Uno sguardo al passato per vedere bene il presente

Ritratto di Angelo Sciortino

7 Ottobre 2018, 22:07 - Angelo Sciortino   [suoi interventi e commenti]

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Mi chiedo spesso se l'aver letto non soltanto la storia, ma anche la letteratura, potrebbero farci capire meglio l'Italia di oggi e la sua politica. Credo di sì e provo a rammentare l'una e l'altra, nella speranza di costringere i tanti che parlano a vanvera, per atto di fede o per ripicca, a riflettere meglio. Da siciliano, non posso non cominciare da Pirandello.

Luigi Pirandello (1867-1936), vincitore del premio Nobel nel 1934, pubblicò nel 1909 il romanzo “I vecchi e i giovani”, nel quale descrive con estremo pessimismo la condizione della sua isola nel periodo successivo all’Unità d’Italia, denunciando il tradimento degli ideali patriottici. Dopo la prima edizione, Pirandello ne pubblicò una ampiamente modificata nel 1913.

Un discorso particolare, infatti, merita “I vecchi e i giovani” di Luigi Pirandello, comparso la prima volta — a puntate, sulla rivista “Rassegna contemporanea” — nel 1909. È il romanzo che ci ha lasciato l’immagine più celebre del nostro Paese ai tempi dello scandalo: “Dai cieli d’Italia in quei giorni pioveva fango… pareva che tutte le cloache della città si fossero scaricate e che la nuova vita nazionale della terza Roma dovesse affogare in quella torbida fetida alluvione di melma, su cui svolazzavano stridendo, neri uccellacci, il sospetto e la calunnia”. Dopodiché Pirandello se la prende anche con la gogna mediatica, con i giornali sfognati dalle officine del ricatto. Ma, pur in un contesto di assai più ampio respiro — i Fasci siciliani, la sua isola “terra di conquista”, la “pioggia di benefizii” all’Italia settentrionale, i giovani giunti ad assumere un ruolo pubblico a “vendemmia già fatta” — è più ciò che accomuna il romanzo a tutti gli altri coevi, di ciò che lo rende diverso.

Lo stesso accadeva, infatti, con la produzione letteraria seguita allo scandalo della Regia Tabacchi e soprattutto a quello della Banca Romana. E non soltanto in Italia, ma in tutta Europa. Thomas Carlyle, Hyppolite Taine, Adolphe Prins e ancora Dumas, Stendhal, Balzac, Eliot, Gustave Flaubert, Meredith, Dickens, Trollope, Daudet, Claretie, Oscar Wilde, Maurice Barrès, Émile Zola… Leggeteli, per favore, e capirete meglio che cosa sta accadendo in Italia. Tutti questi scrittori furono accomunati dall'avversione verso lo Stato parlamentare, con quale risultato ce lo dirà la storia.

E alla storia voglio ora fare riferimento, alla storia politica di quelle giovani democrazie e particolarmente alla più giovane fra esse, quella italiana.

Lo scandalo italiano della Regìa Tabacchi alla fine degli anni Sessanta (dell’Ottocento), il crack dell’Union Générale e il fallimento della Compagnia per la costruzione del canale di Panama in Francia (1889) hanno via via offerto spunti sempre nuovi per questo genere di racconti. Qui in Italia, è stato soprattutto il crack della Banca Romana che ha influenzato la narrativa. Per alcuni decenni.

La storia è abbastanza conosciuta, almeno nelle sue linee generali. Governatore della Banca è, dal 1881, Bernardo Tanlongo, un personaggio insieme macchiettistico e inquietante, al tempo stesso buon padre di famiglia e affarista pronto a tutti gli intrallazzi, praticone e grossolano, ma addentro a tutte le alte sfere. Tanlongo è un vedovo, padre di numerosa prole, amante della vita familiare, cattolico devotissimo, di una frugalità prossima all’avarizia, avvezzo a garantirsi le simpatie popolari ricevendo infiniti postulanti in un ufficio malridotto da cui dispensa piccoli favori. Dietro questa apparenza semplice e bonaria dissimula una stratificata rete di potere: è in stretti rapporti con il Vaticano, con i gesuiti, ma anche con la massoneria, ha gestito le aziende agricole romane di Vittorio Emanuele II e a quanto pare gli ha pure prestato denaro a usura.

Quanto a Giolitti, per Colajanni (che pur giustifica i “prestiti” ottenuti da Crispi), andava tenuto nel conto di “uno dei più disonesti ministri che abbia avuto l’Italia”. Il processo è quasi immediato e nell’estate del 1894 c’è, a sorpresa, l’assoluzione per tutti: i giornali generalmente ne attribuiscono la colpa all’impreparazione dei giurati. Non solo loro, a dire il vero: il leader socialista Filippo Turati così scriveva a Colajanni: “Sulla questione bancaria sono un asino calzato e vestito… Non conosco libri, né posseggo più idee di quelle del mio portinaio… Non dirlo per carità al nostro pubblico, neppure per vendicarti di me”. Ma i giornali degli altri Paesi sono spietati. Scrive il 29 luglio il Berliner Tageblatt: “L’Italia si è coperta con questo verdetto di una incancellabile onta… Con l’assoluzione d’una notoria e confessa banda di ladri ha pronunciato la propria dichiarazione di bancarotta morale”. Tanlongo morirà nel 1896. Ma il veleno instillato dal caso nel nostro sistema politico gli sopravvivrà.

C'è qualcuno che adesso intravede una somiglianza con i tempi attuali? Se c'è, non può non temere quello che temo io: l'avvento di tempi di illibertà, una sorta di fascismo guerrafondaio, che condusse l'Italia a morti e distruzioni.

Questa riflessione avrebbe meritato un maggiore sviluppo, ma temevo di annoiare quei pazienti lettori, che spero abbiano trovato in essa un sostegno alla loro stessa opinione.