6 Febbraio 2022, 19:44 - Giovanni La Barbera [suoi interventi e commenti] |
Ritengo che questa irripetibile esperienza, fatta sulla pelle dei cittadini e dei contadini, sia un modello concreto, da valere per tutto il territorio regionale, un vero esempio, ricco di insegnamenti che suggeriscono, a qualsiasi Amministrazione comunale, di evitarla e dunque da non seguire se si vuole mettere in un rapporto fecondo i due aspetti strutturali del sistema: il territorio e la Comunità che lo abita.
Molti abitanti e non, di questo territorio, hanno in corso la presa di coscienza degli effetti, di questo modello di organizzazione e d'uso, da non seguire, proposto da una Amministrazione senza la minima consapevolezza di aver messo a repentaglio la struttura sociale ed economica locale.
Per quanto si voglia affermare, che alla fine i sistemi complessi finiscono col produrre da se, attraverso processi anche di sofferenza, la propria auto organizzazione, non può accettarsi che strumentali motivi di opportunità “politica” prendano nell'immediato, il sopravvento, a scapito del perseguimento di obiettivi rispettosi del vero pubblico interesse.
Una Comunità, come si può osservare, al cui interno gli affanni si moltiplicano, nel tentativo di resistere alle forze distruttive in atto che serpeggiano sia nel corpo sociale che istituzionale, non deve accettare una proposta di pianificazione del proprio territorio, priva di coerenza, ma permeata bensì di singolari decisioni, che non hanno avuto il doveroso controllo della pubblica partecipazione, unico processo che conferisce solide basi al principio dell'interesse pubblico, da cui muovono le norme attributive del potere di pianificazione.
Per quanto mi troverei a mio agio, tuttavia non penso sia questa la sede per soffermarmi sull'esame della coerenza tra l'interpretazione delle Direttive Generali, impartite dal Consiglio nel 1997 ai progettisti, e la trasposizione reale di esse negli elaborati del Piano e delle norme di attuazione, ne sul coacervo di conoscenze , più o meno discutibili, sia degli apporti delle discipline recate dai contributi della relazione agricola e forestale e geologica, al complesso delle determinazioni assunte, e sia, ancora, dalla congerie di vincoli recati da strumenti settoriali sovra comunali, sia essi in vigore o sia essi solo contenuti in studi ancora privi di un carattere prescrittivo per la pianificazione comunale.
Né posso soffermarmi per avanzare osservazioni sull'interpretazione della suggestiva moda del consumo di suolo zero, assunto come principio catartico, per la pretenziosa, illusoria, irrealistica, arrogante, maniera di ricomporre o rimediare, a chissà quale disastri esistente e immaginabili nel futuro del territorio cefaludese.
Posso invece, sia pur brevemente, metter in evidenza su come l'obbligatoria (non facoltativa) attività amministrativa di pianificazione abbia raggiunto, a Cefalù, lo stadio attuale.
Ritengo innanzi tutto, per il tema che si è enunciato, evidenziare quale è il ruolo del progettista, ovvero del conoscitore delle discipline che sostanziano le scienze della città.
Siamo nel solco, sempre dell'attualità, nel rapporto tra conoscenza e potere politico amministrativo.
La tradizionale concezione della sapienza scientifica ricca ovviamente di esperienza e dunque di empirismo, mette il progettista nell'aura indeterminata d'essere il demiurgo del problema della pianificazione territoriale ed urbanistica, che nella vulgata e nella prassi siciliana, finisce con lo sviare dai veri responsabili detentori potere di amministrare conferito dalla legislazione statale e regionale.
Il suo ruolo, se richiesto, svolge certamente la funzione di suggerire una razionale interpretazione della complessa fenomenologia presente nel rapporto Territorio e Comunità, ed una altrettanta razionalità nell'indicare i possibili interventi correttivi delle patologie riscontrate, sempre all'interno della legislazione vigente.
Se invece consideriamo, come di fatto è avvenuto, che il Progettista è abbandonato, perché viene tenuto per circa 20 anni in un processo di lavoro, che i tempi tecnici realistici, per l'intero ciclo, non superano i due anni, ci rendiamo conto che il vero malato nel rapporto tra Territorio e Comunità è la Pubblica Amministrazione.
La Pubblica Amministrazione, ad essa non è richiesto che attivare responsabilmente gli obblighi di legge, di capire almeno gli elementi di base che concernono uno strumento di pianificazione, di far partecipare intensamente, nell'intero processo di analisi e di sintesi i cittadini, divulgando e stimolando la conoscenza e le responsabilità.
Niente di tutto questo è avvenuto.
Mentre la imminente tornata elettorale, ha prodotto una accelerazione del processo di adozione del Piano, senza consenso, senza equilibri, e con iniquità cosi intollerabili da far ritenere questo procedimento amministrativo, il cui portato sfugge complessivamente alla percezione di chi amministra, in eccesso di potere per sviamento dalle norme attributive del potere e che si manifesta in arbitri, e incoerenze plurime.
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