22 Ottobre 2019, 21:14 - Giuseppe Maggiore [suoi interventi e commenti] |
N.2
... FORSE CHE SÌ, FORSE CHE NO...
(soliloquio lessicale)
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A Fellini in un’intervista venne chiesto di dare un insegnamento, un consiglio, ai giovani registi: “…Che facciano dei buoni film…” egli rispose; e soggiunse “… e che soprattutto parlino di se stessi…”.
In fondo in fondo come faceva lui in tutti i suoi lavori.
Parlare di se stessi, infatti, è mettere a nudo un’esperienza che possa servire da termine di paragone agli altri.
Prendo spunto da quanto espresso dal noto Maestro per delle personalissime riflessioni che qui di seguito esterno.
Riflessioni in punta di penna (o di tasto) insorte stando soli con se stessi, in un volontario temporaneo eremitaggio, costruttivo e rigenerativo quant’altri mai, immersi in un contesto floreale, e perché no, faunesco anche, sicuramente incline all’ispirazione.
“… Così tra questa immensità s’annega il pensier mio…” ecc. ecc… (scusami, Giacomo, se qui e nel prosieguo saccheggio un po’ il tuo zibaldone poetico appropriandomi di qualche verso).
Eppertanto, provenendo da una dimensione agreste di tal fatta dove si è rimasti per qualche tempo a contatto con la natura e con i propri pensieri, anche i più reconditi e profondi (“… e mi sovvien l’Eterno e le morte stagioni e la presente e viva e il suon di lei…” sic), e dove il sorgere del sole e della luna nella gradevole brezza del mattino e della sera assume una sua connotazione propedeutica di importanza esistenziale, non è che si possa poi escutere qui temi più o meno risibili, leggeri e per lo più di vacuo intrattenimento, che mitighino l’impatto del ritorno in società fra il clamore del quotidiano bailamme ed il notturno cicaleccio delle coppie che stazionano a ridosso del Lavatoio Medievale in attesa che i radi passanti confluiscano nei propri abituri desertificando la via e permettendo loro il libero esternarsi del proprio impellente sentimento senza l’incomodo di presenze indiscrete; ma, in consimile frangente, bisogna trattare tematiche improntate alla più severa esegesi che diano contezza della personale maturazione intimale intervenuta grazie e durante il ritiro.
Ergo, non posso rintrodurmi nell’acquario cittadino se non dissertando su argomenti esistenziali di profonda caratura.
Appellandomi, quindi, al buon senso, non sottovalutando la sapida intuizione ed avendo per fermo l’impegno che mi spinge alle tematiche di cui intendo trattare è d’uopo che io m’indirizzi ad un discorso serio ma non serioso, estroverso ma castigato, coinvolgente ma senza enfasi, d’attualità ma con precisi riferimenti al trascorso, conclusivo ma non elusivo, un discorso, insomma, che dica tutto senza dir niente (un po’ alla Sciascia, se m’è licenza), fiorito quel tanto che possa adombrare una intellettuale concettuale primavera, ma allo stesso tempo laconico, senza che tuttavia infierisca sul tono dell’eloquio e che nella forma si avvalga di apposizioni e di perifrasi, di circonlocuzioni e di analessi, di accusativi alla greca (del tipo: “… lei, soffuso il volto pallido di verginal rossore…”) e di ricercate similitudini lessicali; espedienti, tutti, che, oltre a determinare la brillantezza dell’assunto, potrebbero risultare atti a riscontrare un qual certo gradimento dei lettori.
Con l’augurio che ciò possa avverarsi e sperando nella benevolenza e nella comprensione di chi mi fà l’onore di seguirmi, sotto l’alto patrocinio di Calliope dò inizio alla ciancia.
Ordunque, malgrado abbia per certo che questo parto, frutto di eterogenee pulsioni introspettive più volte allontanate e più volte riportate alla ribalta, pulsioni scaturite dal concreto vissuto e dall'osservazione critica degli eventi contingenti, sortirà pochissimi fruitori, perché, diciamocelo francamente, oggi come oggi ciò che può interessare di più il lettore di un blog, per quanto di vaglia esso sia, è un breve inserto su qualche lizza sociale, su una denuncia per qualcosa contro qualcuno, sulla messa alla sbarra di un politico, su un fatto di cronaca scabroso, sulla celebrazione di un incontro culturale, sull’esaltazione di un artista (che abbia o meno i numeri per far arte), su un processo di mafia, sulla valorizzazione di un personaggio, su una qualsivoglia inefficienza cittadina e su quant'altro del genere (ne dà contezza la molteplicità delle cliccate che lucrano certi articoli telematici di cui ai temi sopra indicati, cliccate che, spesso, superano di gran lunga anche le duemila battute) e non certamente una asettica disamina riflessiva come questa, mulinello di inusitate congetture e nient'altro, coacervo di convinzioni unilaterali più o meno in linea con le comuni vedute, condivisibili od incondivisibili, lunga per giunta e da certuni possibilmente ritenuta anche prolissa, incline solo a tediare i più, malgrado questa mia radicata opinione, dicevo, incurante di alieni giudizi poco lusinghieri che mi possano venire rivolti (giudizi che, per quanto avveduti e formativi, per il mio particolare carattere lascerebbero il tempo che trovano), proseguo l’intrapresa prolusione, formulando alcune considerazioni che spero riscontrino probabili altrui similari ipotesi.
Sic et simpliciter…
Preliminarmente, tanto per sgombrare il campo da possibili imprecise interpretazioni e formulare anche qualche accettabile massima, bisogna attestare (è un mio sedimentato convincimento) che la solitudine edifica nella misura in cui distrugge: è costruttiva in un animo riflessivo, non lo è in un animo sensibile.
Nel primo caso dà delle risposte e fà crescere creando delle risorse spirituali; nel secondo, semplicemente affligge.
In buona sostanza, tutti si è alla ricerca di uno specifico catartico che renda la via esistenziale piana, tranquilla e priva si incognite. La ricerca è continua e stressante; ma, nella stragrande maggioranza dei casi non consente riscontri universalmente attendibili.
Molti per neutralizzare l'afflizione esistenziale e la trista apatìa che ne consegue ed anche per acquisire una maggiore visibilità nel panorama sociale in cui gravitano promuovendo se stessi si rifugiano in una caleidoscopica compagnìa o fanno incetta di incarichi a cui magari non sono tagliati ma che li assorbano e che li proiettino in una dimensione stimolante che sovente finisce inevitabilmente a condurli, ahimè, ad un esasperato bovarismo.
Costoro fuggono il silenzio con la logorrea, l'eremitaggio col tuffarsi in mezzo alla gente, il proliferare dei timori e le inerenti congetture con le distrazioni, anche le più fantasiose e banali; ma, così facendo, ci si comporta come il classico struzzo che per liberarsi da un temuto pericolo più o meno palese, o volendolo comunque neutralizzare, nasconde la testa sotto terra perseguendo il suo usuale modo di comportarsi.
In buona sostanza, spesso, ci si cela anche a se stessi tentando di soppiantare la realtà contingente che, impervia, impavida ed inesorabile, assilla e non è raro che drasticamente vessi e blocchi.
Rifuggire dai problemi del reale, e ciò è chiaro a tutti, è effimero, vacuo, inutile: essi ritorneranno a battere alla porta della coscienza non appena la stanchezza del rimedio si farà sentire.
Il respingere i pensieri molesti non risolve niente, dunque. Si rimane nelle sabbie mobili della palude informale delle nostre emozioni, nell'infido acquitrino delle proprie inevitabili lacune, nella ottenebrante angoscia del non saper cosa e come fare per affrancarsi dalle esiziali ancestrali paure e ritornare pienamente a vivere: una vita pratica, cosciente, reattiva, costruttiva, soddisfacente.
L'annaspare nella ricerca di uno specifico salvifico che allontani da noi il calice dell’essere ed il suo spinoso contenuto è lo Stige più inficiante in cui ci si possa immergere.
Quindi? Non resta che combattere l'ignoto col coraggio, l'incertezza con la decisione, il dubbio col ragionamento, la titubanza con la consapevolezza che la soluzione ai nostri problemi è dentro di noi e non fuori.
Tirando le fila, noi “possiamo” in quanto “vogliamo”.
Qui, in questo centro, e non mi stanco mai di ricordarlo e di ripeterlo ad iosa, una volta deambulava un cieco dalla nascita: Nino Barravecchia si chiamava; persona schietta, proba e di grande spessore morale. Procedeva da solo per le strade servendosi di un nodoso bastone bianco col quale tastava il suolo dinanzi a sé per orientarsi. Era noto a tutti. Conosceva la toponomastica ambientale in maniera formidabile e non c’era verso, ove qualcuno per celia lo inducesse, di fargli sbagliare strada. Si rendeva utile alla società suonando il pianoforte nelle occasionali private feste paesane e l’organo in chiesa. Viveva presso le allora monache di S. Pasquale. Era molto amico della mia famiglia e sin da piccolo me lo trovavo per casa.
Aveva, costui, una massima imprescindibile (e la enunciava ad ogni piè sospinto) che mi sembra proficuo riportare alla memoria : "...chi ha poca forza si faccia molto coraggio; chi ha poco coraggio si faccia molta forza..."
Per quanto possa sembrare una battuta, un giuoco di parole risibile più che avveduto, nei momenti di dubbio ci si dovrebbe rifare a tal concetto.
I salvifici pensieri atti a fugare le universali perplessità promanano dalla riflessione; e questa, guidata dall'egida del ragionamento, scaturisce dall'esser soli con se stessi in un limbo mnemonico, spirituale, tutt’altro che sterile, profondamente umano tuttavia.
In siffatta dimensione si cresce; nel caos giornaliero si vive vegetando.
I raggiungimenti sociali sono ben effimera cosa se paragonati alla conquista della propria personale maturazione.
La consapevolezza di sé è sinonimo di crescita e la perseveranza ne è il principale propellente.
E dall'amalgamarsi delle preponderanti trame esistenziali, pensiero e volontà, introspezione ed esternazione, immaginazione e dovere, si addiviene al concetto di realtà, di presente, di tangibile, di certo.
Dal connubio fra volontà e logica è più facile, quindi, che emerga la serenità con i suoi imprescindibili presupposti: l'accettazione incondizionata del reale ed il superamento dell'ostico, del nebuloso primordiale, del negativo, dell'ineluttabilità del destino; dimensione, quest'ultima, propria degli accadimenti coscientemente vissuti e stoicamente accettati, verificatisi nell’ambito delle nostre azioni.
Intendiamoci: qui non voglio minimamente sostituire Socrate, né Anassimandro, né Aristotele e men che meno Talete, né attaccarmi al poliedrico genio di Freud, né far le veci di qualche eminente filosofo, del tipo di Anassagora o di Nietzsche, sciorinando dottrina che personalmente sono ben lungi dall’avere; né, tampoco, voglio correre il rischio (che in fondo mi onorerebbe) che questa mia prolusione venisse intesa alla stregua delle “Operette Morali” del citato preclaro de cuius. Intendo soltanto, esplicitandoli, soprattutto chiarire a me stesso determinati assiomi, alla luce, anche, di quanto i saggi col loro esempio e con i loro scritti abbiano potuto esternare.
Costante comune: il vero saggio, l'uomo che cerca con i propri mezzi elargitigli dalla natura e tenendo ben fermi i piedi sulla terra ancorati ad una realtà connivente e concreta, quello, cioè, che, con l'aiuto delle sole sue intuizioni e conoscenze più o meno filosofiche ("...tutti sono pazzi tranne il sapiente..." con lungimiranza annotava Quinto Orazio Flacco nel suo dialogo con un tal Cazio nella IV satira) tenta di sceverare l'irrisolvibile prefiggendosi di fornire concrete risposte a domande cardine del tipo "chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo e perché?", quello che cerca di sondare l'ignoto alla ricerca di una verità imprescindibile che appaghi l'inesauribile sete di conforto che ci assilla dalla nascita e che ci accompagna in tutte le vicissitudini della nostra precaria esistenza, costui, quest'uomo insomma, intravvede al di là della propria natura e, guarda caso, è quasi sempre ateo.
La razionalità condiziona il suo pensiero e gli preclude i varchi di qualsiasi volo pindarico inteso al raggiungimento di una certezza cosmica ed eterna.
Da qui il contraltare: la fede in ogni corrente di pensiero trascendentale.
Da che mondo è mondo infatti, tutte le genti hanno sempre sentito il bisogno di aggrapparsi ad un qualcosa di elevato da cui ricevere protezione, come la prole dai genitori; il che dimostra inequivocabilmente che è innato nell’uomo il senso del Divino (dal panteismo al monoteismo).
La fede, linfa ristoratrice e madre benefica che sostiene, appaga e guida, vessillo taumaturgico contro l’ansia e contro la radice di ogni esiziale timore più di qualsivoglia altro umano rimedio, è la panacea dei più, di tutti coloro che con dedizione si affidano all’immanente, di quelli che, anziché alle proprie carenti potenzialità, demandano ad un aiuto esterno, trascendente, salvifico e sovrano, la soluzione degli affanni e delle problematiche che li assillano abrogando il ragionamento ed accettando fiduciosamente per certo quel che, tuttavia, non è scientificamente dimostrabile, o, per lo meno, che non promana da un teorema razionale esaustivo, inattaccabile, ma che esclusivamente trae origine dalla speranza subliminale e dalla incondizionata fiducia (rispettabilissime dimensioni concettuali volutamente acquisite) in una Entità Superiore, misericordiosa e protettiva, Origine e Creatrice del tutto cosmico, infallibile e giusta, che mitighi ed acqueti l'animo indirizzandolo ad un agognato nirvana.
Essa fede, rappresenta un conforto efficace ed ineludibile, un baluardo morale rivolto al bene fornendo uno spirituale supporto che negli eletti determina certezze; specifico che domina la paura dell’ignoto che attanaglia l’animo dell’uomo, che soppianta il timore del nulla, che alla finitezza della umana grama esistenza concede un avvenire e che assicura un aiuto soprannaturale che sostiene ed al quale affidarsi incondizionatamente.
Tale encomiabile salvifico afflato si dimostra esaustivo nella misura in cui riesce a caricarci psicologicamente potenziando il nostro metro di giudizio e la nostra energetica forza reattiva nel ginepraio delle quotidiane avversità.
Ma non tutti si è nella invidiabile condizione spirituale di uniformarsi ad un dogma che esula dalle normali trame di uno stringato ragionamento; né qui io voglio addentrarmi in un argomento più grande di me che mi porrebbe nella condizione della pulce dinanzi alla piramide. Non ne ho i numeri. Un’indagine sull’Infinito, che non sarei nemmeno capace di ipotizzare, mi porterebbe inesorabilmente a soluzioni contrastanti ed imprecise e, comunque, non generalmente costruttive ed appaganti.
E così, io che oggi mi trovo nella precaria condizione temporale del quasimodiano “… e fu subito sera…”, immerso nella mongolfiera delle molteplici incertezze in cui mi dibatto, perché tutti ci dibattiamo in incertezze, chi più chi meno, ed il sopportarle ed il fugarle vittoriosamente è tutta questione di temperamento e di stomaco (e, a proposito di stomaco, non è da dimenticare che c’è “… chi nasce Melchisedech e chi Quirino…”, come distingue Dante), per quanto esse incertezze possano essere state mitigate dal pregresso riflessivo periodo trascorso in vacanza, riprendo la mia abitudinaria esperienza cittadina con i soliti impegni caserecci, burocratici, di convenienza e d’ambiente, con le solite partecipazioni a manifestazioni culturali o pseudo tali, con le solite passeggiate serali deambulando fra gente comune del mio stampo e fra pittori, scultori, poeti, letterati e quant’altri, artisti di cui il nostro centro è stracolmo (città degli artisti, connota Roberto Giacchino!), con più tempra di quanto non l’avessi prima perché adesso rinvigorita dall’elegiaco agreste respiro, nell’attesa della rituale, pratica, inderogabile e nutriente parva cena che benevolmente ancora le tasse mi consentono e che invariabilmente alle 20 mi aspetta a casa.
Ben trovati!
Cefalù, 22 Ottobre 2019
Giuseppe Maggiore
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Commenti
Angelo Sciortino -
Bentornato!
Vedo che le agresti riflessioni ti hanno ritemprato.
Enzo Rosso -
Bentornato
Caro Pippo,
bentornato! Forse non lo sai, ma la tua latitanza in campagna si è sentita.