FÉMINA, mostra di Saro Curcio

Ritratto di Rosalba Gallà

14 Ottobre 2019, 18:12 - Rosalba Gallà   [suoi interventi e commenti]

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FÉMINA, mostra di Saro Curcio

di Rosalba Gallà

 

Fémina, una mostra come un viaggio nel tempo e nello spazio, un viaggio affascinante e ricco di sorprese, che permette di incontrare gli sguardi di molte donne, anzi di femmine, che tanto hanno da raccontare a chi ha voglia di perdersi nell’osservazione dei loro ritratti. Fémina, non femmina e non donna o donne, probabilmente perché Saro Curcio, vuole condurci all’origine linguistica e culturale della “femminilità”, alla espressione antica e poetica, che vuole la fémina feconda e fruttifera dal punto di vista biologico. Con il tempo il termine femmina (e alcuni suoi derivati) ha assunto una connotazione spesso negativa, contrapposto a donna, domina, signora. Nella mostra di Saro Curcio, allestita presso Bastione Innovazione cibo - cultura, si incontrano femmine, donne feconde, non necessariamente dal punto di vista biologico, ma culturale, sociale, artistico, e che hanno lasciato o lasciano segni nel mondo, tracce indelebili di un ‘cammino’ che si è fatto spesso ‘strada’ per l’umanità.

Le sei sezioni della mostra di Saro Curcio, che abbracciano un periodo artistico di venti anni (1998 – 2018) sono altrettante finestre sul mondo femminile, permettono di affacciarsi sulla sua eterogeneità e sulla sua molteplice bellezza, fuori da ogni stereotipo e da ogni convenzione, perché la bellezza è una dimensione che si irradia dall’interno e che può trovare espressione anche nel reticolo delle rughe di un volto che, nelle sue trame, racconta una storia.

Ritratti di donne, dunque.

Ritratti di donne nate dalla intelligente scrittura di Santa Franco: sono le femmine della sezione Interpretazioni, presenti nel libro Donne di zagara, donne conosciute attraverso la parola e che diventano vive attraverso il segno dell’artista Saro Curcio, segno forte e duro, come forte e dura è stata la vita di quelle donne, segno corposo per dare plasticità a quelle storie che abbiamo imparato ad immaginare.

Mater dolorosa

Ma cos’è un ritratto? “Nel suo senso ordinario il ritratto designa la rappresentazione di una persona, in particolare del suo volto […] La lingua italiana ha conservato la composizione del latino trahere, tracciare, col prefisso re che sottolinea l’estrazione del tratto, l’azione di tirarlo fuori dal modello per riprodurlo”. Ma il “ritratto designa il ritiro, la retrazione, la contrazione”, per cui in esso bisogna considerare “il ritiro dell’altro nella sua (rap)presentazione stessa”. “L’altro che viene ritratto è anche l’altro ritirato, e di conseguenza l’altro riconosciuto – se la somiglianza vale come riconoscimento – è anche l’altro reso più sconosciuto di quanto lo fosse prima di questo riconoscimento. Egli è più sconosciuto dal momento che è ritirato nella sua alterità. Ma questo ritiro rivela il mistero di questa alterità: non lo svela, al contrario rivela che si tratta di un mistero, e che senza dubbio il problema non è dissiparlo” (Jean- Luc Nancy, L’altro ritratto, Castelvecchi).

Ed è questo che ci conduce ai ritratti di Intima Bellezza, donne molto diverse l’una dall’altra, legate però, come dice il titolo della sezione, da una luce interiore che si irradia verso l’osservatore: Audrey Hepburn, Rita Levi-Montalcini, Alda Merini, Frida Kahlo, Michelle Obama, Marylin Monroe, Maria Callas (in copertina). Quanta diversa bellezza nello sguardo elegante e raffinato di Audrey; in quello intelligente e arguto di Rita; in quello dolce e sofferente di Alda; nello sguardo negato di Frida; in quello deciso e penetrante di Michelle; in quello sensuale e malinconico di Marylin. E se nel ritratto lo sguardo è il veicolo comunicativo fondamentale, non si può non riconoscere il valore di coinvolgimento delle mani: la mano di Alda Merini, con l’immancabile sigaretta, piena e morbida, proiettata verso l’osservatore, in un gesto interlocutorio che vuole essere di apertura e di sfida da parte di una donna che può continuare ad esistere poeticamente, nonostante tutto e tutti; la mano di Rita Levi-Montalcini, asciutta e rugosa, quasi una scultura, appoggiata al mento, non per sorreggerlo, ma per completare un aspetto sapiente ed esperto; la mano di Marylin Monroe, con un dito appoggiato sui denti, in una posa accattivante e seducente. Certo, si tratta di ritratti mediati, ma originale è il tratto della china di Saro Curcio, che ora scurisce, approfondisce, dà spessore, ora sfuma e ammorbidisce il segno, in un corposo gioco di luci e ombre che imprime e sintetizza nei volti e nei gesti delle mani il senso di un’esistenza. Altro elemento di novità e originalità è l’introduzione dell’acquerello in alcuni dettagli (come le labbra o alcuni elementi di abbigliamento) e nello sfondo, che sapientemente esprime ora le emozioni delle sfumature calde dell’ocra, ora quelle relative ai freddi toni del blu e del viola, ora una simbiosi delle une e delle altre, a seconda della personalità delle protagoniste.

Rita Levi Montalcini

C’è poi la sezione dedicata alle Donne di Carta, eroine dei fumetti che fanno ormai parte dell’immaginario collettivo, in un limite vacillante tra bene e male. Esse vengono presentate con il tipico tratto grafico deciso, pieno, soprattutto paziente, fatto di stratificazioni volte ad ottenere effetti scuri. Si tratta di un omaggio ai grandi fumettisti (basti pensare alla Valentina di Guido Crepax o alle eroine dell’universo Marvel Comics o DC Comics) e un ritorno alle sue origini artistiche, a quando, negli anni Ottanta, Saro Curcio realizzava fumetti, pubblicati su La città futura, su Eureka e su l’Unità e, grazie ad una collaborazione con Giuseppe Tornatore, fumetti satirici che furono animati e doppiati su Rai3.

Vampirella

In questo caso, però, tra le eroine ritratte dall’artista, la mia simpatia va alla copertina della sezione, dedicata a Mafalda, bambina di carta creata da Quino, dotata di uno sguardo lucido e disarmante sulla realtà, capace di spiazzare i saggi adulti e che, tra tante figure biopotenziate, coraggiose, trasgressive, violente, assassine, richiama la sua attenzione, esclamando Ehi… ci sono anch’io! Ci riporta con i piedi per terra questa bambina che odia la minestra e che per questo è molto umana e simile a tanti bambini reali, ma che è capace di confrontarsi con problematiche immense di politica, economia, società, con gli occhi limpidi della fanciullezza che riesce a smascherare i calcoli e le meschinità del mondo dei grandi. Il tutto si riassume nella costante attenzione al suo mappamondo, espressione della cura che si deve al nostro pianeta per guarire la sua febbre e tutti i suoi malanni, messaggio di grande attualità.

Ai ritratti di donne reali si ritorna definitivamente con le ultime tre sezioni della mostra, For The Peace, Divine e Serie Etnica.

Bellissime le tavole che ritraggono le donne insignite del Premio Nobel per la Pace, in cui emerge tutta l’Intima Bellezza di vite dedicate agli altri, nelle molteplici possibilità in cui l’impegno per un’umanità migliore può essere sperimentato e attuato, anche da ciascuno di noi. Piccole grandi femmine, fecondatrici di pace e solidarietà: Bertha Sophie Felicita von Suttner (la prima donna a ricevere il Nobel per la pace nel 1905, nella copertina della sezione), Jane Addams, Aung San Suu Kyi, Wangari Muta Maathai, Leyman Gbowee, Malala Yousafzai (la più giovane in assoluto ad essere insignita del prestigioso riconoscimento) e Madre Teresa di Calcutta. Tutte le tavole sono particolarmente interessanti, soprattutto per la sapienza con cui due tecniche si compenetrano, realizzando un tutto compatto dove il segno della china si arricchisce e ammorbidisce con le sfumature umide dell’acquerello, sempre più presente e sempre più ricco nella composizione del colore, che raggiunge la massima espressione nel ritratto di Malala, nel copricapo riccamente decorato, in cui l’abbondanza di colore sembra colare e sfumare verso il basso. Il ritratto di Madre Teresa, però, ha una potenza che supera ogni limite, oltrepassa la bidimensionalità e diventa scultura. Ritratta dal basso, è l’unica donna della serie che non rivolge lo sguardo verso l’osservatore: guarda altrove, verso distanze infinite, con i suoi occhi stretti e penetranti, con il tracciato profondo delle rughe del suo volto, le labbra serrate in una concentrazione che va oltre l’occasione del momento per rivolgersi all’umanità tutta, con un riguardo particolare ai sofferenti e ai dimenticati. Le braccia incrociate davanti al busto, la mano che si intravede chiusa in un pugno, anch’esso tracciato da mille trame, amplificano la plasticità della figura e la composta serietà di questa piccola donna che qui diventa imponente. Quasi tutto è in bianco e nero, il tratto della china e lo sfondo in acquerello su sui si staglia la figura, sfondo che evoca un cielo nero in tempesta non temuto dalla solidità statuaria di Madre Teresa, addolcita solo dal lieve azzurro del bordo del sari. In questa tavola, probabilmente, si realizza pienamente il senso del ritratto: “Manifestare al di fuori e immergersi al di dentro sono, nel ritratto, opposti e, allo stesso tempo complementari” ed è così che “l’altro si ritira nell’abisso del suo ritratto, ed è in me che risuona l’eco di questo ritiro” (Jean- Luc Nancy, ibidem).

Madre Teresa di Calcutta

Nella sezione Divine ci vengono presentate sei grandi attrici italiane che hanno avuto o hanno grande risonanza internazionale: il mondo dorato della loro esistenza (se ci fermiamo alla superficie della vita) è reso senza più la durezza del segno grafico che abbiamo imparato ad apprezzare nelle precedenti serie di donne, ma con il colore ricco dell’acquerello, che ora predilige i toni più forti, ora quelli più sfumati, sempre caratterizzato da una luminosità che si irradia verso l’osservatore. Così incontriamo Sofia Loren, Stefania Sandrelli, Claudia Cardinale, Monica Bellucci nella loro bellezza superba e poi Anna Magnani e Monica Vitti, intense e affascinanti nella loro bellezza alternativa, forse imperfetta, ma anche per questo unica e irraggiungibile. Unici gli occhi di Anna, profondi e corrucciati, resi più penetranti dalle occhiaie e dalle rughe della fronte: la sua bellezza è un po' sfatta e abbandonata, ma irradia una luce che nasce dalla profondità; dorata la tavola che ritrae Monica Vitti, che si ispira ad una nota foto, ma che risulta originale nella rotazione del volto, nei colori e nella interpretazione delle mani su cui il volto si appoggia. “Ogni ritratto compone una caratterizzazione, un’osservazione selettiva, riflessiva e interrogativa, che si impegna non a restituire, ma a configurare un carattere – non il carattere presunto «veritiero» o «autentico» di colui che è rappresentato […] Di questo soggetto sono possibili molte caratterizzazioni, interpretazioni, ritratti: di volta in volta esso esibisce un nuovo carattere, una nuova variante, sfumatura o tonalità al fondo della quale si ritira sempre più «in-sé», ovvero ciò che potremmo chiamare il «carattere assoluto» del soggetto”. Divine le donne di questa serie, note a tutti, apparentemente conosciute: nel ritratto, però, notorietà e intimità “sembrano respingersi reciprocamente, ma ciascuna invoca l’altra per sostenersi: l’intimità vuole essere segnalata, riconosciuta per essere rispettata; la notorietà vuole che la si intuisca abitata da un segreto” (Jean- Luc Nancy, ibidem).

Anna Magnani

Infine la Serie Etnica, che in maniera circolare ci porta all’origine del percorso tematico di Saro Curcio e alla sua conclusione (2018), almeno per adesso… L’universo femminile è così ampio, che tante terre restano inesplorate e Saro avrà tempo di percorrerle. È una sezione che ci conduce in giro per il mondo, in contrade poco battute, ma palpitanti di vita, di colore, di cultura, tra popoli che conservano le proprie ataviche tradizioni, distanti dalla massificante condizione del mondo contemporaneo. Popoli ricchi di colori, come i costumi delle donne e i loro ornamenti, che hanno probabilmente indotto l’artista alla tecnica dell’olio e dell’acrilico, che con la loro corposità meglio rendono lo splendore e la ricchezza decorativa dell’abbigliamento femminile. Ed ecco la Madonna Indiana (1998), la Famiglia Curda (2007), la Karen Padaung (2007), dell’area tibeto-birmana, la Donna Cuna (2018), delle isole San Blas, Panama, la Donna Bonda (2018), appartenente a minoranze di territori indiani, e la Donna Miao (2018), di un piccolo gruppo etnico in territori cinesi. Sono donne che esprimono valori diversi, usi a noi estranei, provenienti da lontano, nello spazio e, soprattutto, nel tempo: e l’artista ce le presenta con un messaggio che è quello del rispetto dell’altro, di ciò che appare diverso e che per questo desta spesso sospetto e timore, messaggio quanto mai attuale. Lo sguardo di queste donne è in realtà diverso da quello delle altre, perché non conosce forse gli infiniti infingimenti di cui può vestirsi, e va diretto sull’oggetto osservato, in maniera schietta e cruda. Mi soffermo sulla Donna Cuna, donna anziana, luminosa nei colori sgargianti dei suoi abiti tradizionali, in cui il rosso e il giallo trovano la sintesi nel colore della sua pelle: pelle asciutta come un tessuto in cui la trama e l’ordito, intrecciandosi nel volto, raccontano una vita intera, insieme allo sguardo acuto e scuro, che osserva un po' di lato, con dignità e serenità; pelle secca dell’avambraccio e della mano, che segue il movimento e la frizione dei bracciali, come solo la pelle dei vecchi sa fare. Vene come fiumi in piena percorrono la mano su cui è appoggiato il mento, in cui colpisce il lieve movimento delle labbra e della guancia spostate dall’attrito della mano chiusa. Bravissimo Saro nel farci percepire questo movimento, lo spostamento della pelle che vivifica il ritratto e lo mostra in movimento, anche attraverso la torsione del busto.

Donna Cuna

Soprattutto per queste donne lontane da noi, vale la pena di concludere, con un testo di Daniela Calabrò, postfazione della già citata opera di Jean-Luc Nancy, L’altro ritratto:

 

POSTFAZIONE

di un incontro mancato

 

Come di un passo falso o di un incontro mancato
l’altro aggiorna il suo stato e riparte
alla volta di un altro ritratto…
Ri-tratto, tracciato di nuovo, per farsi riconoscere,
per farsi ricordare o solo per ritrovare la strada
dopo un lungo viaggio…
questi sono i corpi dei ritratti,
questi i loro volti,
queste le loro stranezze estranianti
questi i buchi neri in cui sprofondiamo…
da sempre il ritratto ci attira come un vortice,
come abisso da cui non possiamo distogliere lo sguardo
da sempre manchiamo il nostro appuntamento
e sempre cadiamo in quel buco nero stellato…
è così del resto che i colori si infrangono sulla tela,
che l’argilla si scioglie e fa corpo,
che il marmo si flette nel desiderio di un bacio.
Ed è ancora un incontro mancato all’ennesima potenza
quello con un volto che non riconosciamo,
perché troppo tardi o troppo presto è arrivato.
Un passo alla volta ci avviciniamo… e poi lui, l’altro, il ritratto si allontana, si ritrae.
Ma non per nascondersi, non per sottrarsi, ma per mostrarci altre vie…
Si ritrae, appunto, si dà ancora una volta come
traccia, come tratto, come indice.
Tutti i corpi sono questo ritrarsi o questa indicizzazione,
questo desiderio di attrarre e di attrarsi
in uno sguardo, in un abbraccio, in una notte.

La mostra è visitabile fino al 12 novembre 2019, presso Bastione Innovazione Cibo -Cultura, Cefalù.