30 Agosto 2020, 22:36 - Angelo Sciortino [suoi interventi e commenti] |
“Quando Churchill si oppose alla pace negli anni Trenta […] credeva di avere il dovere di continuare a ribadire i rischi della pace. Alla fine si scoprì che aveva ragione. Opporsi alla maggioranza non è un crimine; e in alcuni casi può essere un dovere”. È questo un passaggio chiave del saggio di Albert Weale, intitolato: “Il mito della volontà popolare” (LUISS University Press), con il quale il politologo intende svelare la mistificazione che si nasconde dietro i concetti di “popolo”, “volontà popolare”, “maggioranza” e “sovranità popolare”.
Il convitato di pietra che sottende l’intera analisi di Weale è la decisione del 23 giugno del 2016 con la quale il “popolo” britannico ha scelto di abbandonare l’Unione Europea. Secondo Weale, la mistificazione fondamentale consiste nell’identificazione di un referendum con la volontà del popolo. Di qui la falsa credenza che le politiche del governo coinciderebbero con la volontà popolare e l’identificazione del Parlamento con il nemico della democrazia e l’esigenza che esso sia sostituito dal governo che esercita il potere mediante decreto. Tale stravolgimento della tradizionale procedura liberale e democratica avverrebbe nel nome del “popolo sovrano”, condito da una retorica populistica e sovranista, la quale dichiara di rappresentare la volontà del popolo, come se tale volontà esistesse realmente e non fosse invece una delle possibili rappresentazioni convenzionali dell’incerta categoria di “maggioranza”: il popolo al singolare, nella sua interezza e nella sua purezza; in breve: un solo popolo, una sola volontà un solo partito.
È su quest’ultima affermazione che mi vorrei soffermare brevemente, in quanto ritengo che qui risieda il peccato d’origine di tutti i populismi, qualunque sia la loro manifestazione in termini temporali, geografici e di forme di governo: un solo popolo, una sola volontà un solo partito. Si tratta di un’attualizzazione della nota locuzione di Francisco Suarez «unum corpus mysticum». Il riferimento al popolo, declinato al singolare, corpo sociale compatto e omogeneo al quale una certa democrazia attribuisce il carattere della sovranità non può non rappresentare un problema per le democrazie liberali.
In questa prospettiva, il populismo non avrebbe alcun confine geografico e potrebbe emergere ovunque e sempre, in forme comunque diverse: hard o soft, essendo animato da una prospettiva mitica, se non mistica, che fa del popolo un’entità unica e indivisibile.
Ebbene, se è vero, come afferma Weale, che in democrazia qualsiasi “mito dominante” è pericoloso, il mito della “volontà del popolo è particolarmente pericoloso”. Si delinea una definizione di populismo che ruota intorno a due categorie: la mistica del potere e la presuntuosa identificazione del leader con il suo popolo; un gregge disciplinato e soddisfatto di contribuire al successo del suo pastore e, per questa ragione, fiero di giocare il ruolo di cantore delle sue gesta, indomito cavaliere della causa del potere, zelante ricercatore di giustificazioni. Le democrazie liberali funzionano diversamente e, se si è convinti in coscienza che la maggioranza sia nel torto, si ha il dovere di opporsi con tutte le forze, avvalendosi delle norme e delle procedure del regime democratico.
Da qui una definizione di populismo in grado di descrivere non pochi processi politici che hanno accompagnato le vicende degli ultimi anni, in Italia e nel mondo. Una concezione della politica in cui si stabilisce un legame mistico tra ciò che il popolo pensa e spera e il capo che lo teorizza. Il carattere distintivo di questo legame mistico è l’idea che noi siamo i puri, gli eletti, i migliori: il popolo, appunto, e il resto è putridume; in breve, una setta con un capo che esprime la verità e non appena il capo cambia idea ecco che cambia anche la verità.
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