Ospedale Giglio: l'Acropoli assediata dalla presunzione.

Ritratto di Angelo Sciortino

26 Marzo 2018, 14:51 - Angelo Sciortino   [suoi interventi e commenti]

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C'è, quando si entra nell'ospedale di Cefalù, una frase scritta a caratteri cubitali, ripetuta nella sala d'attesa del Pronto Soccorso e anche nella sala d'ingresso ai reparti: “TUTTO È POSSIBILE A CHI HA FEDE”. La frase, però, forse vale per chi ha fede, ma sicuramente non per un agnostico come me. Almeno a giudicare dalle mie ultime esperienze.

Chi mi legge sa che da almeno due anni ho riconosciuto all'ospedale Giglio i grandi meriti, che le sue eccezionali professionalità mediche e paramediche gli hanno procurato, anche per l'impegno che la sua dirigenza attuale non ha fatto mancare.

I miei riconoscimenti non nascevano da osservazioni esterne o da suggerimenti altrui, ma da mie personali esperienze, che voglio riassumere.

Circa tre anni fa subii un intervento chirurgico per un'ernia inguinale e scrotale a opera del dottor Nicola Noto, oggi in pensione. Di tale esperienza ricordo non soltanto l'umanità e la bravura del chirurgo, ma anche quella dell'anestesista. Sotto l'effetto dell'epidurale ero sveglio durante l'intervento e lei più volte mi venne vicino per chiedermi come mi sentivo o semplicemente per prendermi la mano o accarezzarmi i capelli, in modo che non mi sentissi solo e abbandonato.

Diversa fu la mia esperienza nel reparto. Il letto era più corto di venti centimetri della mia altezza, per cui, appena finito l'effetto dell'epidurale, mi alzai e trascorsi la notte seduto su uno scomodo divano presente nella stanza. Più volte udii alcuni infermieri parlarsi dalle parti opposte del corridoio, incuranti di arrecare disturbo ai degenti.

Comunque sia, la mattina seguente chiesi di aver tolto il catetere e firmai le mie dimissioni. In pigiama e pantofole fui accompagnato a casa da un amico, al quale avevo chiesto di venire a prendermi.

Lo stesso non accadde nell'aprile del 2017, quando il professor Rigatti mi liberò di un diverticolo alla vescica, che rallentava troppo il naturale flusso urinario, mettendo a rischio la mia funzionalità renale. Non fu lo stesso, perché l'intervento mi aveva debilitato troppo. Fu giocoforza che rimanessi ricoverato nel reparto di urologia per circa un mese. Un mese, che sarebbe stato insopportabile, se infermieri come Ettore Anzalone e Carola Augello insieme ad altri, dei quali non ricordo i nomi, non mi fossero stati vicini con la loro affettuosa umanità.

Quando venne il momento di togliermi il catetere per poi dimettermi, la sorpresa: la Tac con il mezzo di contrasto aveva mostrato che avevo un tumore al pancreas! Il quattro maggio fui operato dal dottor Spampinato, a quanto sembra oggi in procinto di trasferirsi. Le parole di elogio che gli ho rivolto in almeno due miei interventi su questo blog non gli rendono appieno i riconoscimenti che merita. A quasi un anno di distanza non soltanto lo ricordo ancora, ma oggi mi considero anche suo amico. Mi dispiace che vada via, perché altri non saranno fortunati come me, che ho potuto contare sulla sua professionalità.

Questa, in estrema sintesi, la mia esperienza. Poi sono seguite ben altre esperienze, che mi costringono a parlare dell'ospedale con accenti più critici.

Gli interventi subiti hanno sì risolto i problemi per i quali furono necessari, ma hanno lasciato una diffusa debolezza in tutte le parti vitali del mio organismo. Da qui la necessità di controlli frequenti e talvolta di cure per fermare un male incipiente. La competenza è passata così agli ambulatori, non sempre affidati a personale idoneo. Da questa seconda esperienza sono derivate le opinioni che seguono.

Accompagnato, per esempio, al pronto soccorso con in corso una crisi respiratoria originata da un brutto enfisema polmonare, al triage non mi viene chiesto quale difficoltà avessi, ma con tono perentorio di togliermi il giubbotto. “Perché?” chiedo. “Perché devo misurare la pressione come prevede il protocollo.”. “Preferisco il protocollo del cimitero” risposi piccato e andai via.

Altre esperienze simili si sono ripetute più volte fino a stancarmi e a convincermi che era forse meglio che non mettessi più piedi in ospedale. Impegno che intendo rispettare, anche se dovessi trovarmi di fronte a imminente pericolo di morte. Qualcuno riterrà esagerata questa mia decisione, soprattutto considerando le mie precedenti esperienze. Esagerata non è, però, se si guarda con attenzione alla situazione di questo ospedale. Esaminandola senza paraocchi, infatti, viene fuori un paragone con le antiche città greche. Primari e chirurghi come il cardiologo Cipolla, come l'oncologo Spampinato, come l'ortopedico Boniforti e altri ancora rappresentano l'Acropoli, assediata però da una plebe rabbiosa e desiderosa soltanto di esercitare un'autorità senza averne l'autorevolezza e la cultura. Questa stessa plebe, capitanata da politici e sindacalisti, lascia le eccellenze rinchiuse nell'Acropoli quasi senza armi; prive, cioè, degli strumenti indispensabili per svolgere bene la loro attività in difesa dei malati. Non per nulla alcuni sono già andati via e altri si apprestano a imitarli.

Non vedo perché dovrei fidarmi ancora di questo ospedale, dove m'è accaduto spesso di trovarmi di fronte caporali convinti di essere generali. A peggiorare le mie condizioni di salute ci pensa bene la stessa natura, risparmiandomi però la tortura psicologica della presunzione.