La presentazione del libro di Rosario Ilardo alla sala di S.ta Caterina - Parte 2°

Ritratto di Pino Lo Presti

30 Maggio 2013, 03:06 - Pino Lo Presti   [suoi interventi e commenti]

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Prof. Carmelo Montagna
Approfitto dell’occasione per raccontarvi qualcosa - senza pretesa di specialismo - di interessante che spesso non si conosce.
Quando, una quindicina di giorni fa,  Sandro Musco mi mise in mano il libro, all’inizio rimasi un poco sconvolto non solo per la sua mole.
Cominciai a consultarlo dal fondo: una  bibliografia  impressionante, un indice dei nomi sbalorditivo.



Notai che c’è un’apparato importante anche sulle Acropoli delle città antiche, e che fra le Acropoli di Tirinto e di Atene,  noto  che l’autore  ha citato anche l’Acropoli di Balate e Vallescura di Marianopoli. A quel punto, mi dissi  che non potevo più fare a meno di approfondire il contenuto,  tirato, fra l’altro, in ballo in quanto sindaco di Mitistrato perché Balate e Valleoscura  sono le aree archeologiche della città antica di Mitistrato  che attualmente si chiama Marianopoli.
Scopro così  altre cose che mi attirano particolarmente: soprattutto il metodo.
Il prof. Panzarella  diceva delle opere, che non è importante la verità che contengono -  chè sappiamo tutti che la storia è in divenire,  e vi sono sempre continue aggiunzioni -  ma è il metodo, perché il metodo certifica che il percorso è adeguato, che i risultati sono attendibili.
Qualcosa che condivido in pieno e che anche nelle micro-storie (quella di Cefalù non è una micro-storia) in Sicilia quando tiri un filo ti ritrovi a che fare con 3/4 mila anni di storia, che ne sono la trama e l’ordito anche delle cose più banali. E’ qualcosa che dovremmo imparare tutti -  in quanto cittadini di questa terra (qualcuno dice “sotto-sopra  sviluppata”; il prof Musco ha detto: “ abbiamo un grande futuro alle spalle”) - a ricordare.  
Penso che dobbiamo ripartire da quello che abbiamo per avere un futuro, visto che l’altro (industrializzazione, Termini Imerese, Fiat etc...) è stato una grande illusione.  Allora, bisogna, da libri come questo,  imparare la lezione e fare i conti con la storia della Sicilia, e, aggiungo, “con la Sardegna”, perché fare i conti con la Sicilia significa anche fare i conti con la realtà dirimpettaia - attraverso le isole Eolie e Ustica - che è la Sardegna.



Per capire il Mediterraneo bisogna fare questo lavoro.
Lo avevano capito i greci; tutta la mitologia greca ha sempre una “puntata” in Sicilia, chissà perché!
Allora, fare i conti con la Sicilia, significa tenere in considerazione tutta questa rete di attraversamenti e contatti, lingue, singolarità, prestiti, calchi, rimodulazioni.
Noi siamo figli di tutto questo. nel bene e nel male.

Non essendo uno specialista di Cefalù, e parlando a gente che non so quanto sa di Cefalù, voglio farvi l’ esempio di un buon metodo che è quello che applicano le zie quando nasce un nipotino, quando, guardandolo, ci si chiede a chi somigli. Pensare per genealogie è importante almeno come metodo di prima approssimazione. E, io  questo vorrei fare, in assenza di altri elementi certi, e a partire dai dati che il dott. Ilardo, in maniera magistrale, da gigante, ci mette a disposizione.
E  vorrei partire, come esempio, proprio da quello che c’è davanti a noi: il Duomo di Cefalù.
Per capire il Duomo, occorre mettersi davanti il quadro di tutta la storia dell’architettura del Mediterraneo di età romanica, perché in quella struttura vi sono fili che partono dal mondo persiano, dall’Islam persiano, attraverso il mondo bizantino, il mondo romanico-normanno: quindi filoni, influssi  che sviluppandosi da oriente e da Occidente, qua si concretizzano in un unico fatto realizzato magari da maestranze islamiche però con iconografie cristiane e con influssi che vengono da tutto il Mediterraneo.
Ecco, un centinaio di metri più il alto c’è questa cosa che è il tempio di Diana che probabilmente ha una stessa  complessa genealogia, dove cioè vi sono una serie di influssi che vengono dal mondo egeo  e arrivano sino allo scarabeo egizio che, in maniera magistrale - da grande detective - il dott. llardo ha certificato che si trovava sul fondo di quella che è passata per una cisterna, ma che, in realtà, è una tomba megalitica, con una struttura a Dolmen.



Sotto questa nuova luce, la chiave di lettura di quel manufatto  è quella di una grande  struttura funeraria di un personaggio che conosce il rituale egizio e che usa il seppellimento con  lo “ scarabeo del cuore” (dove è inscritta una formula magica che parla di un rituale importante), in un edificio che, pur nella sua piccola dimensione, somiglia in maniera straordinaria all’architettura minoica e micenea.
Si tratta quindi di una tomba-santuario, probabilmente di un eroe di cui sarebbe interessante scoprire l’identità.
Abbiamo un indizio temporale preciso perché quello scarabeo è datato Amenofi IV, XVIII  dinastia,  1300 a.c.
Quindi la storia della cisterna che si trova sulla rupe -  dove non c’è acqua - comincia a diventare estremamente affascinante.

Questo è quindi il metodo che io qui vorrei proporre per qualche piccola riflessione da storico piuttosto dell’arte e curioso della storia dell’architettura.
Un primo ordine di riflessioni riguarda il contesto di questa genealogia; il secondo - più specifico -, lo stato degli studi sulla storia dell’architettura antica ahimè ancora tutta da scrivere.

Il contesto è questo.
La famiglia di appartenenza di queste mura megalitiche  sulla Rocca comprende anche quelle sulla costa (vedi “Postierla”) di Cefalù (sotto-datate ma che, a mio avviso,  rimandano almeno al 1300 a.C., cioè all’età del bronzo finale) e quelle delle mura di Tirinto,  di Micene, di Tusa, capitale del regno degli Ittiti.
L’evidenza è questa: queste mura  (di cui non sappiamo praticamente niente) non sono fatte da un semplice muratore. Il basamento del Tempio di Diana è poligonale. Vi è al riguardo un contesto di riferimento che non è da sottovalutare.
In Italia esistono almeno duecento kilometri di mura megalitiche poligonali che nessuno ha mai studiato. Chi ha fatto studi approfonditi su questo - Giulio Magli -, ha redatto una specie di catasto-repertorio e sarebbe ora che qualcuno cominciasse a metterci mano, uscendo dal generico qualunquismo. Tra l’altro, questi 200 kilomteri di mura megalitiche hanno una storia da raccontare; nella loro genealogia c’è la Porta dei Leoni di Micene, la capitale degli Ittiti Tusa, e un muro - di una ottantina di metri - che si trova sotto il tempio di Apollo, a Delfi, di una bellezza impressionante:  muro poligonale megalitico che somiglia tantissimo a quello del basamento del Tempio di Diana.
C’è anche una architettura  strepitosa, molto misteriosa, che è l’Oracolo dei morti che si trova ad Efira, in Epiro ( di cui parla addirittura Omero).
Ora,  di queste mura megalitiche, qualche kilometro si trova esattamente tra Cefalù e Murapregne (Sciara, Aliminusa, Fiumetorto). Si trova o “si trovava”,  ad essere precisi, perché quello che resiste di queste mura megalitiche è molto poco. Queste mura  sono un sistema di difesa, di fortificazione sul mare che da Cefalù  arriva almeno fino a Murapregne, passando dal  sito  archeologico di Montedoro  di Collesano.
Pensate che,  fino al  1986, Murapregne era il  sito di una cava - la cava Lambertini -. Questa  cava usava la dinamite per fare esplodere le mura e ricavarne brecciolino. Stessa sorte l’avrebbe avuta anche il castello di Mussumeli  se non fosse intervenuta la visione lungimirante del prof. Musco, da consulente di un grande Presidente della Regione illuminato, che ha salvato da quel destino oltre che il castello di Mussumeli anche quello di Caccamo. A Murapregne però questo non è stato possibile.
A Murapregne c’era un sito dolmenico con un Dolmen importante e un pezzo di muro megalitico  con una celletta dolmenica  su  cui, assieme agli amici di Sicilia Antica,  un paio di anni fa, abbiamo trovato  una incisione di Oranti sull’architrave (una delle forme arcaiche della prima espressione grafica preistorica).
Quelle mura - io mi sono permesso di studiarle -  somigliano in maniera impressionante alle mura di tombe “di giganti” in Sardegna.
I contatti di questa  civiltà nuragica con la Sicilia sono tutti da studiare.
I nuragici usavano la costa tirrenica come area per il commercio dello stagno (per fare il bronzo: il rame lo portavano i micenei da Cipro).
Lungo il sistema dei fiumi (verticale rispetto all’asse orizzontale Palermo Messina) nascono in Sicilia piccole comunità nell’età del bronzo. Questo quindi lo scenario, il contesto di riferimento per il primo spunto di riflessioni.

Quando si parla di mura megalitiche, e soprattutto di opere poligonali, il pensiero va subito a chi li ha fatti.
I Pelasgi  sono quelli che Omero cita come uno dei gruppi che parteciparono alla guerra di Troia. Poi c’è Erodoto che dice che i Pelasgi  abitarono, prima che arrivassero i Dori,  sull’Acropoli di Atene. Subito,  appena vi si entra, ai Propilei,  dietro quello di destra, c’è ciò che resta di un muro megalitico  poligonale impressionante.



La  storia dei Pelasgi è legata  a quella degli Etruschi.
C’è una ipotesi che sostiene che in realtà siano proprio loro quelli che in Italia poi si chiameranno etruschi, imparentati in maniera formidabile con i Sardana che sono quei sardi che ad un certo punto si spostano dalla Sardegna per andare sulla costa toscana, attraverso l’isola d’Elba e Piombino.
C’è una teoria molto recente che dice che la identità vera dei Pelasgi è quella degli Etei. Il nome degli Etei si trova nel tempio di Medinet Habu (Egitto), nella lista dei Popoli del mare che come disperati assaltarono, attorno al 1200 a.c.,  proprio l’Egitto.
Attorno al 1200 a.c. è successa una catastrofe nel Mediterraneo (esplosioni vulcaniche, movimenti tellurici; forse sparì qualche isola tra le eolie e Ustica), e quindi questi disperati si buttarono sulle barche e assaltarono per fame quello che trovarono.
La fortificazione megalitica della costa non solo di Cefalù, probabilmente è da riferire a queste vicende.
Occorre però distinguere tra le mura militari di fortificazione (meno curate) e quelle che cingono le Acropoli. Queste hanno invece un significato simbolico.
A Delfi, per esempio, il muro non protegge niente, come a Murapregne; sono mura di un recinto sacro all’interno del quale c’è uno spazio di qualità diversa da quello profano. Tutta lo storia delle mura è legata a riti di fondazione; la  stessa storia di Romolo e Remo dice di questo. Le città antiche avevano un rito di fondazione che “portava a terra” quello ch’era in cielo, e quando si stabiliva una linea c’era  su di essa un rituale di protezione. Nelle città romane si sà che c’era il Pomerio che era una fascia attorno alle città che non si poteva attraversare armati (ad esempio). Violare questa regola significava la morte. Uno dei fratelli della fondazione di Roma viene ucciso dal gemello perchè viola appunto questa regola.

Quindi i Pelasgi sarebbero questi Etei.
Gli Etei sono gli Ittiti. E quindi le mura pelasgiche sono mura ittite. Parlare  degli Ittiti significa parlare di una delle prime grandi civiltà.
Altra piccola considerazione.
Le  opere poligonali sono conosciute in tutte le grandi civiltà del mondo: persino in Perù, nello Yucatan. Il monumento  in opera poligonale più antico del pianeta si trova in Italia, in Sardegna, a  Monte Baranta,  presso Olmedo,  datato al 2200 a.C.
Il  punto di partenza, tanto per cambiare, è dunque vicino a noi; mura megalitiche poligonali, simili a quelle del basamento del Tempio di Diana, si trovano infatti in Sardegna.
Poi  ce ne sono nelle Baleari, nell’Asia minore, soprattutto nelle grandi cinte murarie di Micene e Tirinto.
Uno dei muri poligonali più enigmatici si trova ad Efira, in Epiro, tirato fuori da uno scavo alle fondamenta di  una chiesa medievale.



Omero ci dice che Ulisse visitando il regno dei morti riceve dalla maga Circe questa indicazione:  per andare all’oracolo dei morti devi andare alla confluenza di alcuni fiumi tra cui l’Acheronte. L’Acheronte  esiste veramente ed è in Epiro (nord della Grecia balcanica). Su  una collina di quella zona, già a partire dal quinto, quarto sec. a .c., si andava in pellegrinaggio a trovare questo oracolo dei morti. C’è una struttura labirintica, sotto, dove veniva fatto  questo rituale di discesa agli inferi. Vi si trova un muro impressionante,  somigliante questo a quello del tempio di Imera. Strutture  di questo genere ci sono anche più antiche, del 3000 a.C., a Malta,  
La storia del megalitismo è tutta attorno a noi ed è accertato che i costruttori dei megaliti di Malta vennero dalla Sicilia.

Sapete che in Sicilia ci sono persino delle piramidi? C’è n’è una molto misteriosa che somiglia ad un’altra piramide a gradoni (simile ad una Zigurat) che c’è nella Sardegna pre-nuragica  (2500 a.C.), sul Monte d’ Accoddi.
Quella siciliana  è più piccola e si trova a Pietraperzia,  tutta  da studiare.
Negli ultimi anni c’è stato un dibattito molto acceso su un’ipotesi di un giornalista - Sergio Frau -  che sostiene che la Sardegna sarebbe quello che è sopravvissuto alla catastrofe dell’antica Atlantide. Secondo questa ipotesi, le colonne d’Ercole sarebbero nel Canale di Sicilia, davanti a Sciacca, e quindi la Sicilia sarebbe stata la terra da cui si partiva per la Tirrenide. Anche perciò questa nostra costa sarebbe stata frequentata dalla marineria proveniente dal mondo minoico e miceneo. Fin qui  il Contesto di riferimento.

Lo stato degli studi invece è questo.
Se uno va in una libreria a cercare un libro di storia dell’architettura antica di Sicilia, la cosa più recente che trova è la ristampa di un testo  “Breve storia dell’architettura in Sicilia” del prof. Enrico Calandra,  stampato nel 1938.
Egli sostiene che in realtà, in Sicilia, a parte la leggenda  della venuta di Dedalo,  niente di certo c’è, e che la vera storia dell’architettura vi cominci con i greci. E’ il classico paradigma per cui quando arrivarono i greci la Sicilia era terra di Lestrigoni, di  essere mostruosi, ciclopi ma la realtà  potrebbe essere molto diversa.
Il principale danno è che la Sicilia non ha avuto una sua lingua e quindi le fonti che abbiamo sono fonti del “nemico”, diciamo.
Più di recente, il prof. Caronia scrive “L’architettura dei sicilioti” (1988). Ritornando sull’argomento,  da bravo allievo del professor Calandra, dice che in verità, negli ultimi cinquant’anni, nulla di nuovo è stato detto su questa cosa. Lo stato degli studi è quindi fermo a ciò che era già stato superato dalla realtà nel 1938,  quando il professore Paolo Orsi,  da grande archeologo, aveva già trovato, a S.Angelo Muxaro, gli ambienti a tholos monumentali i cui ori si vedono al British Museum di Vienna.
In Sicilia circolava una quantità di oro impressionante, perchè questa gente, di cultura minoico-micenea, vendeva sale e zolfo  agli egiziani per i loro scopi lustrali  e funerari (mummificazione).  
La vicenda della venuta di Dedalo in Sicilia segue la morte di Minosse. Quelli che vengono a ripigliarsi Minosse restano in Sicilia perchè Minosse muore ed è sepolto in una tomba monumentale che, secondo me, si trova alla grotta della Curfa di Alia.
Alla domanda: dov’è il più grande ambiente a tholos del mediterraneo, la risposta non è dove c’è il tesoro di Atreo ma alla Curfa di Alia (dove c’è una camera funeraria più grande di quella che c’è dentro la piramide di Cheope), con quattro stanze sopra dove c’erano sicuramente dei sacerdoti che facevano il rito della Catabasi: un rito di Epifania per i morti.
Là ho trovato persino il tridente dei minoici impresso sulla rupe.



Lo stato dell’arte in Sicilia è questo, quindi sarebbe ora di ripigliare questa grande storia.
Sulla storia dei megaliti, d’altra parte, non passa settimana che non c’è una notizia. La penultima, per esempio, è questa.
Primo Veneroso, di Sciacca, ha trovato un Dolmen a Sciacca, sotto monte Cronio (era già conosciuto quello di S. Giorgio) vicino al Santuario dell’antro di Dedalo, un antro favoloso dove c’è un santuario megalitico impressionante, mai scavato, dove le ruspe e i trattori per attività agricola hanno devastato tutto.
Il dolmen trae il nome da quello del geologo che lo ha ritrovato: Lo Bue.

Il problema dei megaliti in Sicilia è stato soltanto mal posto.
L’ultimo caso che vi volevo riferire mi riguarda personalmente.
Nel 2001 viene fatto un saggio di scavo in un posto che si chiama Vallescura di Marianopoli, che - come ho già detto - è l’area archeologica della necropoli di Mitistrato.
Venne fuori un recinto che non si fece in tempo a scavare. A distanza di dieci anni, quindici giorni fa, l’archeologo, Fabbrizio Nicoletti, viene a Marianopoli e dice: io sono stato un negazionista, assieme al prof. Tusa, della Siciia terra di megaliti però a Vallescura di Marianopoli c’è un recinto megalitico, diametro 20 metri, dove è stata trovata ceramica del 1900 a.c. associata a consumazione di pasti.
“Una Stoneage a Vallescura di Marinapoli” è stata la notizia uscita sui giornali, una notizia che a me, peraltro interessato allo sviluppo del territorio, ha fatto grande piacere per le ricadute anche in termini di attrattività turistica.

In ogni città della Sicilia dovrebbe esserci qualcuno che ama il proprio paese come il dott. Ilardo ama Cefalù; perchè la Sicilia è fatta di tante piccole realtà dove, a partire da qualsiasi piccola pietra, ci sono 4000 anni di storia.
E’ quella collana di perle che ha bisogno di persone illuminate che sappiano inanellarle in un filo.

Prof. Musco
Come mi ero permesso di anticipare, Carmelo Montagna ha aperto a tutti noi scenari che hanno dell’incredibile; sono scenari tutti veri, attestati, confermati.
Io non so chi di voi sia stato ad Alia  a visitare le sue grotte. Quando abbiamo incominciato erano abbandonate.  Ad un Sindaco illuminato mostrammo con le carte che quelle grotte erano di proprietà comunale, e lui subito ha agito facendole ripulire e sistemare. Ora questo luogo è gestito da un gruppo di giovani. Si cominciò con zero visite; nell’anno 2012 erano 25.000. Io e il prof. Montagna  abbiamo ottenuto che appena ci presentiamo all’unico agriturismo della zona, per poco non ci fanno un monumento. Perché la sua proprietaria naturalmente ha implementato la sua attività mettendosi a produrre anche pomodori ed altri prodotti  biologici,  sono sorti  anche alcuni bed and breakfast in paese,  il Comune con i mezzi che aveva ha sostenuto questa spinta. In altro modo, chi sarebbe  quel turista che sarebbe mai venuto ad Alia? La più grande spinta a muoversi è la curiosità.  
Se noi cominciassimo a dire che sulla Rocca di Cefalù c’è un santuario megalitico ascrivibile probabilmente all’età di Minosse ed affini,  vero o non vero che sia da un punto di vista scientifico, costituirebbe di certo un’ottimo richiamo.
Quello che voi chiamate il “pozzo dell’acqua”,  quello è un “santuario”, non si discute.



Aldilà di quello che poi pensa la Sovrintendenza, lo studioso ufficiale, io sono convinto che dobbiamo rompere gli schemi, essere coraggiosi in alcuni casi, in termini positivi, perchè  sicuramente, con la crisi economica che c’è, Cefalù,  solo come fatto di mare, o di cattedrale, non regge l’impatto con la concorrenza turistica. Bisogna aggiungere elementi innovativi, fatti particolarmente significativi che attirano e che vanno presentati nei luoghi dove il turismo viene catturato.
Concludiamo  con le considerazioni  finali dell’autore; che intanto  ci ha riunito così numerosi - il che torna a suo merito perché vuol dire che in questo paese gli vogliono bene.  Inoltre ci ha dato  veramente un grande insegnamento di contenuti, di metodo, di stile di cui non possiamo che ringraziarlo. L’auspicio è che non si metta a riposo e che prepari il prossimo volume.

Intervento conclusivo del dott. Ilardo
Prima dei doverosi ringraziamenti, che esternerò non per codificata ritualità, ma per convinto bisogno interiore di onorare i miei debiti di riconoscenza, che sono tanti, consentitemi di fare qualche puntualizzazione:



La prima:
L’ho scritto nero su bianco e qui pubblicamente lo ribadisco: non sono uno storico, nè un archeologo e nemmeno un esperto conoscitore di “antiquità”, che presuppongono conoscenze e competenze che io non ho.
Mi sono semplicemente lasciato trasportare da quella che il prof. Sandro Musco, nella sua prefazione, ha, con una bella espressione d’altri tempi, definito “insana passione” per la propria terra. E’ con gli occhi della passione che si scorgono, nella propria amata, qualità e pregi che altri nemmeno immaginano. Ed è con questi stessi occhi, da inguaribile innamorato della mia città, che ho colto, nei suoi recessi più oscuri ed intimi, quello che nemmeno l’occhio esperto e distaccato dello storico o dell’archeologo riesce a scovare.
Questo libro non è un atto di presunzione o di intrusione in un mondo che non è il mio: qualcuno, con la delicatezza d’animo che lo contraddistingue, ha scritto su un giornale telematico locale, che il mio è stato un “atto di devozione” verso questa città.
Al di là della fondatezza o meno delle ipotesi prospettate, giudicate questo libro per quello che è, cioè semplicemente l’omaggio di un cittadino alla propria città. Sarebbe per  me il più gratificante dei riconoscimenti.



La seconda:
In questi dieci anni, forse i più attivi e frenetici della mia vita, ho avuto modo, a dispetto degli anni, di scalare e scandagliare la Rocca in lungo e in largo, come non mi era mai capitato di fare nemmeno da giovane.
La Rocca - posso certificarlo come se fossi un medico di famiglia - è ammalata, gravemente ammalata. Necessita di cure. Sono tante le emergenze che richiedono rimedi e interventi tempestivi.
Solo un esempio, fra i tanti: sul primo tratto di levante della grande cinta muraria dell’acropoli, non ancora restaurato - e che, in alcuni segmenti, raggiunge la ragguardevole altezza di 9 metri, sorretto da 3 possenti contrafforti -, incombe la minaccia di un crollo rovinoso.

Da questo luogo, un tempo consacrato a Santa Caterina, oggi aperto alla conoscenza, all’arte, all’incontro e alla contaminazione delle culture, rivolgo - certo di interpretare il sentimento di tanti di voi - una preghiera accorata alle pubbliche istituzioni, così degnamente rappresentate dal Sindaco della Città e dal Presidente del Consiglio comunale, perchè si proceda, con la massima celerità, alla manutenzione straordinaria e al consolidamento di questo tratto di cinta muraria della lunghezza di poco più di 200 metri, per scongiurare un’evenienza che sarebbe nefasta per la cultura e l’immagine della Città.



Terza ed ultima puntualizzazione:
Confido nella solerzia dei rappresentanti delle pubbliche istituzioni verso una “progettualità” che non si limiti semplicemente a considerare il solo profilo della gestione e fruizione della Rocca, ma che, anzi, si elevi a guardare oltre, privilegiando, in un “quadro di intervento unitario”, gli aspetti della tutela, della ricerca archeologica e del restauro; aspetti che del primo ne sono presupposto e fondamento.

In conclusione, desidero esprimere la mia più viva riconoscenza ad Alessandro Musco, non solo perchè è stato prodigo di consigli e di suggerimenti, ma anche per aver accolto questo mio lavoro tra le fatiche e gli impegni dell’Officina di Studi Medievali, affermata casa editrice con un’intensa proiezione in campo nazionale ed internazionale.

Un sentito grazie rivolgo ai tre autorevoli Relatori di questo incontro: il prof. Carmelo Montagna, la prof.sa Rosa Dentici Buccellato, il prof. Marcello Panzarella, per la loro disamina appassionata, scrupolosa, puntuale.

Il mio sincero ringraziamento va, inoltre a: Valeria Calandra, Salvatore Cefalù, Antonio Franco, Nicola Imbraguglio, Pino Lo Presti, Pietro Lunardi, Domenico Portera, per avere arricchito e qualificato la ricerca con l’autorevolezza dei loro contributi specialistici. Tra questi manca - ma è come se ci fosse - quello di Pasquale Culotta, che non ha fatto in tempo ad ultimarlo perchè strappato alla vita e agli affetti.

Ringrazio, ancora, Ignazio Camilleri, Franco D’Anna e Giuseppe Forte, per la delicatezza dei loro scorci paesaggistici; Francesco Cefalù, Marco Cefalù e Salvatore Giardina, per la perizia dei loro disegni e rilievi grafici; Rita Loredana Foti, per avermi orientato nelle ricerche di archivio; Mari Gini, per la fedele traduzione dei testi in lingua straniera: Diana Sella, per la infinita pazienza con cui ha digitalizzato il testo; gli adulti scout del MASCI di Cefalù, per lo spirito di servizio alla Città, che anima ogni loro iniziativa.

Serbo, infine, profonda gratitudine verso i miei cari, la cui amorevole vicinanza e cristiana sopportazione mi sono state di conforto durante la lunga gestazione del libro.

Rivolgo un pensiero speciale a mio figlio Lorenzo e alla moglie Anna, senza il cui acuto spirito di osservazione, il diligente supporto nello studio delle fonti classiche, il fervido impegno nelle ricerche d’archivio, in larga misura inedite, questo libro non avrebbe mai visto la luce.



Un grazie di cuore, da ultimo, ai cittadini di Cefalù, a cui questo libro è idealmente rivolto, oggi così numerosi ed interessati, e agli amici provenienti dalle comunità limitrofe - Lascari, Gratteri, Castelbuono - nonchè dalle città più lontane dell’isola, come Enna e Messina, che mi hanno dato gioia con la loro presenza.
Grazie, ancora, per la vostra vicinanza.



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"La Rocca - posso certificarlo come se fossi un medico di famiglia - è ammalata, gravemente ammalata. Necessita di cure. Sono tante le emergenze che richiedono rimedi e interventi tempestivi.
Solo un esempio, fra i tanti: sul primo tratto di levante della grande cinta muraria dell’acropoli, non ancora restaurato - e che, in alcuni segmenti, raggiunge la ragguardevole altezza di 9 metri, sorretto da 3 possenti contrafforti -, incombe la minaccia di un crollo rovinoso."

Da questo luogo, un tempo consacrato a Santa Caterina, oggi aperto alla conoscenza, all’arte, all’incontro e alla contaminazione delle culture, rivolgo - certo di interpretare il sentimento di tanti di voi - una preghiera accorata alle pubbliche istituzioni, così degnamente rappresentate dal Sindaco della Città e dal Presidente del Consiglio comunale, perchè si proceda, con la massima celerità, alla manutenzione straordinaria e al consolidamento di questo tratto di cinta muraria della lunghezza di poco più di 200 metri, per scongiurare un’evenienza che sarebbe nefasta per la cultura e l’immagine della Città."

PRIMA SALVIAMOLA !
Poi, magari, ....... LA DISTRUGGIAMO : CON LA CABINOVIA