11 Aprile 2015, 15:24 - Giuseppe Maggiore [suoi interventi e commenti] |
"EGLOGA"
("...est deus in nobis, agitante calescimus illo..." Ovidio -- C'è un dio in noi e ci scaldiamo perché lui ci agita)
Avevo scritto nel Luglio del 2008, e mai pubblicate, alcune circoscritte considerazioni sull'opera di Margherita Neri Novi; e, specificatamente, sulla sua silloge lirica dal titolo "La me terra", allora emersa dal mare culturale grondante di premi.
Fotografia di Leo Ruvituso
Il mio testo aveva assunto la semplice forma di una lettera inviata alla poetessa in risposta al gradito suo dono del libro.
Oggi, mutato avviso circa la mia precedente intenzione di riservatezza, qui lo ripropongo, convinto della sua validità, alla luce dei molteplici altri successi conseguiti dall'Autrice.
In esso cerco, ancora una volta, di sceverare un rompicapo che non ha mancato mai di assillarmi; così com'io credo che abbia assillato e che assilli personaggi di gran lunga maggiori di me, per merito e personalità, nella storia dell'inesorabile fluire del tempo: il concetto del sentimento artistico, cioè, mirato nella sua genesi e nei suoi collaterali effetti.
Mi voglio dare al saggio, qui, brevissimo, comunque; se ci riesco.
E, per seguire tale intendimento e per saggiarne prerogative e potenzialità, non mi resta che focalizzare il problema della ricerca attraverso le opere di personaggi che, indiscutibilmente, si sono elevati dalla massa, spiccando per un loro individuale intrinseco valore.
Così facendo mi sembra di seguire (immeritatamente, s'intende) le orme di Plutarco e (se vogliamo, col dovuto distinguo, riferirci ad un autore più recente, contemporaneo e concittadino) anche del nostro Angelo Sciortino; il quale, qualche anno fa, aveva cominciato un pregevole discorso sui maggiorenti spiriti (o, almeno, su quelli che a lui sembravano tali) di questo nostro habitat culturale, per più versi consistente, iniziativa proficua poi caduta nell'oblìo per motivi che sfuggono alla mia specifica conoscenza.
Esaurito ciò, licenziato a mo' di preambolo, mi si consenta qualche semplice nota deduttiva, seppure tendente al filosofico.
L'arte è, o dovrebbe essere (ragionandoci su ed interpretando così a naso, da quel semplice parvenu che sono io) la visione del circostante filtrata attraverso l'emozione dell'esternazione di sé e del proprio humus interiore; emozione protesa al raggiungimento di un lirismo sincero attraverso metafore, parafrasi, stilemi, sillogismi, neologismi, giri di frase e quant'altro.
L'arte è il mezzo salvifico (salvifico per ogni monade) che, mimetizzandosi, ci consente di rivelarci.
Essendo, quindi, una finestra aperta sul nostro più recondito animo, che vorrebbe rivelarsi ed allo stesso tempo non apparire e nascondersi, e ciò per timidezza, per pudore, per riservatezza o che so io, risulta un supporto sostenitore di grandissimi valore e sostanza.
Appare falsamente una labile "coincidentia oppositorum", per dirla con i Latini, la voglia di esternarsi ed il suo esatto contrario; ma, in realtà, questa tendenza rappresenta il più intimo anelito dell'essere umano di palesarsi per essere compreso e sentirsi parte integrante di una comunità spirituale nel quale ambito sostanziare il proprio coraggio per procedere nell'insidioso cammino esistenziale.
Ma il mostrare, senza mostrarsi, il celare senza celarsi, il confidare senza svelarsi (sembra un giuoco di parole, ma, se si va all'essenza del costrutto, non lo è), sono i presupposti di una dialettica comportamentale che è propria di una particolare sfaccettatura del proprio bagaglio vitale.
Qui, il discorso, mi pare rifarsi un po' al concetto formulato da Sciascia nel suo "L'affaire Moro": il dire senza dire, l'adombrare la verità col silenzio.
Continuando: è una "spalla" liberatoria, insomma, l'arte, appoggiandoci alla quale esuliamo dall'ambito della nostra precarietà umana ed intellettuale e, attraverso la creatività usciamo dal "guscio" allo "scoperto" per affrancarci dalla sconfinata solitudine del nostro più profondo "io".
Ancora: è il nostro latte materno che ci corrobora, ci aiuta, ci sostiene, ci consola e ci fà librare nello spazio cosmico del pensiero. Evolve il nostro sentimento raffinandolo e rendendolo indelebile.
In buona sostanza, l'arte è un deterrente contro la nostra atavica paura dell'ignoto; quindi, è il tramite mediatico che ci consente di esternare il nostro entroterra emotivo, che ci sostiene e che ci affranca dalle lacune caratteriali.
E tale processo di rigenerazione che favorisce una globale catarsi intimale avviene quando la linfa del nostro sentimento coatto che anela ad uscire, ad esternarsi, a connotarsi, prendendo finalmente coscienza di sé, tracima la soglia della naturale ritrosìa dilagando, prorompente, nella dimensione del rapporto con l'esterno.
Voglio ripetermi: credo fermamente che l'arte sia tutto ciò, vuoi che si estrinsechi in immagini, in scrittura, in musica o in qualsiasi altra forma espressiva concepibile.
L'avevo culturalmente conosciuta, la Nostra, in occasione di un convegno dell'Auser, al Mandralisca, proprio nel 2008; e, appunto, in quell'occasione mi aveva regalato quel suo libro, connotato da una preziosa dedica.
Ed io l'ho letto. Tutto d'un fiato, per usare una frase fatta; o, per meglio dire: è l'assunto che s'è fatto gustare di volata, da me.
L'interesse è venuto da sé, spontaneo, impremeditatamente, senza un mio particolare impegno. Così come mi capita sempre quando ho modo di accostarmi ad una nuova lettura o visione d'un'opera che solleciti in modo particolare la mia attenzione.
Ed appena ho cominciato ad addentrarmi nel contesto della prima lirica (che, come intestazione, porta, poi, il titolo del volume) mi sono reso subito conto di trovarmi in presenza di una sensibilità e di una padronanza del verso, dello stile, del ritmo e della metrica, degne di ogni notazione:
"La me terra"! Scritto in puro vernacolo nostrano da Margherita Neri Novi.
Siciliana, lei, siciliano l'idioma. Il carisma che ne deriva è più immediato. Più coinvolgente. Raggiunge l'animo estemporaneamente. Lo conquista. Lo amalgama col suo. Lo completa, direi. Parte dal sentimento ed al sentimento approda con rapidità telematica. Supera ogni spazio del pensiero ed affascina.
Nel testo ho ritrovato il sapore della mia realtà, seppure con le innegabili dovute differenze:
l'inesorabile trascorrere del tempo ("...fugit irreparabile tempus!..."), l'implacabile estinguersi delle illusioni delle ore felici che hanno infiorato la giovinezza ed il permanere delle tristezze di quelle amare che l'hanno vessata ma temprata; l'attonita osservazione della natura, prima fonte ispiratrice dell'arte, del cielo con i suoi astri, della terra con le sue messi, con i suoi frutti, con i suoi incantevoli paesaggi, con le sue recondite contrade, col suo mare, con i molteplici accadimenti della quotidianità; l'estatica contemplazione delle cose che mutano nel tempo e lasciano un ricordo che è anche malinconìa del perduto (e qui mi sovviene Proust con la sua "Recherche"), di ciò che si è stati e che è stato, di ciò che si è amato e che inevitabilmente ha forgiato il nostro spirito; e le rimembranze dei familiari affetti che ci legano alla nostalgìa del passato nella inesorabilità di un'esistenza che prelude irreversibilmente all'annullamento fisico (un salto nel buio); e le sensazioni ed i pensieri che si dissolvono nella girandola ricorrente (quasi una "dissolvenza incrociata") delle infinite spirali dell'essere.
Ciò mi ha coinvolto nel testo della Neri Novi: questo magma di ricordi, di sentimenti e di intendimenti, questi quadretti di episodi esemplari, corroborati da una profonda fede nella unicità del Divino nella quale il dubbio naufraga per la speranza della rigenerazione.
In fondo le stagioni umane ricalcano un po' tutte le stesse impronte, secondo la percezione favorita dalla personale sensibilità: in alcuno più sviluppata e più ricettiva, in altri meno.
Tutto scorre (panta rei) scriveva Eraclito, com'é risaputo: ogni cosa si produce, prende corpo e si dilegua; il presente è un attimo effimero ("fiato di vento" l'ha definito un poeta) che subito si tuffa nei meandri del tempo impinguando il passato con altra memoria che in esso viene immagazzinata e catalogata.
Margherita Neri Novi è innegabilmente una sensibile sacerdotessa depositaria di un lirismo in cui il fluido verseggiare scandisce con immediatezza e trasparenza i più riposti moti del sentire; dal verso, attraverso il carisma dell'arte, traluce, infatti, il suo universo ancestrale, il contenuto pudore, la piena coscienza di sé e dei suoi attributi di donna, di moglie e di madre.
Apprezzabile il suo vivere per gli affetti e negli affetti, per i luoghi della memoria, per l'implicita condanna del male nelle sue multiformi manifestazioni, concretizzazioni, sfaccettature.
La sua è un'esperienza artistica concreta che alita e che assimila, che osserva, che si guarda intorno, che recepisce e commenta, senz'ombra di bovarismo né di autocompiacimento o autocommiserazione, che valuta con serena obbiettività il proprio tracciato umano e artistico già in parte percorso ed il suo futuro che deve ancora ulteriormente dispiegarsi.
Giuseppe Maggiore
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