27 Aprile 2013, 11:59 - Rosalba Gallà [suoi interventi e commenti] |
LA ROSA E IL LABIRINTO
Ho letto un libro, un libro che parla della vita, un libro che raccoglie storie, storie accomunate dal doloroso intreccio di vuoto presente e di memorie soffocate, di attuale estraneità e di identità trascorse.
E’ La rosa e il labirinto di Angela Di Francesca, Edizioni Kefagrafica, Palermo, 1991: un libro che merita di essere riportato all’attenzione dei lettori.
L’autrice si muove con grande sensibilità tra i delicati petali di una rosa e nei percorsi senza uscita di un labirinto, metafore della condizione esistenziale, mostrando di conoscere profondamente l’animo umano, in particolare quello femminile, e di saperne portare alla luce i sentimenti più nascosti, le illusioni infrante, i dolori inespressi. I racconti si intrecciano, in un sottile gioco di richiami ed evocazioni, costruendo un mosaico in cui il lettore si trova coinvolto, condividendo emozioni e stati d’animo che nessuno può avvertire come estranei.
Anche una rosa può provare odio e così in Notturno: “Io odio, come odiano le rose vermiglie nel vaso di cristallo, a splendere e soffocare, nei loro petali carnosi l’urlo rosso di un insulto”e in Patricio “Franzisca raccoglie la rosa che la provoca col suo bagliore di fiamma, pronta a rivivere la fiaba stravolta, deformata, che si ripete al di là dello specchio, dove le cose non sono ciò che sembrano”. Nello stesso racconto, attraverso l’incrinatura “nella superficie di smalto” viene compresa “l’anima segreta del labirinto” che si rivela “sugli altari delle strade che non ti hanno scelto, dei vicoli ciechi che non ti hanno inghiottito”.
La rosa e il labirinto dunque, ma anche il presente e il passato, la superficie e la profondità, l’uniformarsi e il sentirsi diversi.
Questo ci suggerisce in Trasfert Anna, che tenta di tessere i fili del suo passato, consapevole di non poter ricomporne “il magico arazzo” perché “un’onda grigia” ha travolto, spegnendoli, gli entusiasmi, i sentimenti e le attese di una fase della vita. L’oppressione del presente, fatto di apparenti sicurezze che in realtà celano insoddisfazioni e frustrazioni, fa emergere prepotentemente l’immagine di Gregor, protagonista de La Metamorfosi di Kafka, espressione di una diversità che “da interiore diventa visibile e nessuno l’accetta”, mostruosità che nelle case si cerca di nascondere attraverso una vita normale, “suonando il piano”.
Il tema della diversità ritorna in Diario senza date, dove viene espresso con lucida consapevolezza dalla protagonista, Ada, che afferma di essere uscita dalla vita “nel momento in cui ho avvertito il segno della mia diversità e non ho saputo darle le ali, preferendo collocarla in un ordine prestabilito e fatale in modo da non esserne responsabile, da non sentirmi colpevole di averla, e di averla compresa”.
Diversità soffocate, dunque, vite strozzate, voli negati: condizione che appartiene prevalentemente alle donne, anche quando nessun evento eccezionale è intervenuto a deviare il corso della loro esistenza; la mente, però, è stata offuscata e spenta dal banale quotidiano, mente che era stata “lucida come una foglia nuova, tesa ad ogni vibrazione”. Sono donne che si riconoscono più nel loro passato che nel loro presente, donne che la vita ha allontanato dalle attese giovanili, dagli entusiasmi, dalle vibrazioni, donne che hanno saltato la loro stazione e che troveranno davanti solo la solitudine che le aspetta “paziente, tranquilla come una madre”.
C’è sicuramente l’eco delle battaglie femminili del ’68, “quando c’era la libertà, c’era la parità. Essere donna non era una limitazione”, ma il percorso compiuto da molte donne può leggersi come simbolo di una condizione che ha i caratteri dell’universalità.
Per questo la vita non è altro che il tentativo “di uscire dal vizio assurdo dell’angoscia e dell’impotenza, gli altri nomi della morte”.
Per questo Flavia, in Debutto, avvertendo nelle figlie “il senso di incoscienza, di sicurezza e di sfida dell’equilibrista che fin da bambina si esercita a danzare sul filo” e ritrovando “quelle fiamma perduta nello sguardo, nei gesti, nella vita delle due figlie” se ne fa quasi “vestale” per non consegnare subito “Licia e Susanna al mondo assurdo e senza regole del concreto e del quotidiano, al momento in cui avrebbero dovuto soffocare con l’obbedienza e la sottomissione a leggi non scritte la scintilla della propria identità, e supplire con l’ordine delle stanze e dei cassetti al frenetico caos dell’esistenza”.
Donne travagliate anche nella maternità, come Tessa che nell’attesa del parto avverte come una doppia prigionia: ”Prigioniero il bambino, che imponeva la sua presenza e il suo bisogno impetuoso di libertà, scalciando vigorosamente. Prigioniera lei, di un evento che non poteva evitare, che non poteva delegare, che non poteva dominare”. Come Anna diceva di se stessa, non riconoscendosi nel suo presente, “Anna non è qui”, Tessa dice: “Non dovrei essere qui. Non dovrei essere qui…”. E l’unica cosa che le rimane da fare, in attesa di partorire, è accertarsi che nessuno la veda per poter finalmente piangere “quietamente, silenziosamente”.
Essere in un luogo e non riconoscersi in quel luogo, essere in una situazione e non riconoscersi in quella situazione, accettare una condizione di vita e sentirla del tutto estranea. Questo accade anche ad Erminia nel momento in cui, rinunciando ai sogni della sua giovinezza, accetta di uniformarsi al mondo della ‘normalità’: ma la sua vita, sciolti i legami con il passato, trascorre distrattamente, “chiusa in un’estraneità inconsapevole e dolente”. Così, anche per lei la maternità assume sensi nuovi, connotazioni diverse: la prima figlia costituisce il momento dell’illusione “di poter conciliare il paradosso che la straziava: sottrarsi alla vita e al tempo stesso darle uno scopo”. Il secondo figlio costituisce il momento del rifiuto ed Erminia comincerà a vivere “sciolta da tutti, libera, come una barca che ha rotto gli ultimi ormeggi, scivolando, giorno dopo giorno, in una quieta, enigmatica assenza, in una sempre più vasta solitudine”.
Solitudine e memoria, presente e passato, femminilità soffocate e sofferte maternità, identità negate ed intense evocazioni, sortilegio e dissolvenza.
Alcuni racconti diventano immagine, precisamente immagine cinematografica legata al ricordo: la tecnica a cui l’autrice fa più volte riferimento è quella della dissolvenza, procedimento che consente di far apparire o far scomparire un’immagine lentamente e in maniera progressiva, mentre la “dissolvenza incrociata” permette il passaggio da un’immagine ad un’altra attraverso una lenta sovrapposizione che si conclude con la sostituzione. Così, in Patricio, è descritto un vero e proprio videoclip, che riassume la storia di un uomo (uno dei tanti, dei troppi) detenuto e torturato in Cile durante la dittatura di Pinochet. Il racconto, tra i più intensi ed emozionanti della raccolta, è costruito come un mosaico (mosaico nel mosaico) che lentamente emerge dall’accostamento delle tessere, fino alla comprensione del labirinto che è dentro Patricio, ma che si trova anche in ciascun essere umano, il labirinto dell’io, quello in cui è più difficile orientarsi e più facile perdersi. E la voce narrante chiede di non essere respinta “nel limbo delle illusioni interrotte, dove va il sogno quando si desta il sognatore, dietro la porta d’argento dove il dio imprigiona il ricordo di altre esistenze”. Accanto alla dissolvenza, viene evocato spesso il sortilegio. Così, in Memorie, nel tentativo di dipanare, “fino al Minotauro, il filo d’oro della memoria”, con un implicito riferimento al labirinto, si afferma: “Mescoleremo i nostri sogni e le nostre paure. Ci fermeremo sull’orlo del sortilegio – non si compirà, non si compie mai. C’è sempre qualcosa che sfugge alla rete delle evocazioni, ed è l’incompletezza di questo disegno, sono i vuoti del telaio che ti trattengono nella stagione di ora, anch’essa irrimediabilmente imperfetta”.
Ho letto questo libro e mi è dispiaciuto finire di leggerlo, perché è stato bello sostare su ogni parola, sulle raffinate trame e sugli eleganti intrecci di parole, parole come ricami che evocano ed emozionano, che conducono il lettore nella complessità del proprio mondo interiore, nei meandri più nascosti dei propri desideri e della propria “sete”, nell’abisso e nel silenzio, con la fiducia, però, che da queste profondità è possibile risalire dopo aver trovato, pronunciato, ripetuto e condiviso quella parola che, sola, può salvare.
Rosalba Gallà
- Accedi o registrati per inserire commenti.
- letto 2047 volte