25 Novembre 2018, 18:07 - Giovanni La Barbera [suoi interventi e commenti] |
Ho già avuto modo di appuntare, in un mio precedente scritto (https://www.qualecefalu.it/node/22615), della profonda sfiducia, che nutro verso la Regione almeno nelle attività che concernono la pianificazione territoriale ed urbanistica. Ora vi ritorno, perché, come dirò, vi sono motivi di attualità sui quali occorre esercitare alcune considerazioni critiche.
Questa sfiducia è rivolta verso il suo ruolo nei processi legislativi e gestionali, che via via ha storicamente, diciamo, messo in atto e che un poco conosco.
Si parla da molto tempo di riforma urbanistica, e a turno i diversi assessori, che si sono succeduti nei diversi governi, hanno parlato di questo obiettivo. Ad oggi nulla di fatto.
In realtà, per mettere in piedi una riforma urbanistica che riordini il sistema ed elimini le aberrazioni, le contraddizioni, le insufficienze nell'attuale caos normativo, occorrerebbe, innanzitutto, a mio modo di vedere, passare attraverso una sistematica esegesi di ogni testo legislativo in materia di gestione del territorio, facendo tesoro, in questa ricerca critica, anche dei pareri degli enti locali.
Inoltre, una riforma di questa natura, avendo il carattere di una innovazione epocale, richiederebbe una propensione al cambiamento, che non trovo, o che non c'è, sempre a mio modo di vedere, né nello scenario politico né nella burocrazia o tecnocrazia.
Un programma di iniziative che voglia seriamente e sinceramente perseguire uno scopo come quello in argomento richiede un investimento e quindi una previsione nel bilancio di risorse adeguate per sostenere l'insieme dei processi partecipativi, decisionali, culturali e divulgativi, che necessariamente occorrerebbe mettere in campo.
Quindi, va da sé che, in mancanza di risorse importanti nel bilancio regionale , ogni dichiarazione di buoni intenti, sulla riforma in parola, resta lettera morta.
Sul metodo che viene utilizzato per produrre leggi in materia di pianificazione e tutela ambientale, mi permetto di mettere in evidenza due aspetti:
il primo attiene allo scarso coinvolgimento delle autonomie locali, le quali, con i loro ritardi, rimangono estranee ai processi decisionali e agli obiettivi di qualsiasi testo legislativo, che per tale ragione finiscono col sentirli non propri.
Cosi ci si esprime di solito, in senso non solo gerarchico: “La legge regionale prescrive”. Come se la legge stessa fosse percepita come un peso in quanto estranea.
Il secondo, sempre come critica del metodo, attiene al non rispetto delle prerogative insite nell'autonomia, che la Costituzione riconosce agli enti locali.
L' errore di fondo che si realizza, voluto o non voluto, è allorquando ci si dimentica che i sistemi complessi, quali sono quelli costituiti da Città, Comunità e Territorio, richiedono un approccio, nella produzione delle leggi, che si basa sulla necessità di trattare di queste complessità secondo un metodo scalare.
Cioè ciascun Ente tratti, alla propria scala, il governo delle variabili socio economiche e ambientali che li caratterizzano.
È ovvio che alla scala comunale gli strumenti da mettere in atto sono quelli che sono prevalentemente capaci di programmare e gestire concretamente e razionalmente l'uso e la tutela del suolo.
Ancora, si può dire che alla scala locale lo spazio inteso fisicamente e funzionalmente obbedisce alle strategie di ordine superiore, dettate dalle decisioni regionali, ma alle cui determinazione gli enti locali stessi hanno concorso.
Va da se che alla scala regionale prevarranno strumenti capaci di mettere in valore strategie che assorbono indicazioni dalle conoscenze interne al sistema più generale e che giocoforza terranno in giusta considerazione le variabili socio economiche che ne condizionano il funzionamento.
Ebbene, la Regione non fa cosi. Per esempio, si sa che è in corso di redazione il cosiddetto Piano Paesaggistico Regionale. In esso, a quanto si sente, il 70% del territorio di Cefalù sarà da subito inedificabile.
Questo è appunto il modo di decidere sulla testa delle Comunità locali mortificate dall'essere ritenute immature ed escluse dalle decisioni, le quali possono anche essere condivise in linea di principio, ma che, non essendo prodotte anche dalla cultura locale, finiranno, come l'esperienza ci racconta, con l'essere disattese.
Penso quindi a nuovi metodi e nuovi strumenti da introdurre nella riforma a cui ho fatto cenno, se mai sarà possibile vederla.
Un fatto concreto allora sarebbe quello di abolire la tipologia ormai anacronistica del Piano Regolatore sostituendolo con un Piano paesaggistico, che mettendo al centro, nel contempo una nuova diretta sensibilità sulla tutela ambientale, risponda anche alle istanze dei cittadini.
Questa ipotesi è in contrasto, però, con la prassi consolidata del modo di legiferare, per cui ci prenderemo il Piano paesaggistico regionale che definirà dall'alto quali devono essere le aspirazioni dei cittadini e entro quali estremi sarà possibile esercitare la libertà.
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