sul mio set per quanto improvvisato e volendo valicare le naturali limitazioni poste dall’eloquio fotografico, si indirizzò proficuamente alla realizzazione di progetti cinematografici utilizzando la telecamera, dalla quale attività fu ampiamente ripagato con premi, riconoscimenti e notorietà.
A questo punto debbo dire, a onor del vero, che anch’io, dal mio canto, attesi gli alti costi di produzione “girando” con la MdP seppure a livello indipendente, passai alla telecamera ribaltando quasi completamente la mia precedente convinzione negativa sul mezzo utilizzato e non ritenendo più questa mia catarsi realizzativa una prostituzione.
E feci bene perché, diversamente, non mi sarebbe più riuscito di portare avanti i miei progetti filmici., che, invece, grazie al video hanno avuto un seguito.
Così Antonio Barracato “fotografo”! Antonio Barracato “regista”! Antonio Barracato organizzatore di mostre e festivals! La poliedricità di un artista, di un vero artista, non demorde mai ma si sostanzia sempre del suo stesso humus che dallo stato larvale assurge a empirei cerulei iperuranei immensi e ambìti.
Infatti, e c’era da aspettarsi un ulteriore interesse nel campo artistico da parte del Nostro, oggi ho modo di apprezzare Antonio Barracato adepto di una nuova manifestazione artistica: “ la poesia vernacolare”.
Per quanto ritenessi il mio Collega cavallo vincente, indirizzato a ben molteplici forme di espressione, non avrei mai pensato ad una sua escalation anche nel campo letterario, quello lirico.
E, invece, la cosa è avvenuta.
Questa silloge poetica, la prima che vede la luce, evidenzia chiaramente la capacità di un autore dalle plurime sfaccettature di sapersi affrancare dalle prolissità di un certo menage votandosi alla ricerca del bello.
Le liriche, tutte improntate a grande umanità, focalizzano aspetti giornalieri del vivere semplice. In più, mi pare di poter osservare che quella di Antonio è una poesia neorealista, se vogliamo, come pure neorealiste appaiono le fotografie che arricchiscono il volume intramezzando con molta sagacia il lessico. E qui va il mio plauso all’esperto impaginatore: consulenza elettiva ben riuscita!
Inoltre bisogna anche affermare che Barracato non è la classica “mosca bianca” di abusato chiacchierio, un solitario fenomeno appariscente, una vivida luce nel buio dell’incompetenza; tutt’altro! Barracato (“primus inter pares”) nasce alla lirica e vi prende piede in mezzo ad una cospicua e prestigiosa fioritura d’ingegni, letterariamente evoluti e già da tempo operanti nella nostra città: produzione letteraria nella quale fanno spicco nomi come Liliana Mamo, Margherita Neri e tanti altri (a non voler citare, per non incorrere in inopportune considerazioni nepotistiche, anche la mia defunta madre, Myra Martino, mia sorella Mariella e mio nipote Emanuele Miceli); artisti la cui produzione, prevalentemente in lingua italiana, non disdegna tuttavia, pure occasionalmente, il ricorso al vernacolo.
Il Nostro, invece, in questa sua prima silloge si esprime esclusivamente in dialetto. Ed è, appunto, il vernacolo, credo, che dà forza agli argomenti trattati, perché da esso le immagini vengono fuori pregne di una impremeditata vivezza che tornisce i quadretti rendendoli spontanei e coinvolgenti.
La scrittura in lingua siciliana è abbastanza difficile; perché, a volerla dire tutta, non esiste, a mio modesto parere, una regola fissa che stigmatizza consonanti e vocali rendendole certe, uniche ed indeformabili. Così ogni singolo poeta o scrittore che sia, pur attenendosi ad uno stile coerente alla parola espressa, aggiunge o toglie a sua discrezione al vocabolo utilizzato sillabe che ne variano la forma pur mantenendo inalterata la sostanza.
Esprimere un parere, quindi, sulla maggiore o minore correttezza delle espressioni scritte rappresenta un’impresa abbastanza ardua, per non dire ingenerosa. Ogni autore vernacolare, quindi, credo si possa asserire, crea una sua scrittura personale che caratterizza anche la validità dell’enunciato.
E forse da questa personalizzazione del linguaggio, appunto, il coinvolgimento che promana dall’assunto si dimostra più pregnante di quanto effettivamente possa essere.
Come s’è detto, dunque, Barracato scrive, o per lo meno in questa silloge ha scritto, usando la lingua siciliana, la cui indiscussa musicalità vivifica il concetto che viene espresso perché frutto di immediatezza. In ciò Egli segue una inveterata tradizione cefaludese che ha come capostipite di valore Carmine Papa, il poeta “zappatore”. La rima alternata, peculiarità di quest’ultimo, diventa nel Nostro “baciata”, o pseudo tale. Stili diversi i due, si, ma efficaci a rendere, a distanza di tempo, i sentimenti che hanno sempre caratterizzato l’umana espressione. E dove l’Uno, forse, si mostra più retorico, l’Altro si propone più alla mano.
La prolificità poetica del Nostro si estrinseca in una miriade di composizioni che focalizzano quotidiani momenti di vita; Egli descrive ambienti e fà considerazioni razionali che non mancano di intuizione e di saggezza, tanto da colpire la nostra sensibilità.
La sua è una lirica neorealista, come già notato, osservatrice scrupolosa dell’umana vicenda, preminentemente siciliana, imbevuta dei suoi atavici attributi che dànno un indirizzo alla cultura dell’isola.
Volgendo un rapido sguardo ai componimenti che caratterizzano questa proposta silloge, ciò che per primo colpisce l’attenzione è l’instancabile trasmigrare dell’autore da una considerazione all’altra affrontando plurimi argomenti che inducono la memoria alla rivisitazione di un’epoca.
A tal proposito ricordiamo, infatti, la visione scenografica offerta da “Strati e Stratuzzi” , l’avveduta stigmatizzazione di una realtà rurale ormai pressoché obsoleta (vedasi la poesia “No centru da Sicilia”); o l’osanna alla terra natia (“Sicilia”), prolifica matrice di autori e di arte; e poi l’ironica e amara radiografia (“castigat ridendo mores”) di un particolare costume femminile (“A fimmina evoluta”), fenomeno più o meno condiviso che ha portato, oggi, la donna ad essere indipendente e completamente avulsa dalla riservata figura inserita nella storica famiglia patriarcale; e l’inno all’arte (“L’Arti”), alla libertà di pensiero e d’azione (“A Libertà”); e poi i veridici scorci d’ambiente (“A vita di piscatura”) con le immancabili traversie dei personaggi trattati, alle quali gli stessi sono costretti a sottostare per poter portare “il pane” ai figli, alla famiglia indigente in attesa; e le descrizioni degli elementi della natura (“U maistrali”, “A stati”, “I nuvuli”) e le incongruenze di particolari situazioni (“A verità e a pazzia”). Nè mancano, inoltre, i gustosi acquerelli rievocativi di corali avvenimenti (“A targa Florio”) dalle cui righe traspare la cocente nostalgìa del passato, non mascherata ma evidenziata dall’autore; e le dissertazioni liriche sull’amore, sul Creatore, sul matrimonio, sulle vicende più o meno criticabili (“L’amanti”); e poi valutazioni sulla vecchiaia, sulle illusioni dell’esistenza; e quelle descrittive, sul funerale antico (A cunnutta”).
Barracato, nella sua multiforme poligrafia creativa, spesa a trecentosessanta gradi, arriva ad elogiare anche lo spirito e il “modus agendi” del Santo Padre; né si ferma qui, ma propone pure lirici approfondimenti commemorativi di schietto sapore storico-leggendario (“U sbarcu di Ruggeru”) e su storiche figure di rilievo culturale che operarono nella nostra città: il barone Mandralisca che ritorna dall’aldilà per controllare che il lascito previsto nel suo testamento a favore della paesana incultura abbia sortito l’effetto voluto e non sia stato vanificato.
E con sapiente regìa (come altra volta ebbi a scrivere altrove) paragonabile a quella dispiegata nella scena della carrozzella di bambini che rotola sulle scale di Odessa nel magistrale film di Ejzenstein “La corazzata Potemkim” mentre la fucileria incessante dell’esercito cerca di domare la rivolta decimando i civili, conclude con la lirica “Pupi e pupara” nella quale assume con accorta perspicacia che la “sudditanza” è figlia dell’ “ignoranza” e che l’unica via di uscita e di riscatto è esclusivamente lo “studio”.
Cefalù, Novembre 2013 Giuseppe Maggiore
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