In ricordo di Giuseppe Brocato, Antonino Flaccomio e Bartolo Martino

Ritratto di Liceo Artistico D. Bianca Amato

28 Maggio 2013, 16:10 - Liceo Artistico...   [suoi interventi e commenti]

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In occasione della recente intitolazione di tre aule ad altri tre Maestri della scuola del passato, ci sono pervenuti gli interventi che si sono susseguiti durante la presentazione. Il prof. Michele Cutaia, già docente di Storia dell'Arte è intervenuto sul prof. Giuseppe Brocato, maestro nell'arte dei metalli. Il prof. Franco D'Anna, ex alunno della scuola ha tratteggiato la figura del prof. Antonino "Nenè" Flaccomio, maestro della tarsìa e dell'intaglio. Il prof. Ignazio Camilleri, già docente di Discipline Geometriche, dopo una breve introduzione del prof. Giacinto Barbera (docente di Progettazione architettonica), è intervenuto sul prof. Bartolo Martino, docente di Disegno Geometrico e Disegno Professionale nell'indirizzo di Architettura.

Di seguito riportiamo i diversi interventi:

IL PROF. MICHELE CUTAIA RICORDA GIUSEPPE BROCATO

Memorie storiche: il Maestro Giuseppe Brocato
di Michele Cutaia

Come alcuni di voi forse ricorderanno, ho compiuto la mia prima fase di studi superiori presso l’Istituto Statale d’arte di Palermo, ubicato allora nell’ex Monastero Scavuzzo di Via Schiavuzzo.
Miei compagni di cordata, per l’intero quadriennio scolastico 1952-56, furono Eduardo Collerà ed Angelo D’amico, i quali, negli anni successivi, mi precedettero come docenti di questa Scuola, di cui, parecchi anni dopo, il D’Amico divenne valido preside.A
Palermo, oltre alla Decorazione pittorica, frequentata da me ed Angelo (Eduardo aveva scelto Sbalzo e cesello) c’erano le sezioni di Ebanisteria ed intaglio, Scultura e ferro battuto, sezione ambientata nell’ex cappella del monastero. In tali spazi con le pareti annerite dal fumo, vedevamo attivarsi, tra alunni, forge e incudini, il prof. Landi, autore del leggiadro cancelletto d’ingresso di quella Scuola e d’altri manufatti.
Ma nella Scuola d’Arte di Cefalù di allora, sita in Via XXV Novembre, facemmo conoscenza di un altro notevole Maestro del ferro battuto, il ‘tranquillo’ Prof. Giuseppe Brocato.
Giuseppe Brocato era nato a Cefalù nel 1894. Combattente nella guerra del 1915-18, venne pure decorato. Sposatosi con Rosaria Provenza, ebbe cinque figli. Cresciuto nella bottega artigiana di famiglia per la lavorazione del ferro battuto, conseguì la Licenza nella Regia Scuola d’Arte di Cefalù. Apprezzato per le sue doti artistiche, nel 1942 veniva nominato dal Direttore Girolamo Coco, Capo d’Arte nel Corso di ferro battuto nella Scuola d’Arte di Cefalù. Il Brocato, nominato annualmente fino al 1959, in tale data veniva riconfermato, con nuovo incarico, come insegnante d’Arte applicata per il ferro battuto e sbalzo, ed ancora, il 1° ottobre del 1959, a seguito di concorso per titoli ed esami, entrava nel ruolo ordinario nella Scuola Statale d’Arte di Cefalù.
Significativo, tra i tanti meriti acquisiti, il Diploma d’onore che venne rilasciato al Brocato in occasione della XVI Mostra Mercato di Firenze del 1952.
Nel 1964, per raggiunti limiti d’età, il Poeta del ferro battuto veniva collocato in pensione.
L’anno seguente, con le firme del Presidente della Repubblica Saragat e del Presidente del Consiglio Moro, ottenne la nomina a Cavaliere del Lavoro. Giuseppe Brocato moriva il 7 dicembre 1979.
Le toccanti testimonianze, raccolte dalla Prof.ssa Rosalba Gallà nel prezioso opuscolo biografico dedicato ai Maestri della Scuola d’Arte di Cefalù, dei docenti Sebastiano Catania, Marcello Collerà e suo padre Eduardo e di Emilio Triolo, i quali focalizzano le eccelse qualità tecniche, creative ed umane del maestro scomparso, mi hanno scosso e indotto a scrivere ciò che mi ero ripromesso moltissimi anni fa e mai provato a fare. Quindi, per quanto l’occasione di scriverne mi sia giunta imprevista, cercherò di fare, se possibile, del mio meglio: la lunga perseveranza e sensibilità creativa che il Maestro Brocato dedicò all’arte del ferro in seno all’Istituto è stata, per le successive generazioni, indubbiamente esemplare.
Sul finire dell’anno 1960, credo fosse novembre, venni nominato, dal Direttore Girolamo Coco, per sei ore, insegnante di Disegno dal vero a cui e dopo mi vennero aggiunte altre ore per l’insegnamento del Disegno professionale, nella sezione Legno. Quindi, dopo alcuni anni, rividi, nella vecchia sede di Via XXV Novembre, come colleghi, i miei ‘vecchi’ compagni di classe: Eduardo Collerà e Angelo D’Amico. In tale contesto, conobbi gli emeriti docenti Bartolomeo Martino, Paolo Consiglio, Nenè Flaccomio (con il quale collaborai parecchi anni nella sezione del Laboratorio per la lavorazione del legno di cui lui era titolare), Mons. Stefano Quagliana, Dorotea Vazzana Panzarella, Angela Lo Verde Ilardo, Anita Maggio Anselmo, Elodia Musmeci Giardina e Carmela Barranco Cardali. A questi si aggiunse, nominato qualche mese dopo di me, Andrea Merlo, che già conoscevo.
Evidentemente, come ho già accennato, feci conoscenza pure col Prof. Giuseppe Brocato, con il quale presi accordi per andarlo a trovare nel ‘suo’ laboratorio per la lavorazione del ferro battuto. Mi premeva capire che uomo e che artista fosse al di là della sua apparente mitezza: era riservato, avanzato negli anni, poco loquace, piccolo di statura, robusto, dal volto largo, gli occhi inquieti e tristi.
Ecco, dopo parecchi decenni (circa cinquant’anni), il mio personale ricordo e le sensazioni avute quando andai a trovarlo in laboratorio. Era, questo, un ampio scantinato, adeguatamente attrezzato, illuminato da alte finestre. Entrando, ti coinvolgeva un’atmosfera impregnata dall’odore fumoso del carbone che bruciava nelle forge, il rumore dei metalli, i ragazzi a battere o limare qualche minuscolo oggetto di loro produzione. E poi la voce pacata del maestro che consigliava ai giovani come traslare dalla carta al metallo un disegno da loro ideato e come realizzarlo, ottenendo dopo un’immagine concreta che vivrà della sua nuova forma.
In una visita successiva notai che il Brocato impartiva ai nuovi alunni una ‘focosa’ lezione dimostrativa, per cui mi tenni in disparte e osservai i suoi gesti, la sua rapidità: con le pinze estrasse dalla forgia un pezzo rovente di ferro e, poggiatolo sull’incudine, lo martellava ruotandolo e schizzavano rapide le schegge, come grandine incandescente. Poi assestava colpetti più piccoli, sonori, mentre il ferro s’assottigliava finché otteneva la forma voluta. Avevo assistito ad uno spettacolo vecchio di millenni, che mi riportava pure al mitologico dio Vulcano, operoso nella sua fucina. Mi rimane indelebile, vivo, il ricordo di quell’ometto all’opera tra le forge. Paradossalmente, nella sua frenetica e controllata attività, m’era parso un gigante.
Compresi, dopo, osservando i suoi manufatti, quanta fermezza, volontà e passione si concentrassero nel compiere le sue opere, fossero cancelli, eleganti e sobriamente geometrici, lanterne, lampadari, rigorosamente ricchi di ornati vegetali, figurazioni di pregevole fattura.
A proposito di figurazioni: va precisato che l’agemina in rame che il Brocato applica alle sue opere in ferro non è una fredda enunciazione tecnica, bensì molto di più, è colore, è pittura, come possiamo cogliere in alcuni suoi elaborati.
Ecco l’Airone in ferro con le ali di rame, affusolato, fluido, essenziale, a ‘colloquio’ con un pinguino, stilizzato in modo impareggiabile.

San Francesco e il lupoAnnunciazione

Ancora, San Francesco e il lupo: il Santo, ermetico nella sua esile forma conica; interamente martellato il saio, ageminato ai bordi e al cappuccio; vicino, ritto e levigatissimo, il lupo lo ‘ascolta’. La Canefora, slanciata, con il suo canestro di rame sulla testa. Il suo grembiule, sapientemente arzigogolato tra ferro e rame, rivela un vibrante contrasto cromatico. Osserviamo, ora, la sintesi formale del gruppo dell’Annunciazione, caratterizzato da una delicata luce, mirabile risultato di due componenti (in cui concorre, qui come altrove, nella sua funzione cromatica basilare, il nero antracite del ferro): a parte il gesto sottomesso dell’ Angelo che porge il giglio alla Vergine che, estasiata e umile, si ritrae per il divino annuncio, emerge infatti un gioco pittorico dell’agemina ramata sul contorno delle ali, sulla chioma annodata dei capelli e sul giglio dell’angelo, sull’aureola costellata, sulla cintura e le strisce verticali alternate sulla veste della Vergine, preziosi ricami di rame che, per un’alchimia ottica, paiono rosse colate d’oro. è gratificante intuire, infine, come questi personaggi, plasmati sull’incudine e abilmente rifiniti, sembrano modellati con la cera.
Forse la perdita del figlio primogenito Vincenzo in Russia, nell’ultimo conflitto bellico, coincise, più o meno, con il suo insediamento, nel 1942, nella Scuola d’Arte e potrebbe sembrare assurdo, ma è possibile pensarlo, che la qualità delle opere del Brocato, giungesse sempre più ad un affinamento espressivo ed estetico che lo placava interiormente, una sorta si sublimazione del dolore.
Come se quest’uomo, con una mazza o un martello, a seconda dei casi, scaricasse la sua rabbia sull’informe materia rovente del ferro, eliminando le scorie che celavano quelle esili, levigate figure, pregne di arcaica memoria.


IL PROF. FRANCO D’ANNA RICORDA ANTONINO FLACCOMIO

Nenè Flaccomio, maestro d’arte e di vita
di Franco D’Anna

Il 15 di dicembre dell’anno scorso mi avete invitato per ricordare il Direttore Girolamo Coco e il Prof. Paolo Consiglio; oggi, in occasione di questa seconda cerimonia d'intitolazione delle aule ai professori del passato, mi avete chiamato per parlare del Prof. Antonino Flaccomio. Ho accettato il vostro invito con piacere ed orgoglio perché ricordo ancora il Prof. Nenè, così lo chiamavamo affettuosamente, con profonda stima ed ammirazione, perché è stato, per tutti quelli che abbiamo avuto la fortuna di averlo come insegnante, un vero maestro di arte e di vita.
Ricordo che all’inizio del secolo scorso, il Maestro Don Diego Bianca Amato, istituì a Cefalù una Scuola serale d’Arte con lo scopo di dare una formazione culturale e professionale agli artigiani del luogo.
Quando Don Diego fu collocato a riposo, la scuola divenne diurna perché potesse essere frequentata dai giovani che avevano la passione per il disegno. Nacque così la Scuola Statale d’Arte, poi Istituto d’Arte, oggi Liceo Artistico.
Alla fine degli anni Trenta, si trovarono ad insegnare in quella scuola di via XXV Novembre, cinque grandi Maestri: Il Direttore Girolamo Coco, che oltre a dirigere la scuola insegnava Plastica, Paolo Consiglio, insegnante di Disegno Ornato e Bartolo Martino di Disegno Geometrico, mentre Antonino Flaccomio e Giuseppe Brocato erano incaricati, rispettivamente, dei laboratori di Ebanisteria e di Lavorazione dei Metalli. Le ragazze frequentavano il laboratorio di Taglio, Cucito e Ricamo.
Mentre i primi tre insegnanti avevano frequentato un corso regolare di studi presso vari Istituti ed Accademie di Belle Arti, Flaccomio proveniva dal mondo dell’artigianato. Fu assunto nell’anno 1935 come incaricato, perché allora non era facile trovare un insegnante di laboratorio in possesso del titolo specifico. Si ricorreva così, secondo lo spirito di Don Diego, ad assumere degli artigiani. La burocrazia arrivò però anche nella Scuola Statale d’Arte di Cefalù e così il Prof. Nenè, per non essere licenziato, a cinquant’anni fu costretto a conseguire un titolo di studio superiore: lo ottenne presso l’Istituto Agrario di Castelbuono. Aveva finalmente un pezzo di carta che gli consentiva di continuare ad insegnare, ma la sua formazione, come sappiamo, era ben altra.
In quel clima di grande fermento artistico che viveva la Scuola d’Arte, il Prof Nenè, che fino a quel momento aveva usato la matita per disegnare le tarsie ornamentali che servivano a decorare i mobili che costruiva, preso dalla passione per l’arte figurativa, pensò di potere “dipingere” con i colori dei legni. Fu così che incominciò a disegnare dei soggetti figurati per realizzare delle tarsie policrome. Del resto, sappiamo che la pittura non è solo quella fatta con i colori ed i pennelli. I mosaicisti usano le tessere di pietre colorate per realizzare le loro opere, come quelle della nostra Cattedrale, mentre artisti contemporanei, come Picasso, hanno usato la carta o altri materiali per eseguire i loro collage, o pezzi di sacchi cuciti insieme, come nel caso di Burri. All’inizio, però, il Prof. Nenè non aveva né la mano di un grafico né di un pittore. Cosi, con un mozzicone di matita, incominciò a disegnare. Disegnava, cancellava e ridisegnava, fino quasi a bucare la carta. Eseguiva i lavori nel laboratorio e noi stavamo a guardarlo a distanza per non disturbarlo. Man mano che il lavoro andava avanti, tra una sigaretta e l’altra, era tutto un dialogo ad alta voce con se stesso. A tratti si alzava di scatto ed esclamava: “Mi, l’azziccaiu”; poi, accendeva un’altra sigaretta e tornava a cancellare e a ridisegnare. Se il lavoro lo soddisfaceva, passava allora dalle sigarette Alfa a quelle Nazionali, sempre ficcate nel solito bocchino di cui non si separava mai, per poi arrivare di solito, alla fine del lavoro, a quelle di marca estera. Noi ne approfittavamo per prendergli dal pacchetto le sigarette che andavamo a fumare nei gabinetti, tanto lui era talmente preso dal lavoro che non si accorgeva di niente, poi buttavamo le cicche per terra fra le sue. Allora, quando si accorgeva che il pacchetto era vuoto, per rendersi conto di quanto aveva fumato, contava a terra le cicche e s'incavolava perché credeva di avere esagerato.
Terminato il disegno, lo colorava con le matite colorate, per poi passare alla realizzazione della tarsia. Sceglieva con cura i vari fogli d'impiallacciatura, a seconda dei colori e delle venature: noce, acero, palissandro, ebano, occhio di pernice. Li incollava uno sull’altro con la colla di pesce fatta sciogliere in una latta messa a bagnomaria dentro “u pigniatennu” di terra cotta, mettendo cura di inserire tra i fogli d'impiallacciatura un foglio di giornale. Sull’ultimo foglio, questo di carta bianca, ricalcava il disegno per poi traforare i vari pezzi con l’archetto. Dopo averli staccati l’uno dall’altro con l’aiuto dell’acqua calda, sceglieva i pezzi secondo i colori del disegno, per poi incollarli su di un foglio di compensato. Seguiva la pulitura con la carta vetrata e la verniciatura a spirito per mezzo di un tampone, vi metteva anche, secondo un’antica tradizione, un po’ di polvere di pomice per otturare i pori del legno.

Annunciazione                           Il galletto

Così nacquero i tanti lavori, fra cui ricordo particolarmente le due Annunciazioni e il Cristo Pantocratore, quest’ultimo, secondo me, il più significativo fra quelli realizzati dal Maestro: il Cristo, quasi a figura intera, con lo sguardo fisso e penetrante, tiene con la mano sinistra un libro chiuso, mentre con la destra benedice; ai lati, in alto, due serafini come quelli della nostra Cattedrale; in basso, a sinistra, l’immagine della Cattedrale che proietta la sua lunga ombra fino al Cristo, quasi a significarne l’appartenenza; a destra vediamo le case della marina, sormontate dall’alta rupe, che si rispecchiano nel mare con una sinuosa linea filiforme. Non dobbiamo dimenticare i tanti preziosissimi cofanetti, con il coperchio intarsiato, realizzati con grande perizia tecnica ed eleganza.
“Il Maestro Nenè ha saputo elevare le arti minori a livello dell’arte senza aggettivi”, come ha scritto il Prof. Giovanni Agnello di Ramata.
La pittura non poteva lasciarlo indifferente, così volle cimentarsi anche con i colori a tempera e ad olio. I soggetti, d'ispirazione popolare, prendevano forma con attente pennellate a volte morbide, come nel caso della pittura a tempera, altre volte dure, quasi a raschiare la superficie della tela, come se inconsciamente volesse evocare l’intarsio di legno.
Ha partecipato a diverse mostre all’estero, come quelle di Francoforte, New York, Chicago, e nazionali, come Padova, Bari, Messina, Palermo, Firenze, ricevendo vari premi ed attestati. Quelle che io ricordo per averle vissute personalmente sono: Il secondo e terzo concorso di pittura “La tavolozza d’oro” che si tennero alla galleria “Il fondaco” di Messina nel 1957 e 58, a cui volle assolutamente che io prendessi parte ed entrambi fummo premiati nelle due edizioni; nel 1960 fu presente, con numerose opere, alla mostra dei pittori e scultori cefaludesi, organizzata dalla Pro-Castelbuono; infine, quella da noi allestita nel Palazzo di Città di Cefalù nel 1963, presentata dal Prof. Giovanni Agnello di Ramata. Oltre al Prof. Nenè, abbiamo esposto io stesso, Ignazio Camilleri e Baldassarre Leggio. Un giornalista scrisse di Nenè Flaccomio: la sua pittura “dalle linee lunghe e incisive, dai colori essenziali: il tutto è visione di un uomo dall’animo di fanciullo […] i colori sembrano che vogliono imitare le venature del legno, le superfici si dilatano (Nebbia a valle): pittura che diviene meraviglioso intarsio”.
Concludo con la speranza che presto possa essere allestita una mostra, di almeno una parte, delle numerose opere eseguite dai nostri cinque maestri perché possiamo, finalmente, ammirarle una accanto all’altra e metterle a confronto, perche rimangano nella nostra memoria come i loro nomi resteranno, per sempre, scritti nella storia di questa Scuola.


IL PROF. IGNAZIO CAMILLERI RICORDA BARTOLOMEO MARTINO, CON INTRODUZIONE DI GIACINTO BARBERA

Il metodo progettuale, tra tradizione ed innovazione
di Giacinto Barbera

Sento la necessità di ringraziare il Prof. Ignazio Camilleri, che ci ha dato l’opportunità di approfondire ulteriormente le nostre conoscenze sulla personalità e sulla professionalità del Professore Bartolo Martino. Egli, infatti, sia come ex allievo che come amico personale del Martino, ci ha fornito una serie di notizie inedite che sono state riportate nella piccola pubblicazione che traccia i profili dei Maestri ai quali vengono intitolate le aule questa sera.
Detto ciò, vorrei puntualizzare la necessità di recuperare all’interno della nostra scuola l’eredità lasciata dal Prof. Martino, continuata poi dal Prof. Camilleri. Oggi ci troviamo nell’era dell’informatica e delle nuove tecnologie, che in un certo qual modo hanno preso il sopravvento sui metodi e sulle tecniche della rappresentazione di tipo tradizionale, basandosi in particolare sul non utilizzo delle proiezioni ortogonali, della teoria delle ombre, dell’assonometria e della prospettiva. L’uso esclusivo del computer, infatti, da un punto di vista didattico non è un bene, poiché lo studente che utilizza solo il mezzo informatico non riesce a padroneggiare lo spazio e non sa distinguere una proiezione da una sezione. I metodi tradizionali e l’innovazione tecnologica, a mio avviso, devono necessariamente trovare un punto di incontro. A conferma delle mie convinzioni, posso affermare che nella facoltà di Architettura di Palermo e in quasi tutte le facoltà italiane, nel primo anno di corso è vietato l’uso del computer e di programmi CAD nelle discipline dell’area del disegno e della progettazione.
Io auspico, invece, che venga ripresa la lezione del Prof. Martino, integrando, però, i metodi tradizionali con quelli informatici, accompagnando tutte le fasi compositive del progetto architettonico con lo schizzo a mano libera, affinché l’allievo possa ragionare e comunicare le proprie idee ad altri. Risulta fondamentale alimentare un continuo rapporto tra pensiero e forma che costituisce la genesi di ogni attività progettuale, per far sì che gli allievi possano capire fino in fondo i corretti metodi della rappresentazione ai fini progettuali: essi, infatti, devono riappropriarsi dello spazio architettonico e di morfemi spaziali utili a recuperare l’inadeguatezza grafico-espressiva che negli ultimi anni si è diffusa in maniera abnorme nell’attività progettuale, seguita all’abbandono di tecniche e strumenti tradizionali della rappresentazione architettonica. Dobbiamo ricordare, pertanto, che le nuove tecnologie devono costituire strumenti e non fini.

Passo la parola al Prof. Camilleri, che presenterà egregiamente la figura del Prof. Bartolo Martino.

Bartolo Martino: i suoi ideali e la fede nell’arte
di Ignazio Camilleri

Nel ricordare Bartolo Martino, figura storica della Scuola d’Arte di Cefalù e del contesto cefaludese, farei una ricostruzione sterile e vuota, se mi attenessi, per questa occasione, a una esposizione curriculare; come farei un quadro riduttivo del suo operato, se mi riferissi soltanto al progetto di restauro del Duomo concepito col purismo stilistico di Ernesto Basile associato al razionalismo italiano di Terragni.

Il Duomo di Cefalù: Esterno con facciata e lato sud.Interno con pilone sinistro ed archi della solea

Mi sembra, invece, più appropriato descrivere gli ideali e i sentimenti che è riuscito a trasmettere in questo territorio ai giovani (ora non più giovani), che oggi, nell’attuale tessuto culturale, hanno ereditato quanto avevano ricevuto. Mi riferisco a quell’insegnamento che non può essere commerciato, perché è esistito dentro la coscienza degli uomini da sempre, e non può essere espresso materialmente attraverso simboli o vessilli.
Tutto questo non può essere compreso, se non usciamo dal mondo che caratterizza la nostra contemporaneità ed entriamo in quello che avveniva nella città di Ruggero, nel periodo pre-bellico, quando la vita degli abitanti era chiusa all’interno delle sue mura megalitiche.
Nel segmento di Corso Ruggero, che univa piazza del Duomo e Piazza Garibaldi (Porta Terra), si concentrava la vita della città. Carretti, muli, ovini, e quant’altro attraversavano la via per distribuirsi nelle strade a pettine verso il mare e verso le falde della Rocca, fino al 1950, quando il Sindaco Giuseppe Giardina non emanò l’ordinanza di sgombero degli animali dall’abitato. Se in quegli anni Cefalù non poteva vantarsi di essere una città pulita (alla fine dell’Ottocento un visitatore, in una pubblicazione, la definì città sporca), il Seminario Vescovile e il laico Liceo Mandralisca primeggiavano, per la notorietà dei docenti che selezionavano gli alunni, ispirandosi alle linee della riforma del ministro Giovanni Gentile. Al Circolo dei Galantuomini arrivavano e si commentavano gli avvenimenti che scuotevano il mondo: i notabili, seduti sotto il loggiato, guardavano chi transitava, raccontandosi episodi e fatti relativi a ciò che turbava le abitudini. (vedi “Gli ombelichi tenui”, Antonio Castelli, Einaudi.)
Trovarsi a Piazza Garibaldi era come uscire dal centro urbano. La via Matteotti e la via Umberto I comprendevano una spina abitativa, che impacciava fin d’allora la vista verso la campagna, tanto da far pensare a Bartolo Martino di chiederne la demolizione al sindaco Giuseppe Giardina (così diceva). Sviluppare le nuove abitazioni nei pressi di S. Lucia significava per Martino restare fedele al bel panorama dipinto da Carl Rottman (1797 - 1850) per Luigi I di Baviera a Monaco (scelto tra i ventotto più belli al mondo). Creare un rapporto tra l’affresco del Rottman e la realtà visibile, era una maniera di sognare, una visione romantico-sentimentale, nata in altri tempi, presente nello spirito del pittore, che diventerà architettura, quando egli realizzerà, nella sua villetta di S. Lucia, un’apertura del soggiorno verso il mare, nella quale incorniciare prospetticamente il classico panorama.
Un innamorato dunque: vivevano in lui un idealismo conservatore fuori dalle abitudini della gente comune e una profonda fede per l’arte e la contemplazione. Una ricerca che l’uomo fa dentro se stesso ed esprime con la poesia dei luoghi natii. Un orgoglio scaturito dalla signorilità e raffinata sensibilità della conquista estetica.
Quando l’ho conosciuto, Martino era un uomo diverso dagli altri: distinto nel suo portamento, trattava tutto con discrezione, apparendo a volte distante dal mondo. Ma il suo essere non era distacco; possedeva un’energia interiore, in grado di trascinare chiunque, dagli amici agli allievi (certamente quelli destinati a crescere nell’intelletto), e non sempre fu compreso.
L’ho conosciuto nel 1948, quando m’iscrissero alla Scuola d’Arte, secondo gli orientamenti scolastici suggeriti dal mio maestro elementare. La scelta poteva considerarsi un obbligo per chi era capace di continuare a studiare. Era la scuola meno costosa, bastavano un paio di libri di cultura generale e di matematica (per chi se li poteva permettere), un album, una matita n. 2, una penna stilografica a pompetta, quando funzionava; il resto del materiale didattico si poteva comprare quando c’erano le disponibilità finanziarie.
A scuola Bartolo Martino arrivava vestito accuratamente. I suoi abiti – diceva - erano in tessuto inglese ed erano confezionati su misura non dagli stilisti locali, ma da un noto sarto palermitano (Cappellani?). Un cappello grigio-verde in testa, Barbisio o Borsellino, comprato a Palermo.
In fondo alla sua aula del primo piano, all’angolo sud-est della via XXV Novembre, c’era un banco per noi alunni inviolabile, con sopra un pannello con dei grandi fogli di carta coperti da altri e delle righe lunghissime che proteggevano tutto. Su quei fogli, ogni tanto lavorava. Quando riceveva la visita di Paolo Consiglio, formulavano insieme giudizi sui disegni: erano le tavole delle prospettive del Duomo, che spesso commentava, relative anche all’ipotesi di sistemazione della piazza e del suo restauro.
Ma i commenti non erano solo sul Duomo e i rapporti culturali col Vescovo Cagnoni, che aveva iniziato a togliere dalle torri campanarie l’orologio e alcune campane. I suoi discorsi si allargavano anche ad altri numerosi campi: il teatro soprattutto, dove recitò. La Cena delle Beffe di Sem Benelli era il suo “cavallo di battaglia” nella parte di Giannetto, al cine Di Francesca. Nel suo soggiorno romano aveva tentato la strada del cinema e del teatro; ebbe una scrittura, ma il richiamo del padre lo costrinse a tornarsene con tanti rimpianti a Cefalù. Il suo idolo era l’attore drammatico Ruggero Ruggeri, con cui aveva una modulata affinità vocale. Poi gli studi accademici e i suoi maestri: De Maria, professore di figura e pittore di Ducrot e Basile; Di Giovanni, autore della pala d’altare della chiesa SS.Annunziata di Cefalù; Campini, maestro di scultura e di anatomia umana; Rosario Spagnoli, autore della decorazione del teatro comunale di Cefalù e delle pale d’altare a Messina (con cui, Martino, ebbe rapporti epistolari sulla vicende della decorazione dell’aula di Montecitorio, poi assegnata al Sartorio); ebbe rapporti di profonda stima con Giuseppe Spatrisano, docente al Liceo Artistico e alla facoltà di Architettura a Palermo, anche lui allievo di Ernesto Basile. La sua conoscenza andava oltre: la musica sinfonica e Beethoven, la floricultura ecc., argomenti sufficienti per suscitare in noi ragazzi la voglia di emergere e di emularne lo spirito, diffondendo fuori dall’ambiente scolastico quanto avevamo sentito e su cui avevamo fantasticato.
Alla conoscenza del mondo raccontato da Martino, faceva da supporto il fascino delle regole prospettiche che, aggiunte alle verifiche dal vero, scoperte in Paolo Consiglio e approvate dalla sensibilità di Nenè Flaccomio, condusse a indagare quotidianamente nella realtà visibile un ristretto gruppo di studenti. Con mezzi poveri disegnavano su semplici fogli di carta quanto osservavano, ma il lavoro che facevano fu sufficiente per attrarre altri ragazzi che contemporaneamente frequentavano la locale Scuola media statale. In quest’aspetto, non può essere dimenticata l’adesione del compianto prof. arch. Pasquale Culotta, diventato poi preside della Facoltà di Architettura di Palermo e Direttore del Dipartimento Storia a Progetto dell’Architettura.
Nel 1952, per la prima volta un gruppo di ragazzi, caricati dall’entusiasmo di Nenè Flaccomio e Paolo Consiglio, decisero di proseguire gli studi a Palermo, grazie a un treno che partiva da Cefalù alle 5,40. Avrei dovuto continuare, per il carattere degli studi fatti alla Scuola d’Arte (ancora quella di Diego Bianca Amato), con l’Istituto d’Arte, ma quegli argomenti che avevo sentito da Martino, mi portarono alla scelta del Liceo Artistico, che m’indirizzava successivamente alla facoltà di Architettura.
Nacque in quegli anni una particolare attenzione per la Scuola d’Arte di Cefalù, perché il titolo di studio conseguito nelle scuole superiori palermitane consentì, fin da allora, di insegnare disegno nelle scuole medie, nelle scuole di avviamento professionale e negli istituti di secondo grado. Per questa ragione, alle scuole d’arte italiane, per il fabbisogno di docenti, fu aggiunto, prima, un biennio, che subito dopo divenne triennio. Nel 1974, quando si fece la riforma degli istituti di II grado, gli Istituti d’Arte da triennali divennero quinquennali con l’aggiunta dei corsi biennali di perfezionamento, che poi formeranno il quinquennio ordinamentale.
In quegli anni Martino diventò molto scrupoloso e rigoroso nella gestione dell’insegnamento. La visione che ebbe della sua funzione fu quella di portarla verso una precisa scientificità dei programmi, comparabili per carattere e spirito a quanto Giuseppe Spatrisano svolgeva al Liceo Artistico di Palermo, anche in considerazione delle prove scritte degli esami di abilitazione all’insegnamento, basati su temi a carattere architettonico, la cui rappresentazione tridimensionale dei manufatti era la chiave per superare le prove scritte.
Nel contesto storico Martino si colloca in due momenti: quello che precede la seconda guerra mondiale e quello successivo. Nel primo, troviamo Martino alla ricerca della sua identità; nel secondo, l’uomo nell’esercizio delle sue funzioni di educatore ed esplicatore delle sue esperienze che sapevano entrare e anche comprendere i valori delle coscienze. Non fu rigido né tantomeno inflessibile, sapeva anche capire e applicare la misura necessaria per ottenere buoni risultati. La dignità, che poteva sembrare alterigia e diversificazione, era una fede per non cadere nei luoghi comuni, dove l’uomo si appiattisce e perde consistenza. Non conosco quale rapporto ebbe con i suoi ultimi allievi, ma sono sicuro che la sua presenza e la sua personalità s’imponeva silenziosamente, con compostezza e serietà.
Avendo vinto, nel 1976, la cattedra in cui aveva insegnato Giuseppe Spatrisano, mio docente, rilevai che l’insegnamento aveva perso quell’intensità, forza e spirito degli anni in cui le attitudini degli allievi erano di fondamentale importanza e decisi, nel 1979, di trasferirmi in questo Istituto, dove sono rimasto in servizio fino al 1995. Non so qui che cosa è rimasto di quello che avevo appreso dagli insegnamenti del passato, ma la testimonianza di tutti quelli che incontro e si sono inseriti nella vita sociale, mi inducono ancora a pensare che quella scuola di Martino, Consiglio, Flaccomio e Spatrisano, alla quale mi riferivo all’inizio della presentazione, non è opera morta.

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