4 Gennaio 2016, 18:01 - Giuseppe Maggiore [suoi interventi e commenti] |
Ambiente: Cefalù - centro storico
(strade, piazze, androni di edifici nobiliari e botteghe).
vocìo e rumori ambientali
Autunno 1989
1) - PRIMO PIANO – ESTERNO – SERA - (remake)
Prima di mandare avanti questa prolusione, che, forse, è anche un po’ treatment o synopsis che sia (più trattamento che sceneggiatura, comunque), non trovo disutile né inopportuno innalzare una silente prece a Santa Scolastica, protettrice, secondo taluni, e ispiratrice, secondo talaltri, dei correttori di bozze di stampa, acciocché tutte le possibili errate desinenze, tutte le ipotetiche virgole mancanti o accenti messi a sproposito, tutti i probabili vocaboli ripetuti e tutti gli eventuali periodi saltati a piè pari (accadimenti, che, con il loro deplorevole proporsi inficiano, purtroppo, larga parte dell’editoria cartacea, giornalistica e letteraria in genere) abbiano ad essere banditi dalla presente pubblicazione, per più versi altamente meritoria.
("Nunc premor arte mea"
ora sono colpito dal mio stesso inganno - Tibullo)
Posto ciò, e per non menare ulteriormente il can per l’aia, come si diceva una volta (oggi la frase è caduta in disuso, sommersa da tutti gli stranieri impinguamenti lessicali che hanno potenziato il nostro vocabolario), vi dico subito che alcune sere fa, more solito, uscii per la rilassante passeggiata in questo tormentato Corso Ruggero, sepolcro lavico di tante onorabili suole cittadine.
Vago senza meta fra la marea di gente che sale e che scende a ondate (molti, interessati agli ultimi sconti estivi dei negozi), sospinto, ripetutamente urtato, varie volte costretto a mutare repentinamente direzione in dipendenza del pericolo costituito dalle improvvise prodezze ciclistiche di non pochi esponenti delle ultime propaggini dell’umana progenie, i quali, spericolati acrobati, educati alla democratica libertà (intesa, purtroppo, come libertà assoluta di far ciò che si vuole e come si vuole!), minimamente si curano delle emanate regole che tutelano il buon senso e l’incolumità degli altri; anzi, spesso l’hanno in dispregio, ostentando un'indolenza ed una superficialità indomite!
Incedo, adunque, alla disperata ricerca di quei due miei preziosi amici (che il Cielo conservi per la magnificazione delle generazioni future), fecondi e dotti conversatori, duttili ingegni produttori di assennati pareri, fonti inestinguibili di pura saggezza e di spirito critico, che spesso hanno confortato la mia solitaria deambulatio con la loro prestigiosa e mirifica presenza: l’uno, cui i Rosacroce furon germani; l’altro, rampollo d’una nobile prosapia di questa nostra illustre città, espertissimo nell’arte del sentenziare.
E se non li avete riconosciuti (domanda da cento milioni), peggio per voi!
E nel mentre rifletto sulla inanità delle situazioni umane (quella presente, mia, nella fattispecie: chè, se tu cerchi qualcuno, non lo trovi mai, ma se non lo cerchi, te lo vedi sempre d'attorno!), quando un preclaro personaggio d'estrazione ecclesiale a me familiare, maestro insigne d’arte canora, interrompe i miei motili pensieri.
“Principe!...” - usa appellarmi così l’onest’uomo, non perché io sia un titolato (ammenoché Adamo e consorte non fossero insigniti di qualche blasone, notizia che mi sfugge; voglio, anzi, in proposito, effettuare delle ricerche. Non si sa mai!), ma perché fra di noi s’è stabilita la tacita simpatica usanza secondo la quale io lo chiamo “Padre Pirrone” da quando ebbi a manifestargli che se dovessi girare “Il Gattopardo” non potrei fare a meno di fargli interpretare il ruolo del personaggio nominato, a mio vedere assomigliandogli e lui, di rimando, mi dà del “Principe” (bontà sua!), identificandomi col “Salina”.
Modi e usanze, leziosi, si, ma che, tuttavia, rendono più umoristica questa nostra terrena recita; in più, mi reputo a lui affratellato nell’ironica constatazione del reale.
“Padre Pirrone!... - lo interpello a mia volta, continuando la celia - … A che ora il Rosario nella cappella di famiglia?...”.
“Quando vuole vostra eccellenza… - celia pure il sant’uomo - ... sono sempre a sua disposizione”.
“Non è che ha per caso visto Martinazzi?...” - gli domando, ritornando al concreto. Martinazzi è mio cugino Salvatore Martino, il Magistrato; e da quando gli ho appioppato questo nomignolo, non solo altri, ma lui stesso s’intende così.
“No. Non ho avuto questo piacere - mi risponde, bonario, il pievano - Se lo vedrò, comunque, gli dirò che tu lo cerchi…”.
“... E neppure Giovanni Vazzana?...” - insisto. Quest'ultimo, Maestro Venerabile della locale Loggia Massonica Salvatore Spinuzza e accreditato professionista, mi onora della sua amicizia.
“Neppure”.
“La ringrazio…”.
Ci lasciamo col vicendevole usuale sorriso ed ognuno procede per la propria strada.
Un gruppo di ragazzi sulla quindicina, maschi e femmine, mi passa accanto, sfringuellando. Colgo a volo qualche frase.
“Sai?... - dice una ragazzina con le trecce e le lentiggini alla compagna che le sta accanto, sorridendo e fregandosi le mani, certamente per la contentezza - … anche a Giuseppe ha messo due!”.
“E lui?...” - fà la compagna.
“Lui s’è messo a piangere... forse pensando di doverlo dire a sua madre!” - risponde la prima.
Gli altri ridono di gusto. Non recepisco il resto che si dicono perché mi hanno già distanziato per un buon tratto. Mi confesso che si comincia col gioire delle disavventure altrui per finire col sopportare le proprie. È più che mai corrispondente al vero il detto che recita: compagno a duolo è gran consolo!
Passo fra persone sconosciute, il più delle volte note solo di vista. I ragazzi di ieri, oggi hanno un viso a me del tutto ignoto; mi pare che crescano troppo in fretta. Sicuramente anch’io, illis temporibus, avrò dato la stessa impressione.
Ex abrupto sono distratto da qualcosa di eccitante che non manca d’ingenerarmi una sensazione indefinita, innegabilmente allettante: la fugace visione d’una cascata di capelli rossi, tizianeschi, lunghi, svolazzanti, fluttuanti ad ogni passo su delle spalle ben tornite che digradano in un corpo armonioso inguainato in una camicetta ed in una lunga gonna verde, aderenti: indumenti e taglie che esaltano le forme.
L’improvvisa apparizione mi abbaglia e mi stordisce, mi sconvolge e m’irretisce spingendomi in un iperuranio di lubriche fantasie.
Non recepisco il viso della donna, che non vedo perché ella mi sorpassa e si allontana, veloce ed eterea, inconsistente ma corposa.
Inconsapevolmente, come un automa, allungo il passo e mi trovo (mio malgrado) a seguirla. Di getto. D’intuito. Senza premeditazione, in verità. Vedi che idiozie si possono compiere quando si è soprapensiero o preda di un’insana insorta voglia! Che il Cielo perdoni la mia curiosità! Ma, se vogliamo, che c’è di male ad interessarsi a qualcosa che attrae? In fondo è sempre meglio che passeggiare con Martinazzi o con Vazzana, no?
Così io la seguo, astraendomi dal contesto del reale, completamente immemore di esso, immerso nella più schietta dimensione dell’indagine.
È bella, non è bella? Chi è e dove va? E chi lo sa! Domande fortuite, meschine ma per me impellenti.
Fresca gazzella scattante vitalità, ella scende per il Corso ad una gagliarda andatura, tal qual Diana, venatrix regum. No, non la conosco, a giudicare, almeno dalle fattezze posteriori. Né mi accorgo più d’altri amici che, incrociandomi, mi salutano senza ottenere risposta (me ne rimprovereranno dopo), io che sono preso dalla visione enigmatica di quell’essere, che, in quel momento, è la mia prua, la mia panacea, il mio unico orizzonte, il fatiscente empireo di una insaziabile patologica insorta frenesia.
Gli impegni programmati che poco prima mi tenevano partito impallidiscono e si dileguano come nebbia al sole e mi sento stranamente eccitato e totalmente privo di qualsiasi altro terreno interesse.
Lei, intanto, svolta per la via Nicola Botta.
Le tengo dietro instancabilmente, ma, in realtà, inconsapevolmente. Com’è futile il carattere dell’uomo! Basta un riflesso particolare in una fluida capigliatura femminile e l’etica mentale, tralasciando i casti sentieri della virtù e le occupazioni consone, s’immette in una dimensione fantastica e irrazionale. Eppure, ribadisco, non l’ho vista in viso. E, forse è meglio. Infatti ho modo di attribuire ad esso tutte le possibili fisionomie più eclatanti che l’esuberanza delle forme generali fà supporre.
La rossa, intanto, rallenta l’andatura e scompare nell’ampio e vetusto portone che fu un dì dimora di ardimentosi patrioti.
Io, che mi trovo a seguirla ad una diecina di metri da lei, accelero il passo; ma quando raggiungo il vano dell’apertura, la sconosciuta è già bell’e sparita. Nessun rumore di passi sulla scalinata di pietra, che, a doppia rampa nell’ampio e palmato cortile, sparisce in alto, a destra ed a sinistra.
Scorgo un vecchio macilento, seduto su una sedia allato a un muro. Scarno il viso, acquosi gli occhi, indefinibili e lerci i panni.
“… Cercate qualcuno?...” - mi chiede con una voce arrochita dagli anni.
“… No… cioè... volevo parlare alla donna che è appena entrata…” - rispondo con estrema improntitudine.
“... La donna?... - si meraviglia il vegliardo - … Ma qui non è entrato nessuno. Almeno da una mezz’ora a questa parte…”.
Evidentemente, data l’età, non l’avrà vista, penso. D’altro canto, insistere avrebbe conseguito il negativo effetto di mettere ulteriormente a repentaglio la mia già malsicura posizione di importuno. Così ringrazio, dicendo di essermi sbagliato, e ritorno in istrada con le pive nel sacco.
E qui succede il fatto, acciduus. Di colpo passo dalla luce all’oscurità (tenebris obortis; tenebris nigrescunt omnia circum; tenebrae Stygiae), dal concreto all’astratto, dalla coscienza alla incoscienza.
Una nera improvvisa caligine mi avvolge, mi ottunde e mi sottrae al reale; blocca il mio incedere. Non vedo più niente. Tutto, pare, l’improvvisa oscurità abbia inghiottito: l’antro, la scalinata, il vecchio, le case, la strada, le persone, la vita. Mi rendo conto che c’è un black-out totale: sia la luce ordinaria che quella dell’Ente, di concerto, sono andate via, all’unisono, quasi a voler dar contezza della propria indispensabilità. Ed io mi trovo a non poter muovere neanche un passo, per il timore di andare a sbattere contro qualcuno o qualcosa.
Gli immancabili clamori giovanili di protesta, che in consimili situazioni permeano l’ambiente salendo a volute da più parti e riempiendo l’aria circostante, digradano, come d’incanto, in tenue dissolvenza. Mi sento estraneo in un ambiente sconosciuto. L’oscurità che si taglia a fette è opprimente.
In tal frangente cerco di darmi aiuto come meglio posso.
Mi metto a costeggiare i muri delle case tastandoli con le mani, tentando di risalire sino al Corso. Sbatto le ginocchia nei vasi da fiori che ornano l’ingresso di un noto ristorante, che tuttavia mi pare non esistere punto; mi riprendo e la luce ancora non viene. Pongo mente alla tragedia dei non vedenti. L’insolita situazione mi prostra. Percepisco di più gli odori; forse perché l’olfatto si è acuito, venendo meno il visibile. Mi pare di aspirare un tenue profumo di zagara, delicato e sottile, una ventata, come se qualcuno o qualcosa, impregnato di quell'aroma, mi passasse velocemente accanto. Qualche flebile voce permane in lontananza, indistinta. Lo stesso rumoreggiare della folla, nel Corso, più su dentro le tenebre, che prima connotava il passeggio, ora è svanito. Solo passi isolati adesso, in lontananza. L’aria si spande più pura, più nutriente, asettica, meno pesante.
Ad un certo momento un odore acre di legna bruciata e di carbone mi solletica le nari. Un vago chiarore guizzante mi si profila all’orizzonte ed io continuo più speditamente nella mia manovra di recupero della via principale.
Sono fortunato; sto per arrivarci. La chiarìa intravista diviene più distinta e consistente, disegnando lo spigolo del fabbricato che fà da angolo destro fra le due strade. Cammino, adesso, normalmente, con l’abituale sicurezza; supero l’ultimo ostacolo alla vista e mi fermo abbagliato: mi trovo davanti ad un fascio di legna che brucia scoppiettando allegramente al centro della piazzetta di fronte alla chiesa delle Anime Purganti.
Le fiamme illuminano lo spiazzo in maniera caratteristica ed inusuale, proiettando sulle facciate delle case circostanti insolite ombre vaganti.
Intorno al piccolo rogo scorgo delle figure nere che attendono ad alimentarlo con sterpi ed altra legna secca ammonticchiati di lato. Volgo un’occhiata in giro. Il Corso, nei due sensi, rimane sommerso dal buio; la città appare interamente sprofondata nelle tenebre, ad eccezione di questa piazzetta, che, come una relitta zattera, veleggia in una improbabile realtà.
Mi avvicino agli uomini che curano il fuoco, attratto dalla vivezza delle fiamme. Mi appaiono delle figure sconosciute, inguainate in abiti fuori dell’ordinario. Ma già, si sa, la moda di oggi è impensabile; nulla fà più meraviglia. Una volta il carnevale veniva semel in anno; oggi c’è sempre. Noto, inoltre, che i più portano la barba folta; né scorgo donne.
“Gnaffe!... - dice un tizio segaligno al vicino, rimestando il legname incandescente - ... Mettici quello sterpo… così... dai!” - L’altro esegue, prendendo da un canto un tralcio stagionato che, appena lambito, ravviva la fiammata crepitando.
“… Se n’è andata la luce. Chissà quando ritorna…” - dico, tanto per dire qualcosa. L’uomo mi guarda soprapensiero.
“Perché, questa non è luce?...” - mi chiede, accennando alla fiamma.
“Ma c’è stato qualche guasto?...” - insisto, paziente.
“Guasto?... - mi fà l’uomo, perplesso - … Guasto di che?...”.
Il fondamento della mia domanda mi pare talmente evidente che non credo di dover aggiungere altre spiegazioni. Il tizio mi guarda ancora, incuriosito, come si può guardare uno venuto dall’altro mondo. Poi, quasi a voler giustificare la sua curiosità, mi parla con una certa disponibilità.
“… Se è qui … - mi dice - per la funzione, si sbrighi. È già incominciata…” - ed accenna in direzione della chiesa.
Istintivamente alzo lo sguardo verso il sacrario.
Al di là della porta aperta, la facciata ammantata di lutto, scorgo un vago barlume tremolante; mentre, come di concerto, un flebile funebre canto liturgico diffonde la sua mesta melodia nell’aria.
Automaticamente lascio il gruppo e mi avvio su per la scalinata; oltrepasso l’ingresso e m’immergo nella chiesa pregna d’aromi d’incenso.
Molte fiammelle illuminano l’ambiente gremito di fedeli. Mi rendo conto che si sta celebrando una Messa cantata. Vedo tutti di spalle: le donne a sinistra e gli uomini a destra. Ognuno è all’impiedi dinanzi alla propria sedia. Pochi i ragazzi. Le donne portano il vestito lungo, di preferenza sul grigio; gli uomini, una specie di marsina nera. Alcuni ostentano una certa eleganza. Io sono rimasto accanto alla porta, dietro gli ultimi convenuti.
Un canonico col naso adunco e che assomiglia al mio amico poco fa incontrato per via sta officiando, coadiuvato da due suoi confratelli e da un chierichetto. Egli bacia l’altare, poi si avvicina ad una pedana, posta lì accanto a guisa di pergamo, abbraccia con lo sguardo l’uditorio e rimane per un attimo in silenzio, come a cercare le parole più adatte alla circostanza. Poi si decide e declama.
“… Fratelli carissimi … - comincia con voce stentorea - l’umile anima, pregna di virtù, è salita al Cielo! Così l’Eterno volle. E a noi, cui la fine incombe al momento nostro, non resta che la pietosa memoria dell’uomo, delle opere sue, del suo sentire…”.
Il canonico è preso da un accesso di tosse stizzosa che gli vieta per qualche minuto di continuare la sua iniziata prolusione.
Io colgo lo spunto per ritornare con la mente alla realtà della mia situazione. Che cosa strana che mi sta capitando stasera! Imprevista e impensata! E che ci faccio, io, a restare ancora qui? Certamente, a quest’ora, i miei titolati amici mi staranno cercando per la strada! E poi, perché, mi chiedo, i discorsi commemorativi o da cerimonia, in genere, risultano sempre, anche contro l’intenzione dell’oratore stesso, ampollosi, prolissi, retorici, astrusi, paludati di eufemismi e, in una parola, noiosi?
“… Non per nobiltà di sangue… - continua l’oratore, che si è ripreso mercé un salvifico bicchiere d’acqua che gli è stato pietosamente portato dal chierichetto - ... ei risplendette, né per elevatezza di cultura; ma intelligenza, finezza d’animo ed onestà di cuore forgiarono l’esser suo sin dal suo picciol tempo! Ed egli fu vate dell’umiltà del sentire! Avverso la nequizia dei tempi a quest’uomo fu usbergo l’attrezzo suo: la zappa! Egli l’amò e l’assunse a emblema, quasi ad additare il duro lavoro, il più umile, quale precipuo tramite all’immortalità! Poeta egli fu: cantò la terra, matrice e avello del nostro esistere! E di quest’urbe, in cui ebbe i natali, ei fu vanto! Ahimé, or non è più!…”.
Il canonico prende ampiamente fiato e beve un altro sorso d’acqua, accingendosi a continuare.
Meravigliato, osservo tutto e tutti.
I visi degli astanti, quelli che parzialmente riesco a vedere, mi sono del tutto sconosciuti, quantunque l’aleggiare di certe fisionomie può indurmi a cogliere qualche somiglianza con persone a me note. Alcuni uomini, piazzati nelle prime file, mi appaiono gente di rispetto.
Il canonico riprende a parlare, ma io non lo ascolto più. Presa dalla percezione di strane sensazioni, di inusitati odori, di ancestrali pensieri, la mia mente vagola nel limbo dell’incertezza. Non lampade pendono dal soffitto e dagli archi delle navate, ma candelabri dalle multiple braccia, carchi di grappoli di ceri accesi. Il chiarore che essi spandono dà un senso di evanescenza a visi e figure. Tutto l’assembramento mi ha l’aria di essere una solenne cerimonia in costume: una cosa d’altri tempi.
Accanto a me c’è un uomo anziano: è di media statura e tendente alla pinguedine. Brizzolati e lisci, i capelli, tirati all’indietro, sono divisi da una scriminatura, in un lato. I grandi verdi occhi intelligenti nuotano nella faccia larga e pasciuta. La sua espressione è seriosa e compunta.
“... Mi scusi... - gli chiedo sottovoce - ... ma cosa si sta celebrando?...”.
Lui mi osserva, stupito, valutando la mia presenza (debbo, ahimè, ammettere, insignificante: per l’abito non adatto alla circostanza e la domanda). Il suo interesse è attratto dalla mia giacca sportiva, dalla mia camicia di flanella quadrettata, dai miei pantaloni di fustagno marrone e dalle mie scarpe da tènnis. La sua perplessità mi appare manifesta.
“Non vede?” - mi dice, accennando all’officiante che in quel momento conclude con enfasi la sua prolusione mentre tutti si siedono e, ai piedi dell’altare scopro un catafalco – È una commemorazione… sicuramente lei è forestiero…”.
“… Come, forestiero?... - balbetto inebetito - Sono cinquant’anni che sto qua… praticamente da quando sono nato...”.
“Davvero? - commenta ironicamente l’uomo - Ma io è la prima volta che la vedo…”.
“Chi si commemora?...” - chiedo ancora.
“Ma, Carmine Papa! Il poeta zappatore!” - mi risponde il mio interlocutore, questa volta con tono e atteggiamento di evidente fastidio e commiserazione: modi che si usano nei riguardi di un importuno e, per di più, ignorante.
“… Come, Carmine Papa?!... È già il suo centenario?... Della morte, intendo...”.
“Che c’entra il centenario, se è appena morto da neanche un mese!...”.
Lo guardo, stralunato. Evidentemente l’uomo non è in sé, mi dico. Il poeta richiamato è morto nel Settembre del 1891, se non vado errato, e oggi, che io sappia, siamo nell'Ottobre del 1989; non può, quindi, essere venuto a mancare appena un mese fa, o giù di lì.
A sua volta l’uomo fissa me, come se io non fossi in me ed entrambi restiamo a guatarci in silenzio, dubitando l’uno dell’altro.
“Si sente, forse, male?...” - s’informa lo sconosciuto.
“... No, no: Il fatto è che sono molto confuso, ecco… Mi dice, per favore, quanti ne abbiamo oggi?...” - Colui non mi risponde subito. Mi scruta con attenzione, come per accertarsi che io non stia scherzando. Rassicurato, ha pietà di me e mi esaudisce.
“Siamo al 12 Ottobre del 1891…” - proferisce d’un fiato.
Crollo non fisicamente, ma psichicamente.
“... Mille e ottocento?...” - insisto.
“... Novantuno... - completa nuovamente l’uomo - ... dodici Ottobre...”.
Per uno strano, inspiegabile, intorbidamento delle mie qualità mnemoniche e sensoriali io sto sognando: non può che essere così, mi conforto, cercando di riordinare le idee e i sentimenti; perché non è possibile che avvenga quello che mi sta accadendo, se non in sogno! Il sogno è la soddisfazione di un desiderio, annota Freud e, certamente, siccome io ho sempre sostenuto che mi sarebbe piaciuto vivere nell’ottocento, seppure con il supporto degli antibiotici, la mente, questo strano giocattolo, come la chiama Chaplin, la mente, dunque, mi sta partorendo una strana realtà, croce e delizia, che, tuttavia, mi frastorna. Pertanto è un sogno: non può che esserlo, mi ripeto.
Rinfrancato alquanto da questa razionale presa di coscienza e, quasi per fare la prova del nove alla medesima, mi pizzico con tutta forza un braccio. Non l’avessi mai fatto! L’acuto dolore che mi trafigge mi induce ad una esclamazione che non so reprimere.
“Ahiii!!!” Ho ecceduto nella stretta e mi son fatto male. Alcune persone che si trovano dinanzi a me, disturbate, si voltano a guardarmi con estrema disapprovazione. No, non dormo! Sono sveglio, sveglissimo! Il braccio ancora mi duole e io vedo e sento tutto quanto avviene intorno a me.
“Ma che ha?... - si spazientisce il mio interlocutore - Non si rende conto che siamo in chiesa?... La smetta o vada via!”.
Vado via di corsa. Forse l’aria fresca della sera mi farà bene ed io rinsavirò. Ammesso che qualcosa mi coarti!
Fuori, sulla piazza, le figure continuano ad alimentare il roghetto, che ora ha raggiunto le dimensioni di un falò. Quei visi sparuti si rivolgono verso di me mentre sfreccio senza fermarmi e m’inoltro nel Corso, risalendolo.
La via, adesso, non è più completamente al buio. Rade fiammelle, protette da artistici arrugginiti lampioni, certamente a petrolio, ognuno appeso alla confluenza con ogni strada, spandono una luce sepolcrale, da cripta, facendo risaltare, in modo inusuale, tuttavia, i prospetti delle case. C’è poca gente in giro, per lo più uomini; non c’è passeggio. Tutti attendono alle proprie faccende. Non più le consuete attuali luminarie degli scintillanti negozi, che mi sarei aspettato di vedere al loro posto come sempre. Rade ed a malapena rischiarate dalla scialba luce di lumi, invece, ai due lati della via si aprono modeste botteghe connotate da rudimentali vetrine alla meglio addobbate. Tutto denota una certa dignitosa semplicità.
Nell’interno di esse, seduta dietro il convenzionale bancone di legno marrone (in qualche caso anche rosso), di solito sta una coppia (lui fuma il sigaro, lei fà un lavoro a maglia) in attesa dell’ipotetico ritardatario cliente. Le botteghe, tranne poche specializzate in un ramo ben definito, vendono di tutto, come si può vedere alla prima occhiata: dalle stoffe agli alimenti, dal carbone agli attrezzi per la campagna, dai ninnoli agli specifici curativi a base di erbe officinali.
A destra scorgo il locale di un barbiere. L’uomo ha i capelli fluenti tirati all’indietro; è di mezza età. La sua espressione, imbronciata, appare nel contempo annoiata e competente. Sta ritoccando la barba ad un corpulento giovanotto d’alta statura, paffuto e con gli occhiali.
Proseguo verso la Piazza Garibaldi, preso dalla fantasmagorica avventura in cui imprevedibilmente ed impremeditatamente mi sono fortunosamente cacciato. Un ampio cartello con su scritto “Municipio” contrassegna il fabbricato che oggi comprende l’Azienda del Turismo e la banca. La coloritura dei muri è, tuttavia, diversa; e così, anche, l’altezza di alcune case. Di immutata rimane la consistenza dell’Osterio Magno; tranne che è senza impalcature (come oggi sono abituato a vederlo, per il restauro in atto) e mi pare che l’edificio sia abitato: infatti, all’ultimo piano, al di là della nota bifora, vedo della luce e, al primo piano, c’é un balcone. Di fronte ad esso, l’appartamento che ha l’onore di ospitarmi.
Nella parte bassa del fabbricato, nel locale che fà da angolo tra il Corso e la scalettata via Caracciolo che sale, si vende del pane e della farina. Non so perché, ma mi fermo a guardarci dentro: vedo un vecchio, maestoso nel portamento, con una barbetta bianca che gli contorna il mento e s'inoltra, poi, in due corposi favoriti. Sta seduto su una sedia di corda davanti al banco di vendita. È solo e tiene le mani in mano, guardando fisso il tratto di strada orizzontale dinanzi a sé. Mi nota, mi scruta con interesse. Mi avvicino a lui, non so neanch’io perché.
“… Quanto costa un chilo di pane?...” - gli chiedo svogliatamente, senza alcun interesse a comprare qualcosa.
“Dodici soldi... - mi risponde con tono gioviale, non smettendo di fissarmi - ...che fà, lo vuole?...”.
“Si, lo prendo…” - assentisco io. Egli si alza, trae da uno scaffale due grossi pani rotondi, di colorito scuro, li involta in una carta chiara e me li porge. Metto mano al portafoglio e, prima di rendermene conto, gli porgo una banconota da cinquemila lire.
“... Non ho spiccioli, purtroppo…” - mi scuso.
Il vecchio corruga la fronte e considera con attenzione la banconota che dispiega nelle mani.
“... Ma cos’è questa?...” - si chiede e mi chiede, alzando gli occhi e figgendoli nei miei. Intuisco la sua perplessità.
“È denaro, non lo vede? È una banconota di corso legale della nostra repubblica...”.
“... Repubblica?...- s’incuriosisce -... Del nostro regno, vuole dire...”.
“Ah, certo, del regno… - mi correggo - Comunque è perfettamente valida…” - assicuro.
“Ma quant’è, questa? “ - chiede ancora, soprapensiero.
“Cinquemila lire… Non lo vede?..”.
“… Non le ho viste mai… cinquemila lire!... - ripete trasecolato, considerando la cartamoneta e poi me. - ... Ma è una somma enorme! Stampano anche cinquemila lire, adesso?... Come faccio a darle il resto per dodici soldi!...”.
“Va bene, non fà niente - concludo io, ritirando la banconota - Il pane lo prenderò un’altra volta...”.
“... Ma, no... Se volete me lo pagherete domani... - insiste - ... Siete forestiero?”.
“No... o meglio, sì… Sono forestiero… No, non è il caso che prenda il pane... Forse non mi sarà possibile tornare domani...”.
“Glielo dò lo stesso - si decide il bottegaio - Vedo che lei è una persona ammodo… ma… - mi osserva meglio - ... ma... mi scusi se entro nei fatti suoi… ma com’è vestito, lei?...”.
Mi rendo conto che lui non si rende conto della situazione; non può rendersene conto. A stento me ne rendo conto io! Ma è, certo, un sogno, e nel sogno tutto può capitare. Mettiamola così.
“... Sa?...- bleffo - È la nuova moda che adesso va a Palermo…”.
La giustificazione è fiacca, ma non me ne viene una migliore.
“... Ah, a Palermo!... - ripete l’uomo, pensieroso - ... Capisco... Ma allora per lei ci vuole un bel cappello… Neanche a farlo apposta, qui accanto c’è la bottega di mio figlio Giuseppe, che, giust’appunto, vende cappelli, tanto che lo chiamano: il cappelliere. Perché non lo va a trovare? A una persona come lei, vestita così alla moda, un bel cappello ci starebbe proprio bene!.. E poi, mi creda, anche a Palermo farebbe la sua figura!...”.
“Mah!... Se ci tiene!... - dico - Lei è stato tanto gentile che non so proprio dirle di no… È la bottega accanto, ha detto?...”.
“Si, proprio quella. Ci vada”.
“Ci vado. Grazie di tutto. Appena ripasso, saldo il mio debito...”.
“Non ne abbia pensiero!...”.
Prendo l’involto col pane ed esco. Il locale attiguo è proprio un negozio da cappelliere. Un uomo sta appoggiato al banco e tiene le braccia conserte; appare assorto e dimostra una trentina d’anni, circa. È magro, di media statura e porta baffoni folti e capelli corti. Ha due occhi castani.
Appena entro si ravviva, sorride e mi si avvicina premuroso.
“In che posso servirla?” chiede con gentilezza.
“Sono stato da suo padre, qui, nella bottega accanto… e lui mi ha consigliato di dare un’occhiata ai suoi cappelli, nel caso ne trovassi uno adatto a me…”.
“Ma certo che c’è! - afferma l’esercente - Permette?...” Ed esce un metro di stoffa da un cassetto; quindi mi prende la misura della testa.
“Bene! - dice - Lei veste il cinquantotto, come pensavo. Ecco, le faccio vedere…” - Apre una vetrina e comincia a sciorinare sul banco delle scatole dalle quali estrae dei cappelli, molti dei quali a bombetta.
“Provi questo, qui c’è lo specchio!..”.
Faccio una curiosa figura. Mi sembra di essere a carnevale o a Londra come un perfetto gentleman. Io non indosso più un copricapo del genere da quando avevo dieci anni e mi mascheravo per gioco con le mie cugine, Tilde e Salvina. Ne provo alcuni, in successione, senza decidermi, tuttavia.
“È molto che commercia in cappelli?...” - butto giù, cosi, per avviare una qualsiasi conversazione.
“Eh, sono dieci anni, ormai… - risponde - È un’attività tramandatami da mio nonno Vincenzo…”.
“Ed è un lavoro redditizio?...” - chiedo ancora.
“Mah, che vuole che le dica! Si campa. Io, comunque, lo faccio per passione. D’altronde, qui le alternative sono poche: o fai il contadino, o il pescatore, o l’artigiano, o il commerciante. Partendo dalla prima professione le dirò che l’agricoltura è in crisi. Non ci se ne occupa più come una volta. Il riassetto dell’economia rurale, togliendo alcune figure di indubbio prestigio organizzativo, che so, quella del massaro, del mezzadro, del campiere, per esempio e introducendo pseudofacilitazioni, che, di fatto, favoriscono esclusivamente l’affittuario a scapito del proprietario del fondo, si è ripercosso negativamente, a mio vedere, su questo particolare settore produttivo; chi vi si dedica, lo fà più con intenti amatoriali per nutrirsi del suo che per la probabilità di guadagnarci qualcosa. All’atto pratico, i costi sono di gran lunga superiori ai ricavi, perché la manodopera è esosa, quando si trova (pensi, sei tornesi e cinquanta al giorno!). In definitiva, non vale più la pena di metterci mano. A volte mi vien fatto di pensare che basterebbe varare poche leggi appropriate (che so, sgravi fiscali, facilitazioni tangibili, esenzioni, oltre a quelle che ci sono) perché molti vengano indotti a ritornare al lavoro della terra. Bisognerebbe rendere appetibile il settore. In fondo, tutta la nostra sussistenza viene da lì, dalla terra! Pensi un poʹ: rifiorendo l’agricoltura e, di conseguenza, l’allevamento del bestiame, non ci sarebbe più bisogno di importare dall’estero le derrate alimentari e quant’altro; e ciò si risolverebbe in indubbio sollievo per la bilancia dei pagamenti. La soluzione appare così semplice, a me che sono un uomo alla buona, che non mi rendo conto perché nessuno vi abbia pensato. Ah, quanto vorrei trovarmi faccia a faccia con Sua Maestà Umberto I e sentire cosa ne pensa, personalmente lui, in proposito!...”.
“... Ma, scusi, lei parla di situazioni e di rimedi che rispecchiano proprio quelli della mia epoca… tali e quali…” - osservo, soprapensiero. Il mio interlocutore mi guarda con curiosità, non rendendosi conto di ciò che ho inteso dire.
“… E di quest’epoca, infatti sto parlando… - ribadisce - ... Di quale epoca vuole che parli?...”.
“Certo, certo... - concordo frettolosamente, non volendo ingolfarmi in spiegazioni che non so dare -… della nostra epoca, si, di questa, insomma!...”.
“Appunto… - riprende l’uomo, con serietà - ... E poi la pesca! Forse è l’unico settore che pare funzioni. In fondo è di questa che vive in buona parte la nostra città, malgrado i balzelli che la soffocano. Però se non verrà regolata come si deve, così come in massima parte viene praticata e col mare inquinato che ci ritroviamo, è un settore, che, perdurando tale stato di cose, o prima o poi, penso, ha tutte le premesse per andarsene in estinzione. Prova ne sia l’attuale penuria di pesce, laddove una volta era abbondantissimo. E qui mi fermo su questo argomento. L’artigianato, inoltre, per quanto artisticamente di livello, non è un settore sistematico che possa assicurare una produzione a getto continuo. Gli artigiani non mancano e sono anche bravi; quella che manca è, forse, la concezione a carattere industriale del problema. Veder grande, insomma. I risultati ottenuti, pertanto, non si dimostrano sufficienti a sostenere il mercato. Quindi, non ci si può contar molto, perché non rende abbastanza da lasciar vivere con tranquillità. E così arriviamo al commercio. Questa branca, infine, è quella che forse dà più affidamento; nel mio ramo, in particolare, diventa una pubblica necessità etica, a parte che fisica. Sappiamo tutti che ognuno ha bisogno di vestirsi, per ripararsi dal freddo in primis. In più, considerando il genere dell’articolo da me trattato, debbo dire, e non si può non convenirne con me, che proprio il cappello rappresenta un oggetto di distinzione, un orpello, che, oltre a riparare, abbellisce l’intero capo di vestiario indossato; in un concetto: è l’emblema della personale dignità! Ecco, la dignità! A cui ciascuno di noi tiene moltissimo, a ragione, e non può che essere così. Come vede, caro signore, il sito non offre altre alternative. Sì, questo è un paese bellissimo e, se mi consente, anche caratteristico. Né credo che abbia l’uguale nel mondo. Pensi un po’ a questa rupe immane che lo sovrasta. Ne ha mai vista una simile? E poi, mi creda, sono certo che il futuro sviluppo di questo centro debba necessariamente prender le mosse dall’amenità dei luoghi. Una risorsa ineludibile! Cicerone pare che abbia definita questa città urbs placentissima, lui o forse chissà quale altro. E questo è il pregio che bisogna sfruttare con sagacia e con intelligente e razionale programmazione. Se si riuscirà ad agganciarla al turismo, il giuoco è fatto: il suo avvenire economico sarà assicurato. Ma non un turismo dozzinale, confusionario, inquinante: quello delle carte sporche sparpagliate un poʹ dovunque a fine gita, per intenderci. Bensì quello scelto, fine, elegante e silenzioso. Solo questo qualificherebbe e remunererebbe la nostra città… A lei forse sembrerà che io non parli come un cappelliere e che parli troppo, ma il fatto è che io mi ritengo un lungimirante e, non potendo far altro, attesa la nequizia dei tempi, mi appiglio alla fantasìa. Ma ho la certezza che i miei discendenti mi daranno ragione…”.
“Perché, oggi non c’è turismo qui?” - chiedo, cambiando rapidamente un feltro marrone con uno nero e ponendo ancora mente al fatto che questo venditore di cappelli, l’ho notato prima, cita come problemi della sua epoca quelli che sono una peculiarità della nostra attuale. E poi, quale mai mare inquinato, mi chiedo, poteva esserci nell’ ʹ800, se veramente per un caso imponderabile io mi trovi in quell’epoca, con l’assenza dei motori a nafta delle navi a, con l’assenza di petroliere, di scarichi incontrollati e di quant’altro? E poi, che mai turismo di massa, delle carte sporche poteva esserci allora col popolo che praticamente, parlo della moltitudine dei meno abbienti, moriva letteralmente di fame? Debbo, comunque, ammettere che il cappelliere non è un ignorante.
“Nessuno, caro signore, nessuno… - continua intanto il negoziante - ... Certo, così alla spicciolata, c’è sempre del turismo, anche straniero, se vogliamo. Tempo fa, infatti, è venuto anche un pittore francese famoso: un certo Vuillier, Gaston Charles Vuillier, per la precisione… Ma se n’è dovuto scappare subito perché nella locanda del Piano del Duomo, dov’era alloggiato, pare sia stato assaltato da legioni di mosche... Quelle che qui mancano completamente sono le attrezzature di ricezione adeguate e senza di esse non ci può essere un turismo di elite. Questo è il mio pensiero. Eppure io ho per fermo che il posto si presti, con tutto questo sconfinato verde che dalla Piazza Superiore arriva sino a Santa Lucia…”.
“... La Piazza Superiore?...” - m’informo.
“ Si - spiega paziente l’uomo - ... la cosiddetta Porta Terra o Piazza Garibaldi, come la chiamiamo noi. Giardini e poderi, uno dietro l’altro. E poi una grande spiaggia di rena finissima e un mare cristallino di cui non si vede l’eguale da qui a Palermo, se non oltre. Attualmente, l’ipotetico turista che viene qui non sa dove andare a dormire… Si, ci sono due locande, una nel Piano del Duomo, come le dicevo prima e l’altra qui, accanto alla Piazza Superiore; ma sono locali molto alla buona, privi di comodità e di capienza e, forse, anche di pulizia, le dirò lealmente. E il turista, si sa, quando va a visitare un posto vuole essere alloggiato bene e trattato meglio…”.
“Quanto costa, questo?...” - lo interrompo, maneggiando un cappello di feltro di colore marrone scuro, cinto da un largo nastro di seta nera che confluisce in un largo fiocco.
“Vedo che lei ha buon gusto... - sorride il negoziante - Questo è un Parelli. Glielo posso dare per due lire e sessanta, proprio perché lei mi fà simpatia. Di solito lo vendo a tre lire e, mi creda, non è caro. A Palermo le costerebbe molto di più...”.
“La ringrazio... – convengo - Ma, tornando al discorso di prima… non teme lei che il turismo che auspica, anche d’elite, possa con i suoi inevitabili risvolti negativi, imprescindibili, mutare radicalmente la pace e la struttura di questi luoghi tanto belli cambiando radicalmente in peggio sia il paese che le zone limitrofe?...”.
“No, se saputo programmare… - L’uomo sembra convinto. - Certo, un turismo di massa, come dicevo prima, sregolato, caotico, irresponsabile, sarebbe più un male che un bene; dissacrerebbe la verginità di queste zone. L’edilizia prolificherebbe alla rinfusa e in pochi anni questo territorio non si riconoscerebbe più. Siamo tutti d’accordo su ciò. È chiaro che ci vorrebbe una programmazione seria, razionale, controllata, affidata a gente che ama la città e che sa gestirla e che non sia attirata dalla convenienza, dal nepotismo e dall’avidità del potere e del profitto ad occuparsi della cosa pubblica. Ne abbiamo di elementi validi, mi creda. Bisognerebbe solo convincerli a contrastare quanti tendono con tutte le proprie forze alla poltrona, proprio per le ragioni di opportunità a cui ho alluso prima. Se solo volessero! Il commercio e le altre attività rifiorirebbero, allora! E si potrebbe vivere meglio. Soprattutto a misura d’uomo…”.
Guardo il mio interlocutore con una certa ammirazione. Per quanto sia alla buona, propugna idee precise, moderne, piene di logica e di affetto verso il suo paese, che, seppure in altra dimensione, è anche il mio. A pensarci, mi accorgo ancora una volta che sta stranamente facendo un quadro esemplare della situazione attuale della città.
“Io credo che lei abbia perfettamente ragione...” - ammetto convinto.
“Basta volerle, le cose! - continua il mio interlocutore, soddisfatto della mia approvazione - Vengono quando le si vuole; e se non vengono è perché non le si vuole!...”
“È vero! - concordo ancora. - Apprezzo totalmente le idee che mi ha espresso e la ringrazio per l’amicizia che mi ha dimostrata pur non conoscendomi… tuttavia, tornando al cappello, non posso pagarlo che con questa…” - E, nel dir così, gli allungo la solita banconota da cinquemila lire, reduce del precedente pagamento inevaso.
L’uomo la prende e la osserva attentamente, rivoltandola da un lato e dall’altro; poi mi guarda meravigliato.
“… Cinquemila?... Ma che è questo, denaro?...”.
“Sì, un biglietto da cinquemila lire” confermo.
Il cappelliere scuote la testa, restituendomelo.
“Non ho visto mai tanti soldi tutti in una volta... - confessa - Mi spiace, ma non potrei mai darle il resto… Non ce l’ho...”.
“E, allora, come facciamo?... Non ho spiccioli…”.
L’uomo mi guarda fissamente per alcuni istanti; poi, un sorriso cordiale gli allarga il sembiante.
“Senta… - mi dice - prenda pure il cappello; mi pagherà la prossima volta che verrà…”.
“Ma potrei non ripassare più...” - obietto indeciso, con un occhio particolare alla stranezza di ciò che mi accade: prima il panettiere, il padre e adesso il cappelliere, il figlio.
“Non ha importanza... - continua il negoziante - In questo caso vuol dire che se lo terrà per mio ricordo. Non so perché, è davvero strano, ma mi viene di considerarla come una persona di famiglia…”.
Per avventura i miei occhi vanno sulla strada e mi irrigidisco.
La tizianesca, sinuosa, flessuosa visione turba per il breve spazio di un secondo il mio sguardo, passando; poi scompare.
È ancora lei, fugace e inafferrabile, la misteriosa, evanescente, strana entità femminea, per seguire la quale io mi trovo dove mi trovo, dopo l’improvviso black-out! Non posso, purtroppo, trattenermi oltre, malgrado la simpatia e la cortesia del mio interlocutore. La impellente smania di pedinare quella chioma mi riassale; né posso frenarmi dal farlo.
“Tornerò a riprendere il cappello - pronunzio d’un fiato - Ma adesso, mi scusi, debbo proprio scappare! Grazie di tutto…”.
L’uomo mi guarda, notando la mia insorta agitazione.
“... È passato qualcuno che debbo incontrare...” - spiego, a mò di scusa.
“Lo prenda, comunque, il cappello… - insiste di getto il negoziante - Servirà a ricordarle questo negozio e, forse, il ricordo la indurrà a ritornare. Sa, i casi della vita…”.
“Come vuole… Le resto, comunque, sempre grato…”.
E mi lancio letteralmente nel Corso, risalendolo nell’incerta luce di qualche sparuta fiammella, lasciando il gentile mio casuale interlocutore con una espressione incerta appiccicata sul viso.
Procedendo a passo sostenuto, figgo gli occhi in tutti gli angoli nel tentativo di scorgere quella che cerco. Ma invano. Un gregge di pecore guidato da un pastore (entrambi, certamente, reduci dalla campagna circostante) avanza verso di me, mi circonda e mi isola per alcuni buoni istanti senza permettermi di proseguire. Che odore superbo e rimembrante di lana bagnata, di terra umida e di sterco; salutifero se paragonato ai miasmi esiziali prodotti dagli odierni gas di scarico delle automobili, delle fabbriche e delle montagne di rifiuti ammonticchiati ai margini delle strade. Evito con accortezza una pisciata di mulo che sta attaccato al gancio di pietra che fuoriesce dal muro accanto ad un ingresso e sbuco a “Porta Terra”, o, come diceva il mio amico negoziante, nella “Piazza Superiore”.
Della fluente visione poco prima riintravista, neppure l’ombra.
In girum imus nocte et consumimur igni!
Qui, nella piazza, ci sono quattro lampioni in ferro battuto, deputati alla illuminazione stradale. Altri, radi e dalla luce fievole, si allungano nella via Umberto I e altrettanti nella via Matteotti. Mi accorgo che, quasi al centro, il suolo presenta uno scavo continuo a forma di cunetta. A sinistra, un’artistica fontana zampillante rompe, col crosciare dell’acqua, la monotonia del silenzio vespertino. Qualche sparuto passante transita nel luogo.
Nel momento in cui il mio sguardo panoramica sul sito descritto, un uomo mi sorpassa e si allontana in direzione della via Matteotti, dirigendosi verso la buca. Qui giunto, mette un piede in fallo e scivola, rimanendo a terra e lamentandosi.
Mi precipito a soccorrerlo.
“Sta bene?...” - m’informo, mentre lo prendo per le ascelle e lo aiuto a tirarsi su.
“... Credo di si... - fiata lui e mi osserva -... grazie... grazie... ma... ma io la conosco…”.
Scruto il suo viso nella penombra e ravviso il personaggio: è quegli a cui mi sono rivolto poco prima nella chiesa delle Anime Purganti, durante la cerimonia funebre, per chiedergli delle informazioni.
“Già, è lei! Anch’io la riconosco…” - ammetto. L’uomo si spolvera il vestito, raccatta il cappello che gli è caduto e se lo rimette in testa.
“La ringrazio ancora della sua premura... - mi dice - Per poco non mi rompevo un’anca. E dire che proprio io stavo cadendo in questa buca, proprio io che l’ho fatta aprire!...”.
“Ah, si?... - chiedo, più per educazione che per curiosità - L’ha fatta aprire lei. È architetto?...”.
“No, no: faccio parte del senato della città. Questo saggio serve per individuare l’esatto percorso della esistente fognatura, che è un cunicolo di almeno cinquant’anni fa. È in pessimo stato e fra qualche anno, c’è già il progetto, dovrà essere sostituita con un ampio condotto, moderno, realizzato ad opera d’arte…”.
“Capisco..” - dico.
“Ma… - continua l’uomo - … vorrei poterle essere utile in qualche cosa... se mi è possibile. Lei è stato tanto gentile con me… e poi è forestiero... così mi ha detto, mi pare… no?...”.
“Si... - confermo - Sono forestiero…”.
“Bene! Per caso ha dove dormire o cerca una locanda?...”.
“Veramente no. Sono di passaggio... - preciso - ... e, certamente, ripartirò fra qualche ora... Il tempo di dare un’occhiata in giro, così, per diporto. Non credo di aver bisogno di nulla. Le resto grato dell'offerta, comunque...”.
“Meglio! - approva colui - Senta, se non le sono d’impiccio, l’accompagnerò volentieri per qualche tratto. Veda, è nostra costumanza favorire i forestieri.”.
Non trovo di che obiettare di fronte a tanta cortesia.
C’incamminiamo, scendendo per una via Spinuzza molto fiocamente illuminata da qualche lampione. Qui la vita ferve più intensa che nel Corso. Molte famiglie che abitano nei piani terrani tengono la porta di casa aperta e vivono, praticamente, anche sulla via: ideale prosecuzione dell’habitat familiare. Gli interni che riesco ad intravedere passando, con le pareti imbiancate a calce, ostentano un mobilio per lo più ridotto all’essenziale: un rozzo tavolo al centro dell’ambiente, uno stipo alla parete e i fornelli sul fondo. Tipica disposizione operata dalla comune miseria. Un odore acre e invitante di frittata e di minestra condita con aglio riempie l’aria, balsamizzandola. Qualche carretto, con le spranghe alzate, sta al margine della strada; ed alcuni muli ed asini masticano la paglia che sta sparsa intorno alle loro zampe, sia dentro che fuori casa.
“Vede?... - continua il mio Virgilio - Questa che vive qui è povera gente: contadini ed artigiani. Campano alla giornata e si contentano di poco. Gli abituri che occupano assieme ai loro animali, asini, muli, capre, porci e galline che siano, sono malsani. Forse l’istituto di dare una casa ai meno abbienti verrà in seguito, in un più luminoso e sperabile civile futuro. Noi si fà quel che si può, per aiutarli. Sovente, ripariamo qualche tetto e forniamo loro qualche sacco di farina…”.
“Lodevole iniziativa!” - approvo.
Un profumo di salsedine, una folata, m’inonda le narici. Il clima è mite. Il silenzio è rotto da voci squillanti di pargoli, intenti a giuochi consoni e dal risonare dei nostri passi sul selciato.
Ci troviamo all’altezza del teatro comunale Cicero, che si presenta in uno stato meno precario di come sono abituato a vederlo (si, è vero, per riattarlo c'é in itinere una pratica burocratica in corso, a suo tempo promossa dal Prof. Pietro Saja, ma fino ad oggi il progetto non è andato a buon fine).
Imbocchiamo la via Vittorio Emanuele e ci dirigiamo verso il molo. Mi accorgo che il suolo non è né lastricato, né acciottolato. Molte buche s’aprono nella terra battuta frammista a pietrisco rendendo l’incedere alquanto problematico, soprattutto nelle zone più oscure.
“Qui, invece, abita la corporazione dei pescatori…” - spiega il mio cicerone, quasi a voler fornire una conferma ai miei pensieri impregnati dell'aroma marino. Infatti incontriamo alcuni uomini, a piedi scalzi, che procedono in fila indiana portando sulle spalle, quasi antidiluviano serpente, la rete per pescare. Essi cantano una nenia triste, sottovoce, dichiarato lamento, che scandisce la loro umile fatica. La via sembra più grande di quella che è: forse perché è vuota. Non carri vi stazionano, né animali ruminano foraggi. È illuminata a malapena, come tutto il resto del paese, d’altronde.
All’altezza del lavatoio medievale veniamo fermati da un braccio nudo, scarno e dalla pelle rattrappita, che sbuca dalla penombra, quasi un ectoplasma e si protende, stecchito, verso di noi. A guardar meglio mi accorgo che appartiene ad una misera vecchia che chiede l’elemosina.
“… Buoni cristiani, per le piaghe di nostro Signore, datemi qualcosa da mangiare…” - si lamenta, querula.
Mi sovviene dei pani che porto con me (date e vi sarà dato!) e li porgo alla donna. Ella li guarda con avidità; poi mi sorride, sdentata, con riconoscenza.
“Che siate benedetto!...” - Repentinamente mi afferra la mano, ne rivolge il palmo verso l’alto e ne scruta le linee. Chissà come farà a vedere in questa abissale scurezza. I suoi occhi acquosi si animano di una insospettata vitalità.
“... È strano... - dice osservandone l’epidermide -… È una vita molto lunga, la vostra. Vi vedo ancora nel pieno rigoglio della vostra energia in un tempo molto distante dal nostro… più avanti... È davvero strano!...” - Alza decisamente gli occhi su di me (sembrano due carboni accesi, tanto sono rossi) e li figge nei miei. Un fluido magnetico pare sprigionarsi da essi. Il suo sguardo è intenso, penetrante; mi causa un certo turbamento.
“... È come se viveste due vite!... - continua ancora la vecchia Cassandra - ... Contemporaneamente!...”.
“Ma si! - la interrompe il mio vate - Abbiamo capito! Cerca di bere meno, la sera!”.
E prima ancora che io possa dire qualcosa, mi tira per la manica e mi ritrovo a proseguire al suo seguito.
“Purtroppo, in questo paese… - mi spiega a mò di scusa per il suo gesto improvviso - ... ce ne sono parecchie di vecchie abbandonate così! Senza famiglia! A dire il vero c’è un’ospizio, sorretto dalla pubblica carità e diretto da un sant’uomo che fà del suo meglio per raccoglierle tutte e dar loro un tetto e un pasto. Ma non basta…”.
La piazzetta della marina si allunga su una piccola lingua di scogli affioranti che s’inoltrano per breve tratto nel mare a guisa di molo. Alquanti navigli sono tirati in secco sulla esigua spiaggetta antistante la porta della città sorvegliata da un doganiere.
“... Questo è il Capo Marchiafava... - mi erudisce il mio compagno - il nostro piccolo porto... E questa strada che da qui si diparte e s'inoltra dentro il paese è la via Corte...”.
Risaliamo rapidamente questa via Corte, come la chiama la mia imprevedibile guida, schivando destramente una secchiata d’acqua che viene gettata con improntitudine da una finestra e riguadagniamo il Corso.
A destra, la nota sacra Edicola dell’Ecce Homo mi costringe a fermarmi per ammirarla. La statua del Cristo flagellato è sempre la stessa: più splendida, tuttavia, e meno offesa dai rigori del tempo. La cappelletta che la contiene è, però, diversa: vi manca l’abbellimento delle paraste laterali di marmo e dell’attuale classico bassorilievo d'epoca romana incastonato sul davanzale ai piedi della scultura. Il sacello appare più semplice nelle sue elementari linee imbiancate a calce. Di fronte, là dove le macchine oggi stazionano impunemente in pieno divieto di sosta, malgrado i reclami a chi di dovere, alcune anime devote sono raccolte in preghiera biascicando votive preci: una nenia mormorata.
Sull’Edicola, i balconi del soprastante appartamento, oggi di mia proprietà e relitti eclatanti di ripetuti tamponamenti vetturali, perfettamente integri si protendono protettivamente sulla strada, quasi a voler far da soffitto al simulacro. Un cero è acceso sulla base della nicchia e rischiara la sacra effigie vivificandola con motili ombre allungate. Vedo una piccola bottega, accanto, dove si smerciano cianfrusaglie. Un uomo e una donna, anziani, attendono ad essa. La donna mostra un’espressione assorta mentre snocciola fra le dita i grani del Rosario. Il marito, con gli occhiali a molla sul naso, legge un giornale ripiegato che tiene in mano. Ogni tanto lancia un’occhiata speranzosa fuori, sulla strada, in attesa di qualche cliente. La donna ha un sembiante vagamente familiare.
“Donna Grazzina, buonasera... - la saluta, fermandosi, il mio anfitrione - Come si va?...”.
“Levando tutto ciò che ho, sto bene, grazie…” - risponde la donna. La sua voce è chioccia, ma gradevole.
“Buonasera, Saverio... - saluta l’uomo - Come mai da queste parti, a quest’ora?...”.
“Oh, niente di particolare. Accompagnavo il signore… - e accenna a me - a fare un giro per il paese...”.
“ Perché, è forestiero?...” - chiede il bottegaio, mettendo definitivamente sul banco il giornale che stava leggendo.
“... Si, signor Giovanni. Forestiero è...”.
“ Bè, forestiero…” intervengo io “... si fà per dire... fino a un certo punto...”.
“Che intendete dire?... - mi chiede il signor Giovanni - O siete forestiero o non lo siete. Via di mezzo non ce n’è...”.
“… Debbo dirle, invece, che in questo caso c’è... - sostengo - ... Diciamo che sono nato in questa città... ma... ma che vivo altrove…”.
“Ah, così è?” si incuriosisce il signor Giovanni “E come fate di nome, se è lecito?”
“Maggiore, mi chiamo. Giuseppe, per la precisione...”.
“Maggiore?!... - strabilia il vecchio, mentre la moglie interrompe la sua pia occupazione del Rosario e sgrana gli occhi, anche lei fissandomi all’incerta luce della lampada a petrolio - ... Lo senti, Grazzina?...” - dice rivolgendolesi .
“Ma, allora, siamo parenti... - esclama la vecchia - Anch’io mi chiamo Maggiore...”.
“... Ma guarda il caso!...- fà ancora il vecchio - E poi, Giuseppe!.. Anche tuo fratello…- e ritorna a rivolgersi alla moglie - si chiama Giuseppe!...”.
“… Anch’io ho avuto un nonno che si chiamava Giuseppe…” - dichiaro un poʹ frastornato.
“Ah, si? - indaga ancora il vecchio - E che mestiere faceva?...”.
“Vendeva cappelli…” - comunico.
“Come mio fratello!... - esclama donna Grazzina, meravigliata - Ha un negozio più su, qui, in questo Corso...”.
“... È suo fratello, quel cappelliere?.. - a mia volta mi meraviglio io - Poco fa ci sono passato ed ho comprato questo cappello…” - e le mostro il Parelli che tengo ancora in mano.
“… E, quindi, anche suo nonno si chiamava Giuseppe… - ripete, pensosa, la vecchia - ... ed aveva pure un negozio di cappelli!… È strano... è davvero strano… E, adesso, dice che è morto?...”.
“Si, purtroppo si... e da tempo anche. Sono quasi sessant’anni, ormai…” - dico.
“… E… suo padre, come fà di nome?...” - chiede ancora il vecchio.
“… Antonino… È andato anche lui, purtroppo... sono ormai sei anni… Faceva il medico...”.
“… Il medico?!... La cosa è davvero curiosa… - commenta il signor Giovanni, stupito. Poi interpella la moglie - Tuo fratello Giuseppe, se mai avrà un figlio, va sbandierando a tutti che vuol chiamarlo Antonino e amerebbe che, da grande, facesse il medico!... Non fà che inseguire questa sua fisima…”.
A questo punto l’uomo prende il lume, me lo avvicina al viso e mi osserva meglio; poi si rivolge alla moglie.
“Vedi, Grazzina?... - le dice - … Non ti sembra una fisionomia familiare?...”.
“Si, pare anche a me… - conferma la donna guardandomi - Sicuramente potremmo essere parenti...”.
“Ora che mi ricordo... - mi vien fatto di dire - ... mio padre aveva una zia che si chiamava Grazia e che abitava proprio in questa casa ed era sposata con un tale Giovanni Grammici...”.
Non avessi mai proferito questa battuta! I due vecchi mi guardano stralunati, come se avessi palesato loro chissà quale fantomatica eresia. Rimangono muti per qualche istante; poi l’uomo, quasi sillabando le parole mi dice: “... Io... mi chiamo Giovanni Grammici!...”.
Il buon Saverio, che è rimasto muto durante tutto questo nostro scambio di battute, fra me e i due coniugi negozianti, ora trova modo di dire la sua.
“Vedete com’è strano il caso! A voler combinare le cose come vengono, non ci si riuscirebbe mai! Una situazione, questa, veramente curiosa. Chissà quanti altri casi simili vi saranno nel mondo e noi non ne sappiamo niente. Purtroppo, però, vi dobbiamo lasciare perché il signore… - e addita me - ... stasera stessa dovrà partire…”.
E nel dir così ammicca alla mia volta. Io colgo la palla al balzo e mi profondo in saluti nei riguardi dei miei due anziani interlocutori, che, da parte loro, rimangono a fissarmi con tanto di naso, ancora scioccati dalla stranezza del caso.
Riprendendo a salire nel Corso, poi, Saverio fà qualche commento.
“Non ci fate caso... - mi dice - ...a quei due: sono vecchi, soli, senza figli e debbo confessarvi che sono anche un poʹ partiti di testa… Certo, però, converrete con me che è strano che il marito di quella vostra zia si chiamasse di nome e di cognome come questo negoziante”.
“… Si, non posso negarlo… questa omonimia è davvero strana…” concordo.
Partiti o non partiti, comunque, a me i due vecchi hanno fatto una certa impressione per le coincidenze che sono casualmente emerse.
Il piano del Duomo, illuminato da cento fiammelle, sembra immenso. Il suolo è smattonato e non c'é il marciapiedi. È pieno di gente. Dame di un certo rispetto passeggiano con sussiego al braccio di composti cavalieri, impeccabili nella loro marsina; esse tengono il viso in parte celato dietro un ventaglio di squisita fattura e sotto un ampio cappello di paglia dalle sciabordanti velette, orpelli che ne fanno risaltare l’innata civetteria. Molta gente s’affolla intorno ad un palchetto eretto al centro della piazza, dove un’organizzata banda paesana suona delle classiche arie verdiane.
“È festa?” - chiedo al mio compagno.
“No, per niente” - mi risponde questi - È una costumanza: si fà sempre musica nei giorni pari e la domenica. Ecco… lì c’è una locanda, nel caso vi interessasse…” - e mi addita il grande portone al centro di un fabbricato che delimita la piazza a sinistra.
“No. Sapete già che stasera intendo ripartire. Ancora grazie, comunque...”.
Lasciamo la piazza e ci accingiamo a risalire il Corso.
“La voglio presentare a degli amici…” - mi trattiene l’amico. E così mi fà entrare al Circolo.
Non vedo più le sedie che ornano l’atrio. Nell’interno, numerosi divani e poltrone. Al centro, un lungo tavolo ovale. Seduti su vari scanni, chi leggendo il giornale, chi sommessamente chiacchierando col vicino, vedo molti baffuti signori dalla fisionomia vagamente nota; tuttavia sono degli sconosciuti. Qualcuno, seduto al tavolo oblungo, scrive qualcosa. Altri, all’impiedi, discutono con una certa animazione su un argomento che di primo acchito mi sfugge.
“Un amico forestiero... o forse no!” - declama il mio compagno, additandomi alla curiosità degli astanti e presentandomi. Sguardi pungenti si soffermano sulla mia figura; alcuno più cordiale di un altro.
“Piacere... Catalfamo!” - pronunzia un tizio - “S’accomodi, prego...”.
Mi seggo. Il mio vicino è un uomo bassino, pienotto, anzianotto, dal viso largo e dal sorriso austero; porta un imponente paio di baffi che contribuiscono all'importanza della sua figura.
“Quindi, lei è forestiero? - chiede - E di dov’è?...”.
“Diciamo della provincia...” bleffo.
“Ah, della provincia!... - ripete - Ed è la prima volta che visita questa città?...”.
“Certamente no. Né questa sarà l’ultima…”.
“Ah, bene! È un paese molto ospitale, il nostro… E lei è sposato?...”.
Che cavolo c’entra, questo, non lo capisco.
“Si, sono sposato…”.
“Lo dicevo io che un uomo come lei non può che essere sposato…”.
“Da cosa lo deduce?...” - chiedo mio malgrado.
“Mah, da tanti dettagli… Veda, lei mi pare un tipo posato, il che depone indiscutibilmente a favore di una moglie che lo curi; in più, il suo modo di muoversi è tranquillo, il che fà pensare ad una sua calma interiore che è raggiungibile, secondo me, soltanto nel matrimonio. A questo aggiungo, me ne accorgo adesso, che porta l’anello al dito… e, assieme ad esso, vedo anche un ferma anello, il che dimostra simbolicamente che il matrimonio è più che consolidato…”.
“E lei è pure sposato?...” - chiedo io a mia volta.
“Io, invece, no. E per questo invidio la sua serenità”.
Mi vien fatto di pensare che se continuo a dare ascolto a questa lingua ciarliera, curiosa e logorroica quant’altre mai, il mio transfert epocale avrà lì termine irrimediabilmente. Così, senza dubbi od esitazioni, gli sorrido per convenienza, mi alzo e vado a sedermi sul divano di fronte, lasciando il mio interlocutore con la parola a mezzo labbro, mentre il dibattito nella sala mi sembra diventi generale e i toni aumentano d’intensità.
Il mio nuovo vicino è un signore dalla età indefinibile, fra i cinquanta e i sessant’anni. I tratti del suo viso sono rosei e pronunciati. I capelli, grigi, un poʹ crespi, sono pure separati da una scriminatura. Si rivolge a me con fare cerimonioso, lisciandosi la barbetta.
“… Lei, per caso, è un funzionario inviato in relazione ai lavori di restauro?...” - chiede con l’atteggiamento di chi la sa lunga.
“… Io?... - mi meraviglio - No, no. Mi confonde con un altro…”.
“… Per caso, non è qui in incognito?...” - insiste.
“ Assolutamente no, le ripeto! Perché pensa questo?...”.
“ Il fatto è… - continua quello - ... che il suo modo di osservare le cose, l’ho notato, sa, assomiglia proprio alla maniera di fare dei supervisori… Comunque, son contento di essermi sbagliato; così si può parlare più liberamente… Che ne pensa del nostro teatro?...”.
“… Del teatro?... Quale teatro?...”.
“Mah, quello di Porta Ossuta, no? Quello che a suo tempo decorò il pittore Spagnolo. È l’unico che abbiamo!... Non sente che qui la discussione è incentrata su questo?”.
“Ah, si, quello di Porta Ossuna!... Che vuole che ne pensi… Ho osservato, passando, che il suo stato è meno precario di quello... attuale, si, ma il restauro non è stato ancora realizzato... E se non vi mettono mano al più presto per sistemarlo completamente, continueremo a non poterne usufruire…”.
“… Di quello attuale?... Ma che dice, le sembra malmesso?... Ma se è stato restaurato da pochissimo tempo!...”.
Mi meraviglio - ... “La cosa mi è del tutto nuova… Sapevo che c’era una petizione in corso per il restauro; ma che fosse già stato restaurato!...”.
“Glielo confermo. Ovviamente lei queste cose non può saperle, perché è forestiero. Il locale è nuovo fiammante già da un anno quasi ed è costato una bella spremuta a tutta la comunità!...”.
“Ma no!...”.
“Ma si!”.
“Finalmente!... - concludo - ... Ma, allora, su che si scalmanano quelli?...” - e accenno ai vari oratori che si sopravanzano con la voce l’un l’altro.
“Si sta discutendo, caro amico… - spiega, paziente, il mio interlocutore - ... se sia il caso di affidarne la gestione a terzi o formare un comitato cittadino che se ne occupi. Tutto qui. E, naturalmente, i pareri sono diversi e ancora non ci si è messi d’accordo, come vede…”.
“E lei personalmente, che ne pensa?... - chiedo, più per convenienza interlocutoria che per altro.
“Io personalmente, se proprio vuol sapere il mio modesto parere… - mi risponde quello - … penso che, comunque decidano, la cosa prioritaria è che si inizino le rappresentazioni. Se no, a che serve un teatro, dico io?...”.
“Sono perfettamente d’accordo con lei…” - concordo.
“Ah, ecco! - esclama l’uomo, mutando d’un tratto argomento - Mi permetta di presentarle il nostro presidente!... Del circolo, intendo...” - sorride beato per il prestigio dell'occasione.
Di statura non superiore alla media, asciutto, giovanile nell’aspetto per quanto d’una certa età e con sguardo filtrato da due palpebre costantemente semichiuse che par egli faccia fatica ad alzare, si avvicina a noi e sorride fermandosi.
“Agnello... - mi dice - Antonino Agnello, per servirla...”.
Declino il mio nome presentandomi - “... Piacere...”.
“… Maggiore… Maggiore... È un nome che conosco bene. Abbiamo dei Maggiore, qui, a Cefalù ...”.
“Anch’io conosco degli Agnello, che sono addirittura parenti di mia madre...”.
“Si chiama Agnello, sua madre?”
“ No, Martino...”
“Ah, Martino! Si, abbiamo una buona parentela con i Martino… Ma lei di dov’è, scusi?...”.
“... Bé, a voler dire proprio la verità, sono un vostro conterraneo...”.
“Di Cefalù? E come mai non ci conosciamo? Vive qui, lei?...”.
“Certo che vivo qui... Da quando sono nato!”.
“Ma guarda! - fà il tizio - E non ci siamo mai incontrati! Dal suo modo di vestire capisco che lei è un tipo estroso...”.
“Oddio, mi arrangio...” - faccio io.
“Allora ci conosceremo meglio e diventeremo amici. Recupereremo in futuro… - conclude il presidente del Circolo con un fine sorriso bonario - Una delle più gratificanti prerogative del mio mandato è, appunto, quella che mi consente di conoscere sempre gente nuova, con la quale, o prima o poi, si finisce col fare amicizia. E questo è uno dei piaceri migliori della vita. Non le sembra?...”
“Certo, è così - confermo - ... Ce ne sono, comunque, anche altri… e qualcuno, forse, anche più gratificante...”.
“Di cosa!”.
“Di piaceri, no? Non stiamo parlando di piaceri?”.
“Si, certo... Quale, per esempio?...”.
“La donna, perbacco?...”.
“Ah, su quello siamo senz’altro d’accordo…” - sorride con aria saputa.
“E lei, è qui per lavoro?...” - chiede ancora.
“No, per diporto” - affermo.
“Meglio. Così il suo giudizio su questa nostra patria comune può essere più obbiettivo, perché meno influenzato. Che ne pensa, dunque?”.
“Bellissima! È la mia patria di elezione!...”.
“Ma no!”.
“Ma si!”.
“Una sola cosa, secondo me, nuoce all’urbanesimo…” - continua.
“Quale?...”.
“Tutto questo viavai di carri e d’animali nel paese; ce ne sono tanti nelle vie, specialmente nelle ore di punta. Se ne dovrebbe vietare la circolazione, almeno nel Corso. Il centro storico andrebbe interamente chiuso al traffico…”.
Lo guardo con una certa bonomia.
“E lei non ha ancora visto niente!” - sorrido ironicamente.
“Come sarebbe?... Perché, che dovrei vedere?..” - m’interroga lui.
“Aspetti una settantina d’anni e poi ne chieda a suo nipote”.
“Non capisco cosa vuol dire…”.
“Niente di particolare… - concludo - Solamente che con l’immancabile futuro sviluppo della zona e l’inevitabile corrispondente intensificazione del traffico, questo attuale movimento urbano che lei lamenta fà semplicemente ridere, se mi consente…”.
Rimane soprapensiero per qualche istante.
“… Ah, capisco… - dice e si volta a chiamare qualcuno - ... Vieni, Alfredo, che ti presento questo nuovo amico!... - quindi, rivolto a me e additandomi il nuovo venuto - … Questi è il direttore del giornale locale… Il Corriere”.
“Piacere di conoscerla…” - mi dichiara quest’ultimo. È un uomo sui sessant’anni, varcati trionfalmente. Non porta gli occhiali ed ha i capelli crespi. La complessione è magra e lo sguardo è pio. Il sembiante incline al sorriso, ma segnato da rughe.
“Complimenti!... - dico - Anche un giornale!...”.
“Lo facciamo d’impegno - spiega il direttore - Ci battiamo per una migliore gestione della cosa pubblica locale, non certo per guadagno; il foglio si sostiene con gli abbonamenti. Siamo del parere che con la buona volontà e con la sincerità si possa far molto. Noi diciamo pane al pane e vino al vino. In più, pubblichiamo poesie, recensioni, articoli vari e racconti, su vari argomenti, forniti da molti lettori speranzosi in qualche loro gloria letteraria… Un modo di essere, insomma, un modo di raccontarci... Mi dica, lei, piuttosto, qual è il suo punto di vista sul mio testo La democrazia corporativa?...”.
“… La democrazia corporativa?...” - ripeto, fulminato dalla inattesa domanda alla quale non credo di saper rispondere. Annaspo nel completo vuoto della mia psiche ermeticamente chiusa alla parte politica dello scibile. Diciamocelo francamente pure: non so nemmeno che cos’è.
“Si, appunto!” - conferma, inesorabile, il mio nuovo interlocutore.
“...Veramente non l’ho letto... - farfuglio - ... Però ne ho sentito parlare...” - mento.
Tento l’impossibile per guadagnare tempo, nella speranza che mi venga qualche idea.
“... C’è democrazia e democrazia…” azzardo.
O ignominiosa sprovvedutezza della mia mente, lume senza fiamma, stoppino senza petrolio, vino d’acqua, dolce privo di zucchero, brocca vuota, pozzo asciutto e chissà quanti altri epiteti mi restano da aggiungere! Perché mi tartassi? A che mi vessi? Ahi, lasso me! Perché non ho, io, la poliedrica sfaccettatura della favella d’un Cicerone? D’un Tacito? D’un Livio? D’un Democrito? D’un Seneca? D’un Vitruvio? (chi sia quest’ultimo, o, meglio, cos’abbia mai fatto o scritto, al momento non mi sovviene, quantunque conosca più che bene il nome; ma qui l’ho citato per sciorinare il mio appannaggio culturale, che s’intenda!). D’un Diogene? (E potrei ancora continuare sfacciatamente, tanto l'elenco è inesauribile!). Perché non assomiglio, io, a quegli oratori di chiara fama, che, d’un fiato, san trarsi d’impaccio e svicolare in una nuova posizione di domanda sfuggendo una imbarazzante risposta? Come invidio la logica e l’oratoria di quel grand’uomo di sana memoria, mirabile nell’arte del dire, a cui fu matrice una famiglia d’artisti!
In quella, quasi a trarmi d’impaccio è ancora una volta un ingenuo e istintivo movimento del mio capo. Mi volgo casualmente (ma, forse, a pensarci bene, è un movimento nervoso, voluto od istillato) verso la vetrata che comunica con l’esterno e per la frazione d’un secondo resto abbagliato dalla incerta fugace visione della chioma ondulata, tizianesca, che fluttua armoniosamente dinanzi alla mia vista, sparendo, poi, inesorabilmente, al lato destro della mia inquadratura oculare.
È la mia inconosciuta nemesi che mi “... atterra e suscita...”, “... che m’affanna e che consola...” (per dirla col Manzoni), la mia gradita condanna, la mia eterna spada di Damocle che mi sovrasta abbindolandomi nel vortice delle sue melliflue circee spire!
Sento una molla pungente ed impellente che mi scuote e mi spinge, come prima. Non riesco a star fermo ulteriormente.
“Ho motivo di scusarmi... - prorompo, scattando all’impiedi - Ho da interloquire con una persona che è appena passata… Debbo necessariamente privarmi dell’interesse di conversare con esso voi… C’incontreremo sicuramente un’altra volta. Buonasera a tutti…”.
Li lascio di stucco e, in maniera poco consona, lo riconosco, si, mi eclisso, immettendomi, di getto, nel Corso.
Si, effettivamente ad una cinquantina di metri da me, allo scialbo chiarore di alcune fumose luci, riscorgo la fluente chioma con tutti gli attributi sottostanti. Ma non è che un istante. L’immagine, come a far perdere le proprie tracce (ma non sa affatto che io la sto seguendo, come la preda, il cacciatore, almeno credo!), guizza, misteriosa e scompare in una via laterale: l’ormai abusata strada del baronaggio, quella nel cui nobiliare portone avevo all’inizio visto sparire questa chioma, origine della mia insensata ricerca.
Sostanzio il mio incedere, mettendomi quasi a correre e, d’un subito, raggiungo l’imboccatura della detta via. Nella piazzetta attigua le braci rosseggianti di fuoco, ormai senza fiamma, si consumano con qualche flebile crepitìo.
Mi inabisso nel buio più fitto della piccola arteria discendente e sono necessariamente costretto a rallentare l’andatura per evitare di andare a sbattere contro qualcosa. Nessun lume (strano!) è qui deputato all’illuminazione viaria; soltanto il flebile chiarore di una fiammella votiva ad olio si dibatte dinanzi ad una piccola edicola che si protende dallo spigolo di un muro. Non vedo anima viva, né recepisco rumore di passi; non luce proveniente dagli abituri. Tutto è silente e amorfo; il tempo pare essersi fermato.
Guidato più dall’istinto che dalla vista, mi trovo, non so nemmeno io come, dinanzi al gran portone, maestoso, che segnò l’incipit delle mie presenti traversìe.
Perché sono ritornato qua? Alle origini del fatto? Cosa mi attira? Che vado cercando? Evidentemente c’è un motivo ben preciso, tuttavia a me celato. Forse ciò che inspiegabilmente mi attira debbo ricercarlo al piano superiore. Chi è la rossa e perché mi sono incaponito a seguirla? Sarà il mistero della vita che ci affascina e allo stesso tempo ci atterrisce; che, senza palesarci il perché, ci sospinge ora in un senso, ora nell’altro; che ci induce a prendere decisioni, irrazionali o razionali che siano, le quali, spesso, danno sapore alla nostra sofferta esistenza.
Chi sono, adesso, dove mi trovo e dove sto andando? Mi ripeto continuamente. Non lo so nemmeno io! Ritorno indietro o continuo? Demordo od insisto?
Mi decido e, a tentoni, metto risolutamene il piede sul primo gradino della conosciuta scala di pietra. Non è più possibile fermarsi: ora bisogna inesorabilmente procedere! E sapere! E tentare di risolvere i dubbi e i conseguenti dilemmi!
Un bagliore improvviso mi abbacina gli occhi e fà sì che io non ci veda più per qualche istante e sia costretto a comprimermeli con le mani, tanto è intenso e vivido. Una voce roca, maschile, mi perviene durante la mia momentanea cecità.
“È ancora qui?...”.
Apro gli occhi a fatica e, appena posso, giro lo sguardo intorno a me. Tutto mi appare come era prima del black-out.
La luce è tornata! Di colpo! D’incanto!
Accanto a me, seduto sempre sulla solita sedia, scorgo il personaggio melenso di prima. Sembra ammiccare col suo incerto sorriso sardonico. Evidentemente non se ne è mosso durante l'intero black-aut; ma non mi pare così attempato e macilento come m’è apparso al primo impatto.
Rimango a fissarlo, in silenzio, soprapensiero. Non so se rispondergli e cosa. Poi, le mie labbra si muovono senza volontà e, come se fosse un altro a parlare, recepisco il suono della mia voce.
“… Sì… - fiato, a fatica… - sono ancora qui...”.
“Sempre cercando quella persona?” - il suo tono è volutamente ironico, ora. Mi pare che voglia sfottermi.
“E anche quando?!” - rispondo, piccato.
“Lei perde il suo tempo ad inseguire i fantasmi... Vediamo, voglio aiutarla, se mi è possibile: com’era questa tizia che lei sostiene di aver visto entrare qua?... Forse la conosco...”.
“... Alta quanto me... rossa di capelli, slanciata...con un bel corpo... giovane... La conosce?...”
“Indossava i pantaloni o la gonna?...”.
“La gonna... una gonna verde, lunga, allacciata ai fianchi con dei nastri neri... La conosce?...”.
“... Forse... Lei m’ha fatto il quadro della signorina Sylvia...”.
“...Sylvia, chi?...”.
“Sylvia Marino, la figlia della signora Irene, la camiciaia che abita qui, al primo piano...”.
“Allora, l’ha vista entrare, poco fa?...”.
“No. Non l’ho vista entrare per niente... È morta che non son neanche sei mesi, in un incidente d'auto... Sylvia... Sua madre non se n’é ancora consolata...”.
Resto muto per alcuni buoni secondi fissando il mio interlocutore.
Sono disorientato, perplesso. Non credo agli ectoplasmi, non vi ho mai creduto. Forse costui vuole prendermi in giro. Ma a che scopo? Non ne vedo il motivo. No, non è più il caso di continuare la mia vana ricerca. E poi, che senso ha? Non ho una meta sicura. Non ho certezza di arrivarvi. Ho inseguito l’assurdo. L’inconsistente. Un’ombra. Poi mi sblocco.
“... Credo di aver sbagliato porta... - pronunzio - ... mi scusi...”.
Così ritorno sulla strada. Adesso la via è normalmente illuminata; riguadagno il Corso, anch’esso pieno di luce e di gente, come sempre. Gente che va, gente che viene. Non più botteghe emergenti dalla penombra atavica ai due lati della strada, bensì negozi scintillanti di vetrerie e risplendenti di luci al neon. Le botteghe del fornaio e del cappellaio sono entrambe sparite per lasciare il posto ad odierni esercizi commerciali di confezioni e di giocattoli. Non più buchi o cunette deturpano la Piazza Garibaldi. Tutto è rientrato nella più usuale conosciuta normalità. Il consueto muoversi delle persone, la confusione, il passeggio!
Un volto mi sorride fra la folla. È una gradevole fisionomia femminile nota; ma non ricordo chi sia: ha i capelli lunghi, sciolti sulle spalle, emananti bagliori tizianeschi… La visione dura un attimo; poi è sommersa da mille altre visioni…
“Ma dove sei stato sino ad ora?” - La voce di Martinazzi viene a scuotere il mio torpore. Mi volto a guardarlo, quasi grato dell’incontro e della battuta che mi riconciliano col reale e mi riportano nel mio tempo e fra i miei amici. Accanto a lui scorgo Giovanni.
“Ti abbiamo cercato per tutta la sera!” - assicura quest’ultimo.
“E io ho cercato voi! - rispondo - E, come vedete, vi ho finalmente trovato.”.
“Io non ci speravo più…” - continua Giovanni; poi, il suo sguardo s’affissa sulla mia mano destra - “… Ah, ti sei comprato un cappello?... - dice, osservando il feltro - Ecco perché sei sparito come un fantasma!...”.
Mi ero completamente scordato del cappello. Lo guardo anch’io, come se lo vedessi per la prima volta. Infatti lo tengo ancora in mano; non so proprio come non si sia dissolto pure lui assieme alla fantasia in cui ero rimasto immerso. Qualcosa di veramente strano. Di inspiegabile.
“Sì, ho comprato un cappello, vi piace?...” - e lo mostro agli amici, non sapendo che dire.
“Ma che marca è?...” - chiede Martinazzi.
“Un Parelli...” - spiego io, rivoltandolo e facendone vedere l’etichetta.
“Un Parelli?...” - fà Giovanni, osservando il copricapo con attenzione - “Il cappello è buono, è di feltro. Ma questa marca non l’ho mai sentita nominare; e sì che di cappelli io me ne intendo…”.
“No, io la conosco... - informa Martinazzi - È una marca antica, dell’ottocento: una fabbrica a suo tempo molto importante, ma che poi è stata chiusa ai primi di questo secolo. Lo so perché anche mio nonno aveva un Parelli e se ne vantava spesso raccontandomene la storia…”.
“E dove l’hai comprato?... - mi chiede ancora mio cugino - ... Oggi di questi non se ne trovano più…”.
“… No, a dire il vero non l’ho comprato. Me l’ha regalato un parente. L’aveva in casa e non sapeva che farsene; così me l’ha dato…”.
“Allora sei stato in visita, stasera?...” - chiede Giovanni.
“Sì, sono stato da uno zio… - confermo - ... Una visita che ho sempre rimandato, ma alla quale oggi non mi son più potuto sottrarre…”.
“E ti ha fatto questo regalo?... - insiste, ironico, l’amico Giovanni, con una certa incredulità nella voce - Siamo sicuri che il cappello te l’ha regalato lui e non una bella ragazza? Eh?...”.
“… Ma che vai dicendo! Certo che me l’ha regalato lui! Che motivo avrei di dire una cosa per un’altra!..” - mi accaloro io.
“Comunque, ti ha fatto un bel regalo...” - conclude Martinazzi.
“Su questo non c’è dubbio!” - assentisco io.
Un guizzo malizioso serpeggia negli occhi di Giovanni. Mi si avvicina confidenzialmente e mi sussurra all’orecchio:
“Ma chi è quella rossa che è appena passata e che tu hai guardato con tanto interesse?... Eh?”.
Cefalù, autunno 1989. Giuseppe Maggiore
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Le due immagini della Chiesa delle Anime Purganti e dell'ingresso del Teatro Cominale sono tratte da: Cefalù di Vincenzo Consolo e Giuseppe Leone, 1999, Bruno Leopardi Editore.
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