Ipazia di Alessandria

Ritratto di Rosalba Gallà

14 Agosto 2016, 13:09 - Rosalba Gallà   [suoi interventi e commenti]

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IPAZIA DI ALESSANDRIA
di Rosalba Gallà

 

La mia passione per Ipazia è nata un po’ di anni fa, quando, presso il Teatro Libero di Palermo, ho assistito ad uno spettacolo di grande bellezza e coinvolgimento prodotto dal Teatro Belli di Roma, Il sogno di Ipazia, di Massimo Vincenzi e con la regia di Carlo Emilio Lerici, un monologo intenso (magistralmente interpretato da Francesca Bianco) in cui Ipazia racconta il suo ultimo giorno di vita.
È stata per me l’occasione fortunata per riscoprire una figura di donna vissuta tra il IV e il V secolo, la cui vicenda, ancora oggi, 1600 anni dopo la sua morte, continua ad essere di grande attualità e dovrebbe rimanere esemplare onde evitare che uomini di qualsiasi credo religioso possano usare la violenza in nome di un dio o che il potere, sia politico che religioso, possa strumentalizzare una qualunque situazione ai fini della propria affermazione o conservazione.
Certo, conoscevo già la figura di Ipazia ma, come è evidente, la nostra cultura risente di una lunghissima tradizione ‘al maschile’ e la Storia spesso trascura di approfondire figure di donne che tanta importanza hanno rivestito nell’affermazione di valori universali, come quello relativo al libero pensiero e alla libera ricerca. Quella rappresentazione teatrale è stata per me come uno stimolo per cominciare ad approfondire la ‘storia al femminile’, dedicandomi anche in alcune classi, insieme ai miei alunni, alla ricerca di donne del passato, conosciute spesso solo dagli addetti ai lavori, note ai più solo per il nome e talvolta del tutto sconosciute.

Eppure, qualche anno fa, intorno alla figura di Ipazia, si è focalizzata una certa attenzione: basti pensare al film di Alejandro Amenábar, Agorà, che si ispira proprio alla sua vicenda.

Ma lo spettacolo teatrale cui faccio riferimento ha una suggestione particolare perché, accanto al monologo che ricostruisce l’ultimo giorno di vita di Ipazia, la voce fuori campo di Stefano Molinari interpreta brani tratti dagli Editti teodosiani e dai discorsi del vescovo Cirillo. È forse opportuno ricordare che l’imperatore Teodosio, con l’editto di Tessalonica del 380, aveva stabilito che la religione cristiana fosse l’unica dell’impero romano e aveva condannato qualsiasi culto che si discostasse da ciò che era stato stabilito nel Concilio di Nicea del 325, sotto Costantino; fra il 391 e il 392 lo stesso Teodosio aveva emanato quattro Decreti che definivano in maniera circostanziata l’applicazione dell’Editto del 380.
Lo spettacolo va avanti con un’alternanza di timbri e di toni e il passaggio dalla voce del personaggio Ipazia alla voce fuori campo, espressione del potere politico-religioso, è fortemente sottolineata dalle musiche di Francesco Verdinelli.

Siamo nel V secolo, ultimo dell’Impero romano d’occidente (che cadrà nel 476) e la vicenda si svolge ad Alessandria d’Egitto. Ipazia era figlia di Teone, famoso matematico, e divenne lei stessa matematica, filosofa di formazione neoplatonica, esperta di astronomia. A lei si attribuiscono invenzioni come l’astrolabio e l’idroscopio e la sua grande cultura è sintesi della ricerca teorica e di quella tecnico-pratica: tutto però è stato sommerso dal silenzio dei secoli, perché nulla ci è giunto delle sue opere. È possibile ricostruire la sua vita e il suo insegnamento attraverso le testimonianze di alcuni contemporanei, come Socrate Scolastico, di alcune fonti successive e attraverso le lettere di un suo discepolo, Sinesio di Cirene, che diverrà successivamente  vescovo di Tolemaide.
Ipazia, infatti, tra i suoi discepoli accoglieva indifferentemente pagani e cristiani, ma lei era pagana e questo, dopo la legislazione religiosa teodosiana, non era certamente una condizione favorevole, perché l’imperatore, a seguito delle resistenze manifestate dai pagani nei confronti del processo di cristianizzazione, aveva inasprito le misure contro i loro culti, procedendo alla distruzione di libri, luoghi di cultura, templi: e così, a titolo di esempio, nel 391, il patriarca Teofilo, in un contesto di tensioni e contrasti, aveva trasformato il Serapeo in una chiesa dedicata a San Giovanni Battista.

La storia di Ipazia si inserisce, dunque, in una situazione molto complessa dal punto di vista religioso, ma non facile neanche dal punto di vista politico. In quegli anni, tra i due poteri di Alessandria, rappresentati dal vescovo Cirillo e dal prefetto imperiale Oreste, vi erano diversi motivi di tensione, che talvolta provocavano vittime da una parte e dall’altra.

Alessandria era una città multiculturale di grande vivacità, sede del Museo e della Biblioteca, e vi abitavano pagani, cristiani (seguaci sia dell’ortodossia, sia delle diverse eresie) ed ebrei, oggetto di discriminazioni tanto che ad un certo punto furono cacciati da Cirillo, che ne saccheggiò e distrusse le sinagoghe.
Dopo l’arresto di un seguace di Cirillo da parte del prefetto Oreste, nel 415 un gruppo di parabolani assaltò il carro del prefetto e lo ferì lanciando una pietra. I parabolani costituivano una confraternita cristiana (il cui numero era limitato per legge) dedita alla cura dei malati, in particolare delle persone colpite dalla peste (il nome significa “coloro che rischiano la vita”, in quanto si espongono al contagio) e alla sepoltura dei morti e che nel tempo erano diventati una sorta di milizia privata del vescovo. Godevano di privilegi, ma la loro presenza negli incontri pubblici o nei teatri era vietata dalla legge, probabilmente per tutelare la salute del popolo visto il loro costante contatto con malattie contagiose, ma forse anche per il loro stile aggressivo e violento. Il loro capo, dopo il ferimento di Oreste, fu catturato e giustiziato e il vescovo Cirillo volle tributargli gli onori di un martire della cristianità.
Cirillo, in seguito, avrebbe voluto riconciliarsi con il prefetto Oreste, ma l’operazione fallì e in questo contesto, nel mese di marzo del 415, si innesta l’uccisione di Ipazia, la quale godeva della stima di Oreste, che andava spesso a trovarla per ascoltare i suoi insegnamenti e per consultarla.

Così accadde che un giorno Cirillo, vescovo della setta di opposizione [il cristianesimo], passò presso la casa di Ipazia, e vide una grande folla di persone e di cavalli di fronte alla sua porta. Alcuni stavano arrivando, alcuni partendo, ed altri sostavano. Quando lui chiese perché c’era là una tale folla ed il motivo di tutto il clamore, gli fu detto dai seguaci della donna che era la casa di Ipazia il filosofo e che lei stava per salutarli. Quando Cirillo seppe questo fu così colpito dalla invidia che cominciò immediatamente a progettare il suo assassinio e la forma più atroce di assassinio che potesse immaginare (Damascio, Vita di Isidoro, in La morte di Ipazia nel sito UCCR).

Damascio giunge ad affermare che prima di ucciderla le strapparono gli occhi dalle orbite, ma si tratta di una fonte secondaria, avendo egli scritto la Vita di Isidoro circa cento anni dopo la morte di Ipazia, basandosi, probabilmente, sui racconti che dovevano essere ancora vivi ad Alessandria, oltre che su quanto scritto da un contemporaneo di Ipazia, Socrate Scolastico:

Fu vittima della gelosia politica che a quel tempo prevaleva. Ipazia aveva avuto frequenti incontri con Oreste. Questo fatto fu interpretato calunniosamente dal popolino cristiano che pensò fosse lei ad impedire ad Oreste di riconciliarsi con il vescovo. Alcuni di loro, perciò, spinti da uno zelo fiero e bigotto, sotto la guida di un lettore chiamato Pietro, le tesero un’imboscata mentre ritornava a casa. La trassero fuori dalla sua carrozza e la portarono nella chiesa chiamata Caesareum, dove la spogliarono completamente e poi l’assassinarono con delle tegole. Dopo avere fatto il suo corpo a pezzi, portarono i lembi strappati in un luogo chiamato Cinaron, e là li bruciarono. Questo affare portò non poco sdegno contro Cirillo e contro la chiesa di Alessandria: infatti nulla può essere più estraneo dai seguaci degli (insegnamenti) di Cristo che uccisioni, lotte e cose del genere (Socrate Scolastico, Storia ecclesiastica Libro VII, cap. 15 in La morte di Ipazia nel sito UCCR).

Gli esecutori materiali dell’efferato delitto furono i già citati parabolani.

Le due testimonianze, pur concordando nelle linee generali, differiscono nell’attribuzione della responsabilità dell’uccisione di Ipazia, in quanto Socrate Scolastico fa riferimento allo sdegno che il misfatto provocò nei confronti di Cirillo senza però considerarlo il mandante, mente Damascio fa esplicito riferimento al progetto di Cirillo di assassinare quella donna che, con i suoi insegnamenti, attraeva numerosi discepoli e lo stesso prefetto.
Impossibile stabilire come siano andate effettivamente le cose e quali siano le reali responsabilità: la storiografia ha assunto posizioni diverse a seconda dei periodi storici. Così, durante l’Illuminismo Ipazia divenne simbolo del libero pensiero e della libertà contro ogni forma di oscurantismo e ancora oggi viene spesso vista come la vittima del fanatismo religioso, mentre la storiografia cristiana ha sempre escluso le responsabilità del vescovo che nel 1882 venne proclamato santo e ancora oggi san Cirillo viene celebrato il 27 giugno.
Benedetto XVI, nell’Udienza Generale del 3 ottobre 2007, così ha iniziato il suo discorso su San Cirillo di Alessandria:

Cari fratelli e sorelle,
anche oggi, continuando il nostro itinerario che sta seguendo le tracce dei Padri della Chiesa, incontriamo una grande figura: san Cirillo di Alessandria. Legato alla controversia cristologica che portò al Concilio di Efeso del 431 e ultimo rappresentante di rilievo della tradizione alessandrina, nell’Oriente greco Cirillo fu più tardi definito «custode dell’esattezza» – da intendersi come custode della vera fede – e addirittura «sigillo dei Padri». Queste antiche espressioni esprimono bene un dato di fatto che è caratteristico di Cirillo, e cioè il costante riferimento del Vescovo di Alessandria agli autori ecclesiastici precedenti (tra questi, soprattutto Atanasio) con lo scopo di mostrare la continuità della propria teologia con la Tradizione. Egli si inserisce volutamente, esplicitamente nella Tradizione della Chiesa, nella quale riconosce la garanzia della continuità con gli Apostoli e con Cristo stesso. Venerato come Santo sia in Oriente che in Occidente, nel 1882 san Cirillo fu proclamato Dottore della Chiesa dal Papa Leone XIII, il quale contemporaneamente attribuì lo stesso titolo anche ad un altro importante esponente della patristica greca, san Cirillo di Gerusalemme. Si rivelavano così l’attenzione e l’amore per le tradizioni cristiane orientali di quel Papa, che in seguito volle proclamare Dottore della Chiesa pure san Giovanni Damasceno, mostrando anche in questo modo la sua convinzione circa l’importanza di quelle tradizioni nell’espressione della dottrina dell’unica Chiesa di Cristo.

Pur volendo prescindere però dalle responsabilità del vescovo Cirillo, non si può fare a meno di riferirsi alle direttive imperiali dettate dai già citati decreti teodosiani del 391/392 e alle loro conseguenze nei confronti dei non cristiani. Ne riporto qui alcuni brani, gli stessi che vengono letti nello spettacolo teatrale cui ho già fatto riferimento:

Decreto del 24 febbraio 391
Nessuno violi la propria purezza con riti sacrificali, nessuno immoli vittime innocenti, nessuno si avvicini ai santuari, entri nei templi e volga lo sguardo alle statue scolpite da mano mortale perché non si renda meritevole di sanzioni divine ed umane. […] se qualcuno dedito a un rito profano entra nel tempio […] con l'intenzione di pregare, venga questi costretto a pagare immediatamente […] (la sanzione) con pubblica attestazione […]

Decreto dell’11 maggio 391
Coloro che hanno tradito la santa fede [cristiana] e hanno profanato il santo battesimo, siano banditi dalla comune società: dalla testimonianza [in tribunale] siano esentati, e come già abbiamo sancito non abbiano parte nei testamenti, non ereditino nulla, da nessuno siano indicati come eredi. […]
(Per coloro i quali contaminano la fede) non sia cancellata la vergogna dei costumi con la penitenza, […] la quale solitamente per gli altri crimini soccorre per giovare.

Decreto del 16 giugno 391
A nessuno sia accordata facoltà di compiere riti sacrificali, nessuno si aggiri attorno ai templi, nessuno volga lo sguardo verso i santuari. Si identifichino, in particolar modo, quegli ingressi profani che rimangono chiusi in ostacolo alla nostra legge così che, se qualcosa incita chicchessia ad infrangere tali divieti riguardanti gli dei e le cose sacre, riconosca il trasgressore di doversi spogliare di alcuna indulgenza […]

Decreto dell’8 novembre 392
Nessuno, di qualunque genere, ordine, classe o posizione sociale o ruolo onorifico, sia di nascita nobile sia di condizione umile, in alcun luogo per quanto lontano, in nessuna città scolpisca simulacri […] o offra (alcuna) vittima innocente (agli dei) o bruci segretamente un sacrificio ai lari, ai geni, ai penati, accenda fuochi, offra incensi, apponga corone (a questi idoli). Poiché se si ascolterà che qualcuno avrà immolato una vittima sacrificale o avrà consultato viscere, sia accusato di reato di (lesa) maestà e accolga la sentenza competente […]

Ancor meno concilianti le parole del vescovo Cirillo:

Io Cirillo, vescovo di Alessandria, ti imploro, mio imperatore! Dammi le terre purificate dagli eretici e io ti ricambierò con il cielo. Annienta con me gli eretici e io annienterò con te i Persiani.

La chiesa di Dio è costantemente minacciata da eresie, da dottrine immonde e sacrileghe, dai senza dio pieni di stoltezza, eccesso, smisurata ignoranza, insensatezza e depravazione. Queste persone sono altamente sacrileghe, sono calunniatrici e ingannatrici di diritto, sono dominate dai fermenti della malvagità e gravemente affette da ignoranza di Dio. Il loro massimo grado di stupidità e la loro follia, li porta a professare dottrine di origine diabolica. L’oltraggio che recano a Dio li farà precipitare nell’inferno, se non avranno già fatto in questa vita una brutta fine.

Avanti, dunque, con le ondate dirompenti di questi uomini, avanti con pettegolezzi e chiacchiere senza senso, con parole abbellite da chimere e inganno! Ah, Dio, annienta con me gli eretici!

Questa l’atmosfera che si respirava ad Alessandria e, in genere, nell’impero romano e, pur ammettendo che il vescovo Cirillo non sia stato il mandante dell’assassinio di Ipazia, si può senz’altro supporre che nulla abbia fatto per impedirlo: le sue parole certamente non invitavano alla tolleranza e al rispetto dei pagani, ma incitavano, con la loro veemenza e con la ricchezza di aggettivazioni negative nei confronti dei non cristiani, alla loro persecuzione e soppressione. Né riuscì a portare luce sulla verità dei fatti  l’inchiesta voluta da Oreste e avviata da Costantinopoli: gli assassini rimasero impuniti.

A questo punto, però, per avere una visione più completa della figura di Ipazia e delle cause della sua terribile morte, è opportuno leggere alcuni brani tratti dalle lettere che Sinesio di Cirene, suo allievo e futuro vescovo, inviava alla maestra. Fondamentale sottolineare ancora una volta come l’insegnamento di Ipazia fosse volto all’affermazione del libero pensiero, tanto che con suoi insegnamenti pagani si formò il vescovo di Tolemaide: né bisogna dimenticare che tanti erano i tentativi di conciliare il cristianesimo con le teorie neoplatoniche.

I passi che riporto sono a cura di Veronica Revelli:

Ipazia, mia adorata maestra, in te sono riunite le conoscenze accessibili allo spirito dell'uomo. È  la meraviglia di ciò che ci circonda ad attrarre i nostri sensi. Le immagini legano il nostro pensiero alla realtà sensibile; ingannano gli uomini deviandoli così dalla giusta via. Ma le forme, il triangolo, il quadrato e i caratteri matematici, rendono ciò che per la nostra mente è oscuro più chiaro e vero. Vi sono precisi rapporti numerici che regolano il cosmo; l'equilibrio tra forze opposte ne mantiene l'ordine. La contemplazione del cielo, ossia l'astronomia, permette di sviluppare la fantasia: due cerchi concentrici; compaiono le Pleiadi, Cassiopea, Merope, Maia e poi l'infinito. La ricerca della verità non ha limiti.
Mia maestra, in te tutto ciò.
Grande è la mia devozione e l'affetto nei tuoi confronti; rigida ed esemplare è la tua convinzione dell'aderenza della filosofia alla vita. La tua incantatrice eloquenza, la moderazione propria del tuo giudizio, la tua tolleranza intellettuale e la franchezza ti hanno posto al di là di ogni altra fede o religione. Le tue virtù e i tuoi insegnamenti hanno fatto sì che il mio amore crescesse in misura sempre maggiore. L'eros è una sorta di pazzia. Spinge l'uomo ad amare progressivamente. La contemplazione della bellezza del singolo è la prima; quella dei corpi in generale, dell'anima e poi della bellezza in sé si aggiungono in seguito. Tu Ipazia, mio amore, fonte di elevazione spirituale, sei nobile. L'eros è intellettuale: puro amore del sapere.

C'è di nuovo oscurità nella mia mente; è un vortice di emozioni. Il mio cuore piange. Sento urla, pianti; vedo gli sguardi delle sacerdotesse persi nel vuoto. Serapide non esiste più. Il Serapeo con lui è stato distrutto da esseri mostruosi, la cui rabbia si è scagliata sui luoghi a noi sacri. L'incendio della biblioteca tolemaica, le chiusure delle scuole ateniesi è l'inizio della fine.
La mia mente mi riporta al passato: altre immagini. Vedo la decadenza. Ne consegue una profonda delusione: l'Acropoli ha smesso di battere, Atene è morta. Lei, che è stata culla della filosofia, ha custodito per secoli le forme di pensiero più recondite agli uomini semplici, ha conservato frammenti di verità. Tuttavia, come di una vittima sacrificale, non ne resta che la pelle.
Vedo la speranza. E' un essere, il suo nome corrisponde alla nota più alta della scala musicale greca:"Hypate".

Pianti, sguardi continuano a ripresentarsi nella mia mente. La libertà dello spirito repressa. Come una macchina da guerra, i cui perfetti ingranaggi obbediscono a particolari leggi, così è il vescovo Cirillo. Le leggi che lo governano e reprimono il suo essere lo hanno portato a diffondere ovunque l'odio, in nome della religione. Le sue norme si sono segnate nelle menti di molte altre persone; Cirillo non è il solo. La sua invidia e il fanatico servilismo di coloro che, come il vescovo, sono sottomessi a leggi ingovernabili, si sta avvicinando a te, mia maestra, per distruggerti.

Braccia distese lungo i fianchi; corpi ormai privi di vita giacciono ora nelle loro tombe. Non hanno avuto il tempo di iniziare la ricerca; la contemplazione si è conclusa nel momento in cui loro, i miei figli, hanno perso il contatto con la materia.
Distruzione, decadenza, intolleranza, invidia; buio.
La mente è un vortice di immagini. Le forme sono chiare: un triangolo, un quadrato, un rettangolo. Il cerchio non c'è. Esso è simbolo di perfezione, continuità. Ora tutto sembra avere una fine.
A te, madre, amica, maestra, a te "filosofo"; a te essere-donna.

Ipazia fu vittima, dunque, di una serie di circostanze politiche, religiose, culturali che, intrecciandosi tra di loro, crearono una situazione esplosiva, come storicamente accade ogni volta che il dialogo e la tolleranza vengono calpestati: e la storia purtroppo si ripete, in un alternarsi di vittime e carnefici, di martiri e potenti.

La sua storia ha sempre affascinato scrittori e artisti: molti studiosi ritengono, ad esempio, che l’unica figura femminile dell’opera di Raffaello, La scuola di Atene, rappresenti proprio lei, che è l’unico personaggio, oltre allo stesso autore, a guardare verso l’osservatore, come una donna che, avendo affrontato la propria orribile morte ad opera di uomini fanatici e senza scrupoli, non teme di guardare dritto negli occhi chiunque la osservi: è lo sguardo deciso di una donna alla quale il buio delle menti strappò gli occhi dalle orbite.

Prima matematica della storia e unica fino al Settecento, figura di scienziata rigorosa, educata dal padre Teone sin dall’infanzia alla ricerca e allo studio, dà il nome al programma UNESCO relativo al tema “Donne e scienza” per la creazione di una rete internazionale di donne scienziato.

Alla luce di tutto questo, tenuto conto delle fonti dirette e indirette sulla personalità di Ipazia, risulta verosimile il monologo teatrale de Il sogno di Ipazia. Momento molto intenso è la rievocazione immaginaria del tentativo di salvare la biblioteca di Alessandria e di mettere in salvo, con i suoi discepoli,  i libri:

Se ci fosse il loro dio, avrebbe le mani scure di inchiostro e gli occhi rossi dalla stanchezza di leggere, lui… lui avrebbe letto tutti i libri del mondo; il loro dio, se ci fosse, avrebbe posto per tutti i libri di Alessandria, se il loro dio ci fosse… Ve lo prometto, non li bruceranno questi libri, non saranno cacciati da Alessandria. Ricordatevelo, questa città morirà quando l’ultimo libro sarà perduto, questa città resisterà a tutto, anche a loro, anche al loro dio, se riusciremo a salvare anche una sola pagina del nostro passato, del nostro sapere. Questa città non morirà, ve lo giuro, ve lo prometto.

Sappiamo che le cose sono andate diversamente e sappiamo che cosa significhi la distruzione della cultura e delle sue testimonianze, monumenti e libri. E Ipazia amava i libri:

La strada è lunga, io… io leggo camminando come… come se il libro non fosse un impedimento ma… ma una specie di bussola: conto le pagine e so esattamente dove sono.

Riferendosi ai persecutori, al suo insegnamento e ai suoi allievi:

Dio non è solo vostro, sì, mi verrebbe da urlarlo, dio non è così. Io vorrei gridarlo, ma… ma le urla non mi appartengono, io non amo il ferro sbattuto contro il ferro, io non amo il rumore della battaglia, io vorrei solo fermarmi a parlare con loro, sì, spiegare, spiegarmi, aprire le nostre menti tutti insieme. Io… io l’ho fatto mille volte con i miei allievi, tante, tante, tantissime volte: prima gli occhi sgranati di chi non capisce, poi la scintilla del dubbio e infine il sorriso felice di chi ha fatto un passo in avanti.

[I miei allievi dicono] “Ma Ipazia, non ti preoccupare, passerà, non ti potranno perseguitare, ma non potranno mica farci del male! Loro… loro lo sanno che cos’è il dolore: ai tempi di Roma sono stati costretti a pregare nelle catacombe, non faranno a noi questo”… Dicono così i miei allievi, ma loro sono giovani e illusi, loro non sanno come può essere pericoloso un dio partorito dal rancore.

E in un climax ascendente di solitudine e disperazione:

Ma i miei amici più cari in questi giorni di terrore stanno sprangati in casa come se la paura li potesse salvare. Per strada la gente ride della donna picchiata, della donna a cui urlano “strega” e non sanno che poi toccherà agli uomini con pochi capelli,  poi a quello troppo grassi, poi a chi ha la pelle o troppo chiara o troppo scura e poi toccherà a chi è diverso. Ci aspetta il regno dei folli, quando gli uomini si credono dio, torri che diventano campanili, templi che diventano cattedrali… Questo, questo è il regno dei folli: bruceranno i libri, poi bruceranno le scuole, poi bruceranno le statue, poi bruceranno noi. Io lo so, lo so! Ho provato anche ad urlarlo, ma le mie grida mi sono tornate indietro come schiaffi di indifferenza. Io amo questo posto, amo i libri che ci sono qui, io, in questo posto, ci sono cresciuta, ma non basteranno i ricordi a proteggermi.

Giulio Gasperini, parlando dell’opera di Mario Luzi, Il libro di Ipazia, Mondadori, 1978, inquadra la figura della scienziata in un’epoca di transizione in cui “la luce del tramonto e quella dell’aurora non sono molto dissimili” e afferma che Ipazia difendeva la cultura ellenistica, erede legittima della cultura classica, in una città, Alessandria, che rinnegava il suo passato vivace e stimolante per soccombere a ondate di invasioni, più o meno pacifiche (“Ah città morente, città crepata nelle fondamenta, come ti divincoli nell’agonia credendoti viva”): prima la religione cristiana, che si edifica su quella classica, e poi i barbari, che distruggono e poco ricostruiscono (“Dappertutto c’è divisione: tra ciò che si muove e ciò che sta, tra ciò che si disgrega e corre verso la gola spalancata e buia del futuro e ciò che si aggrappa alle macerie per resistere”).
Ogni epoca ha i suoi cambiamenti, e ogni cambiamento fa paura, scuote le coscienze, allunga le ombre dell’inquietudine e dell’apprensione (“Non ci sono leggi che impediscano e neppure leggi che proteggano. Non ci sono leggi affatto. C’è solo chi fa la legge”). Dove porterà la mutazione, dove sarà l’approdo per una nuova rotta che non conosce nocchiere né stella a orientare?”
Margherita Hack, nella prefazione al libro IPAZIA. Vita e sogni di una scienziata del IV secolo d.C. di Antonio Colavito e Adriano Petta , La Lepre Edizioni, afferma:
Malgrado l’amicizia con Sinesio, vescovo di Tolemaide, che seguiva le sue lezioni, i fondamentalisti temevano che la sua filosofia neoplatonica e la sua libertà di pensiero avessero un’influenza pagana sulla comunità cristiana di Alessandria.
L’assassinio di Ipazia è stato un altro atroce episodio di quel ripudio della cultura e della scienza che aveva causato molto tempo prima della sua nascita, nel III secolo dopo Cristo, la distruzione della straordinaria biblioteca alessandrina, che si dice contenesse qualcosa come 500.000 volumi, bruciata dai soldati romani e poi, successivamente, il saccheggio della biblioteca di Serapide. Dei suoi scritti non è rimasto niente; invece sono rimaste le lettere di Sinesio che la consultava a proposito della costruzione di un astrolabio e un idroscopio.
Dopo la sua morte molti dei suoi studenti lasciarono Alessandria e cominciò il declino di quella città divenuta un famoso centro della cultura antica, di cui era simbolo la grandiosa biblioteca. Il ritratto che ci è stato tramandato è di persona di rara modestia e bellezza, grande eloquenza, capo riconosciuto della scuola neoplatonica alessandrina.
Ipazia rappresenta il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza che aveva fatto grande la civiltà ellenica. Con il suo sacrificio comincia quel lungo periodo oscuro in cui il fondamentalismo religioso tenta di soffocare la ragione.

Ed ecco alcuni brani tratti dalla parte finale del monologo della protagonista, ne Il sogno di Ipazia:
Loro vogliono che io diventi cristiana, mi hanno offerto dei soldi per questo, sì, soldi per la mia scuola, ma io non posso farmi comprare, se mi faccio comprare io… io non sarò più libera, non potrò più studiare! La religione… ma qualsiasi religione, qualsiasi dogma o ideologia, se non ti permette di pensare, diventa come una gabbia che ti soffoca.
Non ascoltate quello che vi diranno, vogliono che io sparisca nel nulla, per questo diranno che me ne sono andata, che sono fuggita, per questo diranno che nessuno ha visto quello che mi hanno fatto e che nessuno ha sentito. Non gli credete! Bruciano il mio corpo e i miei scritti perché non vogliono resti nulla di me, ma si sbagliano: il pensiero non brucia! Ricordatevelo!
Un’altra alba ci aspetta, troveremo un posto per ricominciare! E non voltatevi mai indietro a vedere il corpo che brucia: il pensiero non brucia! Ricordatevelo!

“Il pensiero non brucia” dice più volte Ipazia e ci invita a ricordarlo. E ancora oggi questo messaggio è fondamentale e merita di essere ricordato sempre e ovunque, dagli uomini di ogni cultura e di ogni fede, perché

Strano Dio che ha paura delle parole. Che odia i libri. Strano Dio davvero. Ma è il Dio che loro vogliono dipingere quello che fa paura. La protezione delle loro paure. Non è Dio. Perché Dio o gli Dei li puoi chiamare in mille modi, ma se sono davvero lassù, dietro le stelle, e sono loro che regolano tutto, perché dovrebbero avere paura? E di cosa? Di noi? La paura e la violenza appartengono all'uomo; a Dio, se c'è, appartiene l'amore”.

L’immagine è tratta dalla pagina facebook “Il sogno di Ipazia”.

I brani dei discorsi di Cirillo e quelli del monologo teatrale sono trascritti dall’audio https://www.google.it/?gws_rd=ssl#q=radio+teatro+il+sogno+di+ipazia: per questo motivo, potrebbero non essere del tutto corrispondenti al testo, soprattutto per quel che riguarda la punteggiatura. Me ne scuso con l’autore.

Commenti

Ogni volta che Rosalba Gallà pubblica qualcosa (dovrebbe farlo più spesso) corro subito a leggerla e ne rimango sempre soddisfatto. Questa volta, però, dire che sono soddisfatto sarebbe riduttivo. Eccellente la ricostruzione ed eloquenti i richiami, Rosalba fa rivivere Ipazia come se l'avessimo conosciuta e fosse una donna dei nostri giorni.

Se non ricordo male, fu Edward Gibbon a scrivere nel suo Storia del declino e della caduta dell'impero romano che il 415, l'anno della barbara uccisione di Ipazia, sarebbe stato l'anno dell'onta incancellabile della Chiesa cristiana. E così è, se Ipazia viene ancora ricordata con le parole di Rosalba Gallà o dal teatro da lei citato.

... Qui non si tratta solo di stima, ma di riconoscere nella policroma Prof.ssa Gallà, eclettica Principessa del foro letterario nostrano, una storiografa della più bell'acqua nonché una donna in più discipline versata ed in tutte maestra...