20 Agosto 2012, 23:26 - Laura Grazia Miceli [suoi interventi e commenti] |
Stefano Vilardo, un signore “nello splendore dei suoi novant’anni” che, con lieve ironia, non sa come sbarazzarsi di un un bastone che lo infastidisce e non sa come sistemare per avere il minor disagio possibile, e chiama “bestia” se stesso al ricordo di una bocciatura ( quanti illustri esempi abbiamo di bocciature !) ha presentato la sua ultima opera “ A scuola con Leonardo Sciascia”, edito da Sellerio, relatori il dott. Gerbino e il prof. Giuseppe Saja.
La dott.ssa Dispenza L'Autore, Stefano Vilardo
La dott.ssa Dispenza, presentando l'incontro, ricorda che il prof. Vilardo è già stato ospite degli Incontri con l’Autore nel 1995, in occasione di un evento organizzato da Pietro Saja con la partecipazione di Matteo Collura e Marina Fino.
Il libro di cui si tratta questa sera “porta in primo piano la personalità di Leonardo Sciascia, in un ricordo affettuoso e nostalgico da parte dell’Autore, dell’amicizia, nata sui banchi di scuola dell’istituto magistrale di Caltanissetta, amicizia indissolubile, unica come può essere quella che lega per la vita due adolescenti, divisi da un anno di età, Nanà e Steté, Leonardo e Stefano, partecipi di linguaggi e di un comune humus. Il tutto narrato in una prosa divertente e accattivante".
Aldo Gerbino Giuseppe Saja
Riferisce il Dr Zerbino nel suo intervento : “ E infatti, chi avrebbe potuto dire in quell’autunno del ’36, in un’opalescente Caltanissetta di un’Italietta fascista, che l’incontro tra due quasi coetanei (Sciascia del ’21; Vilardo del ’22) sarebbe diventato legame intenso e duraturo, amicizia, parola ormai troppo abusata per mancanza di contenuto direi; ma certo non per Vilardo: “Se penso: amico, amicizia, è a Nanà che penso, al suo alto senso del decoro, al suo coraggio, alla sua non scalfibile onestà, al suo retto sentire”.
Dunque, il percorso autobiografico, di un’autobiografia soprattutto intellettuale, diviene, pagina dopo pagina, il ritratto di una generazione, di un’epoca che stava per vivere il trapasso dalla civiltà contadina a quella società dell’omologazione e dei consumi che, in Sicilia, sarebbe diventata ‘civiltà’ del cemento, della speculazione, del malaffare. Il disagio storico alimenta in Vilardo quello esistenziale e prenderà sempre più corpo l’esigenza di testimoniare, con poesie e romanzi, una vera mutazione antropologica
Il Dr. Aldo Giardino definito da Zerbino scienziato umanista rinascimentale o forse solo umanista da risalto al lato della provincia, la provincia come atto di grazia e di formazione,valore didattico e pedagogico una palestra delle idee alla quale Sciascia spesso tornava. Porta a fondamento uno scritto importante di Forbes “ Aspects of the novel” (Aspetti del romanzo) che illustra il grande valore storico antropologico della provincia e che fa dello scrittore provinciale lo scrittore completo, tout court. Nella palude (termine di Forbes) della provincia lo scrittore trova e mette in risalto il punto nodale della narrazione ritrova le schegge della creatività, attinge alla memoria, la memoria attiva nell’accezione antropologica del termine, scrigno prezioso dove rifornirsi di forza energia e creatività.
Vilardo, da parte sua, descrive il sedicenne allievo Sciascia: timido riservato sarcastico, ma generoso nel dare aiuto ai compagni in difficoltà anche se, così facendo, metteva in maggiore difficoltà chi gli si era rivolto per l’evidente divario tra il valore di quest’ultimo rispetto all’aiuto ricevuto. Di una timidezza che risvegliava in ciascuno di noi l’istinto materno, gli si perdonava tutto, non aveva niente di cui vergognarsi Leonardo, colto, riservato, era diventato il beniamino di tutta la classe. L’humus, la palude coi suoi affluenti è questa, l’amore per il cinema in più, e per la letteratura straniera chei due amici incontrano nelle traduzioni dell’epoca, Steinbeck, Faulkner, Dos Passos, con fermenti e problemi comuni in un continuo travaso che lascia l’imprinting narrativo e critico in Sciascia e poetico per Vilardo.
Per finire, le parole di Stefano Vilardo riguardo al matriarcato e alle zie di Sciascia rispondendo a Motta. “Le zie di Nanà erano il perno, l’asse portante, l’architrave, come in verità lo erano, lo sono tutte le donne capaci e attente Noi eravamo, siamo, e lo dico con pudico sconforto gli alberi di bello vidiri, come da noi si dice, prepotenti e spesso taccagni, e irrequieti, ma sempre arboli di bello vidiri.Le decisioni importanti, vitali portano sempre la firma della dolce signora, delle ubbidientissime figliole. Tu ‘si l’omu, tu porti li causi., e poi con grazia, con delicatezza , ma con tenace fermezza lo portava come sceccu a la cavezza sulla giusta via, però magnanime davano tutto il merito a chi portava i calzoni, il quale con ottusa burbanza, con saccente regale sicumera decideva tutto ciò che dalla dolce metà era già stato deciso.” E ancora di più abbiamo goduto dell’ironia nel rammentare il matrimonio di Sciascia e quello Vilardo.
E si parla anche della Sicilia e del provincialismo e dell’importanza dello scrittore provinciale, non in senso dispregiativo anzi : è il perfetto scrittore, e c’è un accenno a Cefalù per una poesia dedicata a Sciascia che non amava che gli si dedicassero poesie e non perché non amasse la poesia. Il punto da stabilire con precisione è la linea di demarcazione fra poesia e pseudo poesia e poeti e pseudo poeti. Si spengono le luci al Mandralisca con un intervento di Angelo Sciortino che merita un discorso a parte e importante sarebbe che egli lo riportasse personalmente.
Bibliografia : Autore di raccolte di poesie (I primi fuochi; Il frutto più vero; Gli astratti furori) e di due romanzi (Una sorta di violenza e Uno stupido scherzo), pubblicati nell’arco di più di un cinquantennio con gli editori Sciascia, Garzanti e Sellerio
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La recensione del prof. Giuseppe Saja
Autore di raccolte di poesie (I primi fuochi; Il frutto più vero; Gli astratti furori) e di due romanzi (Una sorta di violenza e Uno stupido scherzo), pubblicati nell’arco di più di un cinquantennio con gli editori Sciascia, Garzanti e Sellerio, Stefano Vilardo è un sofferto e fine moralista; testimone, anche con i versi dell’emigrazione di "Tutti dicono Germania Germania" (Garzanti, 1975; Sellerio, 2007), di una storia isolana rivissuta come specchio delle contraddizioni della storia e dell’esistenza. In poesia e in prosa, in lingua e in dialetto, nel recupero di lemmi o nella creazione di neologismi e di idioletti, Vilardo ha ricercato sempre una lingua comunicativa mai banale, andando controcorrente, rispetto alle sempre presenti mode letterarie, in ogni periodo della sua attività letteraria.
Il dott. Gerbino durante la sua appasionata testimonianza
Quella che presentiamo stasera, edita a maggio per i tipi della Sellerio, è una “conversazione” con Antonio Motta sui primi anni dell’amicizia, che durerà sempre più intensa e sempre disinteressata, con Leonardo Sciascia.
Sulle amicizie giovanili Musil diceva che “hanno qualcosa di strano; sono come un uovo che ha già nel tuorlo il suo meraviglioso avvenire d’uccello, ma al mondo non presenta che una linea ovale abbastanza inespressiva e confondibile con tutte le altre”. E infatti, chi avrebbe potuto dire in quell’autunno del ’36, in un’opalescente Caltanissetta di un’Italietta fascista, che l’incontro tra due quasi coetanei (Sciascia del ’21; Vilardo del ’22) sarebbe diventato legame intenso e duraturo, amicizia, parola ormai troppo abusata per mancanza di contenuto direi; ma certo non per Vilardo: “Se penso: amico, amicizia, è a Nanà che penso, al suo alto senso del decoro, al suo coraggio, alla sua non scalfibile onestà, al suo retto sentire”.
Vilardo ha narrato in maniera sparsa e divagante, in alcuni racconti dispersi in riviste e giornali, il suo percorso esistenziale; dalla fanciullezza, riaffiorante quasi da un tempo di magia, alla maturità disillusa, passando attraverso un’adolescenza accesa da dolori assoluti (la perdita del fratello) e amicizie salvifiche. E proprio l’incontro ‘scolastico’ a Caltanissetta, tanto fortunoso (una bocciatura) quanto fortunato, con Leonardo Sciascia («per gli amici Nanà», ricorda Vilardo) è posto dall’autore al centro del suo svegliarsi alla vita; come se quella vicinanza avesse prodotto su di lui una scossa adrenalinica tanto forte da ridestare il futuro poeta e scrittore da una sorta di “abisso schiacciato” di tozziana memoria.
Intanto, insieme con il sedicenne Leonardo Sciascia e con l’inseparabile Lilly Bennardo, sotto lo sguardo distante e distratto di Brancati, docente nello stesso istituto magistrale frequentato dai tre, comincia l’iniziazione intellettuale e culturale: la conoscenza della nuova letteratura italiana del primo Novecento, la scoperta del teatro, la frequentazione delle sale cinematografiche (fondamentale quest’ultima se si vuole comprendere appieno tanta scrittura di Sciascia dai tempi e dai movimenti filmici). E poi, con gli anni, con i decenni, quel primo cerchio di confrères, si ampliò, si irrobustì di altre amicizie e conoscenze, di nuove esperienze culturali e, non sembri strano, gastronomiche. Le notizie sulla maturità di quel sodalizio le apprendiamo dal racconto dal titolo Indimenticabili quegli anni Sessanta, posto in appendice alla conversazione con Motta; racconto che costituisce, sotto forma di narrazione, un’ideale prosecuzione di quelle “neiges d’antan”, per citare alcune
parole di un celebre verso di François Villon tanto caro a Vilardo (Dove sono le nevi di un tempo?).
Mi soffermo su questo racconto, in cui si scopre - dopo le pagine della conversazione in cui viene fuori un giovane Sciascia ironico, timido ma smaliziato, introverso ma arguto e caustico - uno scrittore già maturo; ma anche, diciamo così, conviviale, alla perenne ricerca e scoperta delle sue, come delle nostre radici. Ricorda Vilardo: «Ma non di sole chiese e musei eravamo in cerca, ma … anche di poeti, scrittori, pittori, grafici, incisori, e… della cucina popolare più saporita: dal macco con i finocchietti di montagna, allo spezzatino di musetto di vitello». Per il tramite di Sciascia, Vilardo diviene amico di fotografi e scrittori, poeti e pittori, critici e intellettuali di primo piano. È lungo l’elenco di nomi che l’autore di Delia inanella nelle pagine del libro (Emanuele Macaluso, Ferdinando Scianna, Guttuso, Ignazio Buttitta, Bruno Caruso, e tanti altri) quasi a volere creare un ideale pantheon di sodali, come a cercare di ricomporre le tessere delle sue numerose frequentazioni, quasi tutte consolidatesi negli anni Sessanta del secolo scorso; periodo in cui Caltanissetta diviene la “piccola Atene” per il livello dei maître à penser che ne movimentavano la vita culturale riunendosi, preferibilmente, nella libreria dell’intraprendente e intelligente editore Salvatore Sciascia.
Dunque, il percorso autobiografico, di un’autobiografia soprattutto intellettuale, diviene, pagina dopo pagina, il ritratto di una generazione, di un’epoca che stava per vivere il trapasso dalla civiltà contadina a quella società dell’omologazione e dei consumi che, in Sicilia, sarebbe diventata ‘civiltà’ del cemento, della speculazione, del malaffare. Il disagio storico alimenta in Vilardo quello esistenziale e prenderà sempre più corpo l’esigenza di testimoniare, con poesie e romanzi, una vera mutazione antropologica. Il poeta-scrittore veste gli abiti dell’intransigente fustigatore; ma anche quelli dell’aedo di un tempo e di una società che ci appaiono lontani e che pur tuttavia Vilardo ci fa sentire migliori dei nostri. Eppure la nostra sarebbe l’era della tecnologia, dei progressi della scienza, della medicina; ma qualcosa ci manca, e quel qualcosa ogni epoca la ritrova nel suo passato prossimo o remoto: forse è proprio questa la malinconia che si prova a leggere di quelle avventure intellettuali, di quei periclitanti viaggi in macchina, di quei personaggi che lo scrittore siciliano ci sciorina con sensibilità e ricchezza di lingua.
Magistrale la capacità affabulatoria del narratore–lirico di suscitare un paesaggio non oleografico, doviziosamente e non banalmente farlo rivivere, ricordarne con tratto fulmineo il suo trapasso, il suo trascolorare nelle scialbe tonalità di una contemporaneità senza riguardi. Il libro, racconto finale compreso, è un tributo all’amico di una vita, conosciuto quando ancora le sue glorie future potevano essere intuite soltanto da chi, come Vilardo, faceva parte dei compagni più intimi e fidati. Vilardo ci ricorda del giovane Sciascia le letture preferite, il matriarcato (le numerose zie di Sciascia) che certamente influenzò i suoi primi anni di vita, il rapporto controverso con il padre, il suicidio del fratello, l’insaziabile sete di letture e, come già si diceva, la quasi quotidiana frequentazione delle sale cinematografiche; e poi: la precoce iniziazione alla scrittura, le prime infatuazioni amorose, lo spartano matrimonio con Maria Andronico nel 1944 che vede Vilardo e Ugo Cordova come unici testimoni e invitati.
Luigi Pintor, il grande giornalista, direttore per tanti anni del «Manifesto», nella finissima autobiografia, Servabo: memoria di fine secolo, anche questo un testo di ricordi quasi generazionali, affonda la riflessione, con ironica e condivisibile paradossalità, sulla passione ustoria per la scrittura: «Un libro serve a chi lo scrive, raramente a chi lo legge, perciò le biblioteche sono piene di libri inutili».
Questo libro-memoria di Vilardo credo sia servito certamente al suo autore, per quel redde rationem, poetico, commovente e ironico allo stesso tempo, di cui s’è detto; ma servirà, ne sono sicuro, anche a chi lo leggerà: dunque uno scritto piacevolmente ‘utile’ e, per dirla con semplicità, che ‘fa bene’, per quel sensibile e tuttavia inclemente dialogare con il passato e ragionare sul presente senza quell’artificiale chimica - gli edulcoranti della scrittura - con cui spesso oggi si costruiscono, per vuoto d’ispirazione o di memoria, romanzi, racconti e anche tante narrazioni pretenziosamente e inutilmente autobiografiche.
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