5 Maggio 2018, 10:10 - Giuseppe Maggiore [suoi interventi e commenti] |
"... QUOS EGO!..."
(A voi, io!... - Virgilio, Eneide)
"Caro Professore D'Anna, la tua prolusione su me e sulla mia arte, sul mio tempo, le tue delucidazioni sulla tecnica da me usata nel dipingere, sugli strati di colore, verde compreso, che io cospargo sulla tela, sul mio modo di operare, a volte presumibilmente al buio, per la loro correttezza e capillarità (hai fatto un lavoro certosino straordinario!) mi hanno talmente meravigliato, coinvolto e compiaciuto, che io non posso fare a meno di partecipare al simposio di questa sera, certamente in ispirito, e, perché no, di poter dire anche la mia su me e su ciò che ho lasciato.
Non trovi?
Con questa tua conferenza, qui, in questa splendida Sala delle Capriate facente parte del vostro vetusto palazzo di città, conferenza che, si deve ammettere, è stata un po' organizzativamente titubante a partire ma che poi ha riguadagnato le incertezze prodromiali ed è risultata esauriente, acculturata e brillante, mi hai inesorabilmente chiamato.
Sì, mi hai evocato. Hai interrotto il mio sonno. La cenere nella cenere sepolta da secoli si è mossa a questo tuo imprevisto sollecito risuscitando il mio addormentato karman.
Grazie, mio buon amico D'Anna, illuminato collega e grazie anche alla zoppicante prosa di quello scrittorucolo di provincia (del quale mi servo per manifestarmi), assiso lì su quella poltrona laterale accanto a Mimma Saja, tua moglie (persona saggia e discreta che pur amando i fiori e coltivandoli con estrema cura non manca mai di supportarti quando se ne ravvisa il bisogno); essere sfuggente, costui, che non prende mai partito e si nasconde dietro forbite parole facendo di questo suo incerto estro un basilare dogma. Mah!
Vedo lì, seduta accanto a te la Professoressa Melina Greco, donna attiva e fattiva impegnata in attività socioculturali, che so essere (noi, qui, dopo morti, abbiamo il potere dell'onniscienza) la Presidentessa della Sede di BCsicilia di questo vostro grazioso sito, benemerita Associazione che ha indetto il presente incontro seppure sempre sotto il magistero di codesto encomiabile Comune; vedo pure Rosario Ilardo, scrittore insigne, studioso e letterato di chiara fama, tuo figlio Gianfranco, architetto ed insegnante (facente parte del quorum del prestigioso Blog che pubblicherà questo mio estroverso testo) che scatta delle foto (ai miei tempi le foto erano solamente i disegni e, naturalmente, le pitture) e, assieme a tanti altri, scorgo anche il vostro amico Italo Piazza, solerte collaboratore in tante manifestazioni nonché appassionato conchigliologo, il collega Morello, eccellente artista, il collega Forte (al quale ultimo vorrei consigliare di moderare la sua attività sfornatrice di quadri (un quadro dopo l'altro, produce) ma di aspettare una sana e nutrita ispirazione prima di por mano al pennello) e, più in fondo, noto pure Mara Vazzana e, a sinistra, Salvatore Muffoletto, personaggi di spicco e di merito che onorano questo glorioso insediamento umano.
Insomma vedo un po' il fior fiore della intellighentia locale, nella quale vanno compresi anche quelli che, per non sfiatarmi (noi trapassati, abitatori dell'Ade, la voce l'abbiamo fioca), non ho nominato; e mi sento orgoglioso che tali menti siano convenute qui questa sera per onorare il mio ricordo attraverso il tuo fattivo interessamento.
Bravo D'Anna!
Di te, della tua pittura, scandagliando il tuo animo, intuisco l'esplosione del concetto di arte che, anche in te, si sublima nei giuochi della luce e nel dettaglio delle finiture: il tuo autoritratto ad olio col taglio particolare sul paese in dettaglio e la coloritura dei fiori nel tuo "Cromatismi floreali" ne sono un chiaro e lampante esempio.
Senza contare, inoltre, che di te so anche tante altre cose che, forse, per modestia, tu sottaci e non sbandieri.
So che hai studiato all'allora Scuola Statale d'Arte di questo centro, so che hai cominciato presto la tua attività figurativa partecipando a varie mostre e conseguendo lusinghieri successi.
So che, ad appena 14 anni, con un disegno a china raffigurante l'interno della vostra cattedrale, hai partecipato alla mostra dedicata a Ruggero II allestita alla locale SACS; che poi, dopo l'abilitazione, hai insegnato educazione artistica presso la scuola Media e disegno e storia dell'arte presso il Liceo Scientifico; che hai fatto parte del Corpo Docente presso l'Università della terza età; che nel 1984 sei stato eletto Consigliere di Amministrazione della Fondazione Culturale Mandralisca e vi sei rimasto per dieci anni, otto dei quali nella qualità di Presidente; che ti sei dedicato alla progettazione ed all'arredamento di interni, ma che poi sei ritornato nostalgicamente alla pittura, disciplina che, come per me, rappresenta la tua primaria aspirazione; so che su invito del Comune e della detta Fondazione Mandralisca stessa nel 1997 hai allestito una tua mostra personale dall'intrigante titolo "Bianco, nero e colori" e che i tuoi soggetti preferiti sono stati il mare, le chiese, gli anfratti, gli scorci paesaggistici ed i paesi della tua terra.
Sei stato, in buona sostanza, il cantore dei colori dell'ambiente madonita. Hai fatto molte cose, insomma, e le hai fatte bene, tanto da meritare encomi, premi, attestati, onorificenze e quant'altro; e non solo nazionali..
Hai ottenuto, infatti, un Attestato di meriti artistici dall'American Italian Renaissance Foundation di New Orleans, dove hai esposto; la nomina a Honorary Mayor-President della città di Baton-Rouge, le chiavi della città di Kenner e la cittadinanza onoraria di Slidell.
Non è poco!
Hai fatto anche tante altre cose che qui non enumero sempre per la mia fiochezza vocale sopra menzionata.
Certo, al par mio, hai avuto qualche buon maestro che ti ha forgiato.
Mi pare che si sia trovato un tal Martino fra costoro.
Io, invece, caro mio, mi sono limitato a raccogliere consensi, questo si, e sono riuscito a malapena a vendere le mie pitture, che, bisogna pur riconoscerlo, nei secoli futuri dopo la mia infausta dipartita hanno sortito lusinghieri apprezzamenti.
Però devi ammettere che questo tuo tempo è ben diverso da quello durante il quale ho vissuto io. Sì, c'é sempre la violenza, perché la violenza non manca mai nel mondo: è stata creata con esso; ma è più arginata, più contenuta, ora di allora, e la tua difesa è devoluta alle istituzioni e non a te stesso.
In questo momento, oggi, ora, avviene per me, per lo spazio limitato di una serata, quello che una volta avvenne per Lazzaro (ed io ne ho fatto un quadro, un bel quadro, perbacco!) per altra più nobile ed eccelsa mano.
A guardarvi dall'alto dello schermo sui cui avete proiettato il mio sembiante, dopo tante traversìe da me subìte nel mio terreno cammino mi sento addirittura commosso per l'onore che mi fate.
Eccomi a voi, dunque! Sì, son qua!
Vorrei fugare alcuni dubbi sulla mia tormentosa e tormentata esistenza.
Sono stato definito un autore maledetto, genio e sregolatezza, pervicace e maligno. Si, lo debbo ammettere, in vita non fui mai uno stico di santo, né un carattere facile e cordiale e spesso trasgredii i canoni del quieto vivere e commisi degli atti che mi contrapposero alla legge umana e divina e dei quali oggi mi pento, amaramente me ne pento; ma da queste mie modeste ed umili maniere che sto usando nel presentarmi a voi potete aver per fermo che io non fui poi così malvagio, intrattabile e bellicoso come certe improbe coscienze mi hanno descritto.
Insomma, il diavolo non è poi così nero come lo si dipinge, consentimi, e per quanto il mio vitale excursus fosse stato burrascoso, eppure qualche scusante la debbo pur trovare.
Furono soprattutto gli iniqui tempi a forgiarmi così come sono stato proposto.
Ma, andiamo per gradi.
Io non nacqui nel paese bergamasco di Caravaggio come comunemente mi si alloca. Sono stati i miei genitori a nascervi. Io nacqui in Milano nel 1573 e fui il primo di quattro fratelli, una femmina ed altri due maschi.
Mio padre, Fermo Merisi, era maestro-architetto addetto ai cantieri delle chiese milanesi e per un certo tempo lavorò pure alle dipendenze dei marchesi di Caravaggio.
Ma non sono qui per parlarvi della mia genalogìa o della storia di mia sorella o dei miei fratelli, e neanche di mio padre e di mia madre, con buona pace delle loro anime elette; ma per dirvi esclusivamente di me, dal momento che, caro collega D'Anna, mi hai tirato in ballo interrompendo il mio secolare sonno; e son qui anche per cercare di scusare, per quanto posso, i miei atti reprensibili commessi durante la mia avventurosa vita.
Una cosa, comunque, ve la posso dire subito: io sono stato il più grande pittore del mio secolo e molti altri che son venuti dopo hanno attinto irriguardosamente, a piene mani, nella mia produzione artistica saccheggiando malvagiamente il mio stile.
Ciò con buona pace di tutti!
Io iniziai il mio apprendistato lavorando con pittori come Antiveduto Grammatica e il Cavaliere d'Arpino.
Nel 1577, per sfuggire alla peste, la mia famiglia decise di lasciare Milano e ci trasferimmo a Caravaggio. Mio padre, però, purtroppo, contrasse la malattia e non riuscì a salvarsi; e presto lo seguirono pure mio nonno Bernardino e mio zio Pietro.
Così, terminata l'epidemia, a soli 13 anni, mia madre, volendo assicurarmi un avvenire e darmi uno status, mi mandò a lavorare a bottega a Milano nel laboratorio di Simone Peterzano, pittore del manierismo lombardo che si professava addirittura allievo del grande Tiziano.
Abitavo nella casa del maestro e, senza vantarmi troppo, posso assicurarti di aver studiato per ben quattro o cinque anni con estrema diligenza e profitto e di aver appreso i rudimenti della scuola pittorica lombarda e veneta; quantunque, non posso sottacere, che qualche fanciullesca stravaganza in quel periodo l'ho pure commessa.
Nel 1592, scaduto il mio contratto di lavoro col Peterzano ed essendo da qualche anno morta mia madre e divisa con i miei fratelli l'eredità, per brevissimo tempo mi portai con lo stesso Peterzano a Venezia; e non, come qualche malevolo ebbe ad ipotizzare, che io scappai da Milano per certe insorte "discordie" con terzi.
Questo viaggio lo feci, invece, perché, invaghito dalla brillantezza dei colori usati dal Giorgione e volendolo in qualche modo emulare, volli personalmente rendermi conto, toccar con mano il frutto della sua dimostrata valentia.
In Venezia, inoltre, ebbi anche modo di documentarmi sull'opere di Tiziano e del Tintoretto
Ammalatomi in quel torno di tempo per una grave malattia, per l'assoluta mancanza di denaro fui costretto a ricoverarmi all'Ospedale della Consolazione. E proprio in questo periodo dipinsi dei ritratti allo specchio e il "Bacchino Malato".
Nel 1596 mi trasferii a Roma presso la bottega del pittore siciliano Lorenzo Carli; ma quando il Cardinale Francesco Maria Del Monte, che per me nutrì sempre una grande ammirazione (ammirazione pienamente condivisa dal suo vicino di casa, il marchese Vincenzo Giustiniani), acquistò la mia tela "I Bari", allora la mia rinomanza sortì un grande balzo in avanti. Mi trasferii, infatti, su suo esplicito invito, a palazzo Madama che era la residenza dove lui viveva.
A questo punto debbo pure dire che, essendosi allargata la mia fama, sono stati pure miei committenti anche famiglie quali i Barberini, i Borghese, i Costa, i Massimi ed i Mattei.
Nel 1597 mi venne chiesto di dipingere alcune tele per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi ed ho intrapreso i lavori portandoli dignitosamente a termine dipingendo una "Vocazione di San Matteo", il "Martirio di San Matteo" e "San Matteo e l'Angelo". Di quest'ultima opera ho dovuto eseguire una seconda versione essendo stata giudicata dai buoni Padri della Chiesa irriverente e, quindi, rifiutata.
Come se l'arte potesse sortire una tale attribuzione di irriverenza! Il fatto si è che non si è voluto capire il tono delle figure.
Da allora, e sino al 1606 la mia vita è stata costellata da vari avvenimenti truci e violenti ma anche da una prodigiosa effusione creativa. Infatti in tale periodo ho dipinto la "Crocifissione di San Pietro", la "Conversione di San Paolo", la "Madonna dei Pellegrini o di Loreto" e la "Morte della Vergine".
Anche di quest'ultima ho dovuto eseguire una seconda versione perché pure, per la loro incapacità di comprendere un frutto artistico, fu rifiutata dai religiosi di Santa Maria della Scala; ma, fortunatamente per me, venne acquistata dal Duca di Mantova su consiglio di Rubens, personaggio di grande fiuto.
Il mio animo particolarmente irrequieto, pur nella sua breve esistenza affrontò gravi vicissitudini, la più grave delle quali mi capitò il 28 Maggio del 1606 quando durante una rissa ebbi la somma disgrazia di uccidere il mio avversario che mi aveva mortalmente offeso. Io giurò che la cosa non fu voluta e che io non avevo affatto l'intenzione di arrivare a tanto; ma si sa come spesso vanno a finire le risse furiose: la cosa purtroppo avvenne ed io fui condannato a morte e dovetti immediatamente fuggire e mi rifugiai a Palestrina e, successivamente, nell'Italia Meridionale.
In questi anni mi successero senza interruzione un sacco di situazioni negative: risse, denuncie alla gendarmerìa, processi e quant'altro, tanto che, per aver addirittura ferito un cancelliere del tribunale (che se lo meritava, perbacco!), fui costretto a scappare di nuovo e riparare a Genova.
Continuò, così, per me una vita terribile, quella del fuggiasco (non ero sicuro di niente, dovevo stare attento a non lasciare tracce del mio passaggio, avevo paura anche di dormire); durante la quale si alternarono successi e sventure.
E sempre nello stesso anno, sedate un po' le acque, mi recai a Napoli dove eseguii per conto di alcune chiese due quadri che, lasciatemelo dire, a buon diritto sono stati definiti dei capolavori: la "Flagellazione di Cristo" e "Sette opere di misericordia".
Ma le mie peregrinazioni, carissimo D'Anna e preclari amici, purtroppo non si fermarono lì e mi portarono addirittura, siamo nel 1608, sino a Malta.
Qui mi venne commissionato il ritratto del Gran Maestro dell'Ordine di Malta, Alof Wignacourt, dipinto che io magistralmente eseguii; e sulla scia di quest'opera mi venne anche commissionato il notturno della "Decollazione di San Giovanni Battista".
Atteso l'ottimo risultato sortito dall'opera, addirittura, per gratitudine e stima fui insignito del titolo di Cavaliere di Malta; ma notizie provenienti da Roma circa i motivi del mio esilio provocarono in loco un'inchiesta e così, per l'ennesima volta fui costretto in maniera rocambolesca a fuggire. Sorte ingrata e persecutoria!
Un'artista come me, invece di essere acclamato con le più grandi onorificenze di una nazione, costretto a fuggire, a nascondersi, ad annullarsi nel silenzio! Ma vi rendete conto?
Così, in autunno, mi recai in Sicilia dove, pur spostandomi da una città all'altra, il mio genio non mancò di lasciare dei riconosciuti capolavori: il "Seppellimento di Santa Lucia", a Siracusa per l'omonima chiesa, la "Resurrezione di Lazzaro" e l' "Adorazione dei Pastori", opere, queste due ultime, che in questo vostro discutibile tempo si trovano nel museo di Messina ed una "Natività" conservata, invece, nell'oratorio di San Lorenzo a Palermo.
Eppure debbo dirvi, senza alcuna ombra di presunzione, che il mio modo di comporre le immagini ed il mio stile artistico, per quanto venuti fuori durante tutte queste mie torbide avventure, suscitarono un imponente interesse nei secoli futuri alla mia esistenza.
Non nascondo, comunque, che la mia pittura fu in qual certo modo influenzata dalle opere di alcuni maestri lombardi, soprattutto di area bresciana, quali Foppa, Bergognone, Savoldo, Moretto e Romanino.
Né bisogna dimenticare, inoltre, stimato D'Anna e amici carissimi qui convenuti, che il '500 fu il secolo che fu: un secolo rivoluzionario, quello dei grandi rinnovamenti culturali, delle repentine sommosse, pregno di sconvolgimenti sociali, matrice della nascita del romanticismo. E la vita che vi si conduceva non era per niente sicura o tranquilla.
Quando poi nell'Ottobre del 1608 sono ritornato a Napoli fui aggredito e gravemente ferito, mentre, nel contempo, i miei protettori romani si adoperavano per farmi ottenere la grazia col togliermi di dosso la pena capitale.
Così, ancora convalescente, nel Luglio del 1610 mi imbarcai e partii alla volta dello Stato Pontificio. Volevo donare delle mie tele al Pontefice per ingraziarmi la sua benevolenza e favorire la mia liberazione dalle pene comminatemi per i miei molteplici sbagli.
Ma, per errore, fui arrestato alla frontiera di Porto Ercole e, liberato due giorni dopo, vagai a lungo sulla spiaggia alla vana ricerca del naviglio che mi aveva trasportato e che, sicuramente, era ripartito senza di me portandosi d'appresso tutte le tele che vi avevo stivate.
Purtroppo però, colpito dalla febbre malarica, malattia, la malaria, che per tutta la vita non smise mai di inficiare la mia fibra, mi spensi il 18 Luglio del 1610 in solitudine in una locanda ignota e sperduta.
Ironìa della sorte, il caso, sempre a me contrario, volle che la mia dipartita avvenisse appena qualche giorno prima che la mia domanda di grazia venisse accettata.
Sono stato ritenuto un poeta maledetto, un bohemien, un uomo violento e quant'altro di negativo. Ma non si considera che nel tempo della mia esistenza la violenza era di casa e la mia natura mi portava, se volevo resistere, più alla difesa che all'attacco; e per difendermi, Giuda infame, dovevo ben pure sferrare dei colpi! No?
Caro Professore D'Anna, esimio collega al quale guardo con gratitudine per avermi ora evocato, voglio dirti, per mia onestà intellettuale, che mai ho affrontato un tema religioso senza aver prima consultato delle fonti scritte o iconografiche di supporto.
Tu, analizzando per la tua brillante conferenza le mie numerose opere, quali: "Ragazzo morso da un ramarro", "Canestro di frutta", "Suonatore di liuto", "Davide e Golìa", "Giuditta e Oloferne", "Davide con la testa di Golìa" e le altre che ho citato prima, hai capito benissimo, cosa che non hanno fatto i miei detrattori, che la mia pittura si mantiene ben lontana dalla sublimazione del sacro a cui erano abituati i miei contemporanei; motivo per cui sconvolse committenti, pubblico, critici e colleghi con immagini di un tale veridico realismo da non lasciare dubbi circa "l'umanità" delle mie figure. E ciò indubbiamente disturbò una società che era abituata a vedere le Madonne rappresentate da un volto lindo, virgineo, soffuso di verecondia e di tutte le altre virtù cardinali.
Tu hai capito benissimo, mio caro collega D'Anna, e ne hai parlato in questa tua illuminata dissertazione, che le scene da me dipinte sono finalizzate a portare il divino nel mondo degli umani e non il contrario.
Le mie composizioni mostrano una realtà figurativa fatta di carne, di corpi e muscoli, di frutta bacata invece che di perfezione; un universo di piedi sporchi e grossolani, di volti contratti in espressioni non sempre eleganti, di passioni, di dolori reali e di morti vere.
Lo hai liberamente ammesso: le mie opere stupiscono continuamente. Né mi deprime il fatto che alcune di esse, commissionate, siano state rifiutate. Non se n'é capito il senso. Mi consola oltremodo il fatto, tuttavia, che se una committenza pubblica ne ha rifiutato irrazionalmente alcune per ottusità mentale, ce n'é stata sempre un'altra privata, intelligente, che si è fatta avanti e le ha acquistate.
Sono stato sempre rispettoso (ma lontano) dell'iconografìa classica ed ho trovato sempre il modo di distinguermi dalla informe massa dei pittorucoli caratterizzando le mie composizioni con l'accorto utilizzo di escamotage: l'espressione di un volto, il movimento, un tratto od un particolare, surrogati che son certo che nessun altro mio collega del tempo avrebbe avuto il coraggio di adoperare.
Sicuramente la mia espressa veridicità dei personaggi mi procurò molti nemici, così come molti estimatori. Come, infatti, poteva non meravigliare, come poteva non sconvolgere, non imbarazzare il fatto che per dipingere una madonna io abbia spesso usato come modella una donna modesta o dai costumi discutibili, per non dire una prostituta?
Pensate un po' alla mia "Madonna di Loreto" che con il piede leggermente sinuoso che fuoriesce dalla lunga veste mostra tutta la sua femminilità. O come sono così naturali quei piedi sporchi "da pellegrini" davanti l'ingresso che sporgono verso di noi, mostrati in primo piano senza alcun pudore.
Ma, soprattutto, nei miei dipinti è la luce che, come tu hai ben osservato, signoreggia e fà risaltare le figure; e tu mi puoi ben capire perché, come ho già detto prima, anche tu la usi nei tuoi quadri. Essa rappresenta il cavallo di battaglia del mio stile, del nostro stile, dello stile di quanti la usano e la sanno usare.
Considera un po' nel "Martirio di San Matteo" quel fascio di luce irrorante che illumina più il carnefice che la vittima!
Tu l'hai detto: le mie composizioni rispecchiano di più gli interni, tranne alcune che sono specificatamente ambientate all'esterno, come "Il riposo durante la fuga in Egitto". Ciò perché le scene interne mi permettono di giocare con il fascio di luce che colpisce e scolpisce i personaggi creando dei chiaroscuri che fanno risaltare l'immagine.
La luce rende plastiche le superfici e forti i contrasti.
Ora, caro D'Anna, chi meglio di te ha potuto capirmi, tu che fosti autore della stupenda accolta che hai denominato "Cromatismi floreali" e "L'autoritratto" ad olio di cui ho accennato in precedenza?
Adesso, mio illustre amico e collega, ti debbo, comunque, lasciare. Il mio tempo è scaduto, così come il vostro permanere qui; e mentre voi vi indirizzate alla serale cena io, invece, ritorno alla cenere da cui provengo e che, come una coltre di candido ermellino, mi ricopre tutto annullandomi nella pace del mio eterno riposo, dal quale, per breve spazio di tempo, mi ha tratto questa tua illuminata ed illuminante conferenza.
Vale!
Sala delle Capriate
data terrestre: 2 Maggio 2018"
Michelangelo Merisi
(grazie ai buoni uffici dell'Amico Pippo)
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Commenti
Franco D'Anna -
Caro Michelangelo Merisi
Caro Michelangelo Merisi, mai mi sarei aspettato che ti scomodassi dal regno dei morti per prendere parte alla mia presentazione della tua vita e delle tue opere nella Sala delle Capriate della mia Cefalù.
Sono lusingato per essere considerato da te, uno dei più grandi artisti della storia dell’arte, tuo collega grazie alle mie modeste opere di pittura e ti ringrazio per esserti interessato della mia vita.
Ti sei giustificato per i tuoi errori umani ma noi siamo certi che se non avessi avuto un temperamento così esuberante e una vita così travagliata noi oggi non avremmo potuto ammirare le tue straordinarie opere. Saresti stato un bravo pittore che avrebbe guardato di più alla maniera di dipingere e non a ciò che l’opera d’arte deve trasmettere. Tu sei stato il maestro in assoluto del realismo e detta luce, hai detto bene: hai portato il divino nel mondo degli umani e non al contrario. L’umanità ti deve essere grata per quello che ci hai dato.
Lascia che ringrazio l’amico Pippo Maggiore per averti invitato a prendere parte alla serata e per averti dato voce con il suo originale ed estroverso intervento.
Il tuo modesto “collega”
Francesco D’Anna
Giuseppe Maggiore -
Stimato Franco
Stimato Franco, Merisi mi ha parlato sempre molto bene di te. Ti considera, oggi, nel nostro territorio, uno dei pennelli più accreditati ad esprimere l'arte del colore, del disegno e della pittura in generale; ed io, credimi, la penso perfettamente come lui. Le tue, non sono affatto "opere modeste" come la tua innata riservatezza ti spinge a definirle: sono opere importanti, del nostro tempo, della nostra cultura, della nostra dimensione umanistica, che, solleticando la nostra sensibilità, rendono onore all'ambiente che ti ha forgiato. Grazie al Michelangelo di cui si tratta ho avuto ancora una volta l'agio di poter pubblicamente apprezzare la tua poetica e, a nome dello Stesso e mio personale, ti rinnovo i complimenti per la tua capillare, certosina, esaustiva, appassionata e colta dissertazione che hai voluto esprimere.
Un abbraccio. Pippo