"Immagine e Suono"

Ritratto di Giuseppe Maggiore

1 Marzo 2015, 14:19 - Giuseppe Maggiore   [suoi interventi e commenti]

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"IMMAGINE  e  SUONO"
("Cometa", apologìa del rumore del silenzio)

"sonus geminas mihi circumit auris" Catone.
 -- un rumore mi circonda entrambe le orecchie --

 

Effettivamente noi non siamo più abituati al silenzio.

Frastornati dalla miriade di suoni (rumori, dissonanze, risonanze, voci, accenti, echi) dell'evo moderno, spesso stridenti, spesso rauchi, spesso assordanti (ogni suono connota una sua  particolare provenienza), abbiamo dimenticato l'armonìa del silenzio, la melodia del tacere, l'assenza assoluta dell'udibile elegiaco di provenienza esterna. Abbiamo disimparato ad ascoltare. Non percepiamo più il pulsare ancestrale del pianeta che scandisce il suo ritmico respiro.

Il silenzio in sè, però, gravido di sensazioni, può anche dimostrarsi rumoroso.

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Partiamo da considerazioni generali per approdare alle particolari: dal magnus al parvus.

Che la cinematografia indipendente abbia una sua propria indiscussa valenza ed anche un suo particolare nutrito mercato, seppure specificatamente elettivo, è ormai fuor di dubbio.

Le ribalte, assaltate da orde di documentari, di corti, di lungometraggi, di spots, così come lo furono le legioni romane nella turbolenta Gallia da combattivi guerrieri, si moltiplicano come conigli. Spuntano come funghi. Crescono come l'erba.

È, essa, un organismo produttivo portato avanti senza soldi, ma sostenuto da alti ideali, da passione costante e da indomita determinazione.

Nel campo magmatico del settore cinematografico l' "Indipendente" è il fratello indigente del cinema industriale.

È la panacea degli umili, se si vuole; dove all'aggettivo "umile" va attribuita la più lata accezione fraseologica.

Appunto perché la produzione indipendente è un organizzazione povera (non certo d'idee o di risvolti artistici), che non ha un mercato economico, ma, come assumevo prima, (al 99%) esclusivamente elettivo che si estrinseca mediante passaggi assolutamente gratuiti nell'emittenza privata, in manifestazioni culturali ed in festival del settore (oggi, soprattutto in questi ultimi), ha una maggiore possibilità di spaziare su tematiche che siano più congeniali all'autore che al pubblico e che rivelino squarci introspettivi, espressi con stili inusitati, non proponibili ad una fruizione collettiva.

Questa sua conclamata limitatezza economica, d'altro canto, fà sì che il cinema indipendente favorisca le idee più che le richieste commerciali; ma, come è intuibile, si dimostra propedeutica ad una creazione artistica ampiamente più libera.

Tuttavia la sua ribadita libertà è a sua volta in buona parte condizionata da una più difficile possibilità realizzativa, non potendo avvalersi di mezzi tecnici sofisticati e di maestranze di livello e dovendo adeguare sia le sceneggiature che i metodi di traduzione alle reali possibilità del budget laboriosamente raccolto nello stesso ambito del coacervo operativo.

Si fà, quindi, di necessità virtù e si ricorre all'apporto economico degli amici, coinvolti nell'impresa  e ad attrezzature spesso di fortuna; macchinari che oggi, però, grazie alle possibilità fornite dalla moderna tecnica sia per la ripresa che per il montaggio e gli effetti speciali, rendono il prodotto, seppure proveniente da matrice amatoriale, degno di presentazione.

 

 

Infatti, con l'avvento del VHS prima (il cui sistema analogico rivoluzionò totalmente il settore)  e del digitale dopo, i costi si sono di gran lunga abbattuti e le difficoltà di realizzazione pure, rispetto a quando si girava con la Mdp e con la pellicola.

Così, mentre una volta quanti indulgevano in questo particolare campo si potevano contare sulle punte delle dita di una mano, oggi sono venute fuori tutte quelle voci sommerse che prima erano costrette a stare mute, se non, addirittura, a non esistere.

Dal che ne viene che la massa che ha in mano una camera digitale ed un computer (ripresa e montaggio) abbia la possibilità di esprimere il proprio talento, se ce l'ha.

Premesso ciò, andiamo ad personam: ad Alberto Francesco Culotta e al suo film "Cometa", in relazione alla proiezione di quest'ultimo effettuata lo scorso 25 Febbraio al cinema Di Francesca, alla quale sono stato invitato personalmente dall'autore (bontà sua!).

 

 

Culotta, quindi: "Carneade, chi è costui?", ci si potrebbe chiedere, disquisendone e declinando al presente il verbo di donabbondiana lettura.

Almeno per me, come ho già detto altrove, è spuntato al proscenio meno di un anno fa. Prima non ne avevo mai sentito parlare. L'ho conosciuto professionalmente in occasione della proiezione di un suo corto dall'emblematico titolo "No train", da me apprezzato e del quale in altro intervento ho detto la mia.  

Alberto Francesco Culotta è un ragazzo (ragazzo? Si fà per dire! Giovane, insomma. A trent'anni non si può che essere giovani!)) in gamba, che, come mi è dato di sapere, si è tre anni fa diplomato in regìa presso l'Accademia del Cinema di Bologna.

 

Alberto Francesco Culotta - in piedi a sinistra, Giuseppe Vignieri - in basso, e Nanni Culotta - a destra -
impegnati durante le riprese del film - Fotografia di Cetty Messina

 

Sveglio e sagace osservatore della realtà che lo circonda, egli la ripropone in questa sua fatica creatrice, mediata da una sua originale personalissima poetica.

Ha portato a termine parecchi documentari, corti, spots, videoclip musicali ed un lungometraggio, questo, "Cometa",  realizzati sempre con l'ausilio di appassionati amici e acquistando nel settore indipendente una certa notorietà, che, secondo me, stando ai soli due audiovisivi che ho avuto l'opportunità di visionare ("No train" e "Cometa", appunto), è indiscutibilmente meritata, ancorché su quest'ultimo lavoro le mie perplessità non siano minori dei tributandi consensi.

E poiché il vero regista-autore deve, in buona sostanza, anche essere sceneggiatore, fotografo, scenografo, montatore e quant'altro, prerogative che nel settore l'Indipendente non può mancare di  possedere, seppure in nuce, prima di pronunziare la fatidica parola "motore" che dà l'inizio alla ripresa, chi indulge in tale disciplina dev'essere immancabilmente sostenuto da una ragguardevole forza interiore e da una indomita chiarezza di idee che solo la passione per l'arte può dare.

Ciò perché, attesa la richiamata penuria di mezzi, deve fare un po' tutto lui, facendo fronte a molti problemi; situazione che lo pone in una luce particolare in quanto è l'unico vero responsabile del prodotto finito, sia nel bene che nel male

E Culotta tutte queste prerogative abilitanti, a mio vedere le ha.

Dico di più: la verve che lo supporta, briosa, rutilante, discorsiva, giovanile espressione di un temperamento nel quale l'estemporaneità è il requisito più appariscente (fattori, questi, che io desumo dal  suo modo di porsi, di esprimersi, di interloquire, di licenziare la battuta, di provocare la risata col conseguente consenso del pubblico -- brillante, quando alla riaccensione delle luci in sala alla fine del film, rivolto alla platea bonariamente ha chiesto: "Vi siete, per caso, addormentati?"), è l'elemento catalizzatore di una mentalità aperta, protesa all'assimilazione creativa.

Tutto questo suo modo di essere e di proporsi mi appare, tuttavia, in netto contrasto con l'opera gravosa presentata; certamente frutto di una maturazione esistenziale volutamente concepita secondo i canoni imprescindibili di un certo filone filosofico neoclassico.

Intanto, da notizie acchiappate a volo, da voci di corridoio e da quant'altro, apprendo che "Cometa" (che, fra l'altro, è il nome stereotipato del personaggio chiave immerso in un contesto onirico tutto da interpretare) è stato girato nell'Ottobre del 2013 interamente a Cefalù, che le riprese sono durate una diecina di giorni ma che il lavoro è stato completato solamente un anno dopo, nell'Ottobre del 2014; che la sceneggiatura, ampiamente discussa, rimaneggiata e limata da tutto il gruppo che l'ha presa a cuore e che l'ha portata a termine, consta di sole 11 pagine, che la ricerca per il casting e per le location non ha superato una settimana di impegno e che uno dei tanti set è stato addirittura costruito al teatro comunale Cicero di Cefalù.

Apprendo, anche, che la fotografia, cardine ineludibile di un prodotto cinematografico, è stata curata da Nanni Culotta (a me professionalmente non noto: omonimo, fratello, parente del regista? Non so. Come, d'altronde, non mi sono noti neppure i castelbuonesi interpreti Giuseppe Vignieri e Clelia Cucco, entrambi -- ma, soprattutto, quest'ultima -- in perfetta simbiosi con gli originalissimi ruoli interpretati).

Questa, la struttura. La base d'impianto. Il box di partenza. Le fondamenta dell'opera.

La storia, la trama, la sinòpsi, insomma, scarna se vogliamo e pur dipanata sul filo della introspezione (alla Dostoevskij, alla Drayer, per intenderci), scava in profondità nella particolare realtà dei personaggi immersi in una dimensione specificatamente ancestrale.

Del soggetto in sé, esposto dalle dichiarazioni dell'autore, se n'è parlato ad iòsa. Tanti trafiletti delucidativi sono usciti a destra ed a manca, così non starò qui a ripeterne il contenuto; mi sembrerebbe come pestare l'acqua nel mortaio.

Mi limiterò, solamente, a tracciarne poche brevi linee, le più significative, per radiografare un po' la tematica trattata che propone plurime ramificazioni concettuali: sensibilità al circostante, disattenzione, egoismo; triade di "affetti" (così li chiama Nietzsche) che spesso alterano il sentimento di umanità e di perspicacia negli individui e fà sì che, distratti dal vorticoso tran-tran della vita quotidiana, ci si scordi dell'ambiente, del suo fermentare sonoro, del suo usuale manifestarsi, della vitalità della natura e delle sue molteplici caratteristiche.

Il film, secondo me, dibattendo lo spinoso argomento proposto, vuole auspicare una intima comune presa di coscienza per una rivalutazione della propria sensibilità riportandola ai valori primordiali; focalizzando la intervenuta sordità dell'uomo rispetto al proprio habitat cerca di effettuarne una catarsi.

Tesi originale e sicuramente profonda; difficile da trattare.

In un piccolo paese marino, siciliano, un ragazzo trascorre le sue giornate bighellonando e registrando con una elementare vecchia apparecchiatura i rumori ambientali.

Incline alla fantasia, parla a dei bambini, fra i quali ce n'è uno cieco, spiegando loro come si formano le nuvole ed intessendo racconti sulla loro genesi.

Il crudo epilogo è in carattere con un nichilismo di maniera.

Il film (70 minuti, circa), girato in bianco e nero, autoprodotto, il cui lentissimo scorrere sullo schermo (stile di antonioniana o bergmanniana cadenza), a volte esasperante, è in asse con la vicenda proposta, di primo acchito appare pesante e di non agevole  lettura.

Il montaggio ne configura lo stile.

Opera prima del Nostro, rappresenta un saggio dopo il diploma.

Ha dei precedenti illustri che hanno segnato la storia di un particolare cinema ufficiale; un modo di raccontare che ha privilegiato l'immagine alla parola.

Mi sono venuti in mente, seguendo la proiezione, come possibili precursori della materia i recenti due autori Ciprì e Maresco, riferendomi alla loro trasmissione televisiva "Cinico TV"; o, se vogliamo aggrapparci ai classici riandando ad un'epoca più remota: "Persona" di Bergman, "L'sola nuda" di Kaneto Shindò", "Il tempo si è fermato" di Ermanno Olmi, "Un uomo a metà" di Vittorio De Seta e "Cielo sulla palude" di Augusto Gernina.

Nei lavori citati il dialogo è pressoché bandito ed il dispiegarsi della vicenda è lasciato esclusivamente all'espressività delle inquadrature ed al loro sapiente concatenarsi nel montaggio.

In fondo questa è stata la tecnica dei film muti del passato, nei quali le didascalie rappresentavano un larvale supporto verbale e le note di un pianoforte accompagnavano lo snodarsi della storia; ciò in contrapposizione con molti film americani nei quali non si fà altro che parlare a spron battuto, relegando l'immagine quasi ad un ruolo secondario.

Non bisogna dimenticare, a questo proposito, che il cinema è essenzialmente movimento (Kinemata Graphein), giuoco di piani e campi interdipendenti che si fonda sulle immagini che, necessariamente, debbono essere esplicative dei significati che si vogliono trasmettere alla pubblica attenzione.

Ma questa è storica dissertazione barbosa che tutti conosciamo; e, pertanto, ipso facto, la tralascio.

"Cometa" rappresenta indubbiamente il frutto di una meditata e sofferta ricerca introspettiva che sfocia in una creazione sperimentale, con un soggetto ed un modo di esplicitarlo originalissimi per quanto non agevolmente recepibili, di rottura, quasi una provocazione culturale manifestata contro tutti gli abusati schemi correnti; operazione catartica che presenta i requisiti di un trattato, di un saggio filosofico su un tema esistenziale tanto scottante quanto ineludibile: quello, ripeto, della indifferenza umana, della sordità verso certe fonti, di fronte ad una realtà circostante alla quale ci si è talmente assuefatti da non rilevarne più i precipui caratteri salienti.

Un audiovisivo allogabile alle categoria dei film "d'essai", "underground"; ma nella loro forma più estremizzata e in netto contrasto con il linguaggio cinematografico così come noi comunemente da sempre lo conosciamo.

Il silenzio contrapposto al rumore o rumore esso stesso nella più pura sua essenza.

Il rumore del silenzio! Un concetto che non può non attrarre!

 

 

Ora Alberto, col suo gradevole atteggiamento da filosofo biblico, con la sua indiscussa cultura (da me pure notata nel suo fraseggio, nel suo citare autori vari di acclarato spessore, nel suo abile destreggiarsi nel presentare l'opera, distaccandosene, apparentemente prendendone le distante ma segretamente amandola in quanto figlia della sua creatività), con tutte le sue buone evidenti qualità, non sarà mai (né vuole esserlo!) un autore commerciale (e questo lo ascrivo a suo merito); ma, bisogna pur dirlo per lealtà verso l'opera e l'autore, seguendo questo filone senza che faccia qualche concessione alla logica di comprensione visiva dello spettatore egli rimarrà un isolato, un artista pubblicamente incompreso, seppure stimato dalla intellighenzia, che vive in un mondo onirico tutto suo fatto di reminiscenze, considerazioni, deduzioni e quant'altro.

La singolarità delle sequenze di Cometa, che procedono catellòn catellòne, come si dice, nelle quali gli stessi personaggi permangono in una staticità patologicamente ossessiva proferendo sporadici dialoghi di cui spesso si perde il senso, il montaggio esasperatamente lento, stancante e a volte addirittura inesistente, inducono alla riflessione, si, ma lasciano interdetti.

Assumono la connotazione di quadri.

È, come, appunto, se uno stesse fermo per un bel pezzo dinanzi ad un dipinto ermetico e lo osservasse attentamente senza spostare lo sguardo altrove per sceverarne i sottaciuti significati costruttivi più reconditi che l'hanno determinato, i motivi che hanno indotto l'autore a realizzarlo e le strategìe del disegno intese a trasmettere un'idea, un sentimento, una emozione.

È come se uno si impegnasse in un'analisi certosina per capire, o, anche, solamente per intuire un qualcosa che di primo acchito gli si dimostra astruso: il quadro è sempre là, sempre lo stesso, immoto, fisso, ed il fruitore si lambicca il cervello cercando di perpetrarne il senso.

Quadri da studiare.

Ha ragione Caterina Di Francesca quando dice che il film andrebbe visto più volte, come si conviene ad un lavoro di pensiero, prima di poterne trarre un equanime giudizio.

Oh, intendiamoci: le mie riflessioni non promanano da una concezione assolutistica di stampo ipse dixit. Né sono espresse da una cattedra. Non è neppure da pensarlo! Ma, seguendo la mia etica e il mio modo di valutare, rappresentano l'espressione più sincera e leale del mio gusto rivolta all'opera di un amico al quale vorrei evitare qualche futuro inciampo; per questo  mi permetto di esprimerle da una più che discreta "sottocattedra".

Non è che io non apprezzi la sostanza della tematica del film, che di per sé è interessante, per certi aspetti innovativo ed attuale; tutt'altro. È la forma utilizzata che non mi coinvolge, che non mi attrae, che non mi convince. Una forma non casuale, ma apertamente voluta, che connota lo stile dell'autore e rispecchia un aspetto psicologico del suo carattere.

Porto degli esempi: la lunga persistenza sullo schermo del personaggio dietro il ventaglio o qualcosa di simile (la prima inquadratura del film); la nuvola di vapore acqueo nel recipiente di vetro durante la spiegazione della sua formazione ai bambini (recipiente sul quale la camera indugia oltremodo); l'avanzare prolisso dei due personaggi ritratti in consistente sfocatura; il permanere della nuvola nera, in completa assenza di suono, alla fine del film, tanto da farmi pensare addirittura ad un possibile guasto del proiettore o ad un inceppamento del supporto trasmesso; le sovraesposizioni frequenti e consistenti che connotano un paesaggio apocalittico, da tragedia greca, da cataclisma. E ne potrei citare altri.

Tutto ciò credo che non aiuti la comprensione ed indisponga.

Alberto Culotta durante il seminario parla di piano-sequenza; ma il piano-sequenza presuppone da parte della Mdp un continuo muoversi che la trasporti da un ambiente ad un altro, da un personaggio ad un altro, ininterrottamente, senza stacchi, recependo battute, suoni e rumori ambientali diversi in un continuum creativo di valente effetto. Ma qui, in questo lavoro, i movimenti di macchina sono limitati a qualche brevissima e lentissima panoramica ed a qualche pur breve zoomata.

Il Nostro può bene sostenere che la particolarità del suo film sta nel fatto che, non essendoci una cifra narrativa ben determinata, l'interromperne la visione o l'allontanarsene e ritornare più tardi non pregiudichi affatto la validità della percezione; ma è il risultato della scena nel suo complesso quello che conta.

Ed alla fin fine l'autore non può che esser capito se non attraverso ciò che mostra e non certo attenendoci alle spiegazioni che lo stesso può fornire sull'assunto.

La sua preparazione e la sua personalità di artista eclettico, la sua tendenza alla ricerca filosofica dell'immagine, il suo schema narrativo che lo porta alla radiografia di un comportamento non vengono per niente intaccati da queste mie note. Le sue prerogative escono indenni dalla mia certosina focalizzazione, perché la linfa creativa è personale ed indistruttibile, in quanto parte dell'essenza dell'individuo; né può essere variata.

Cometa, i cui chiaroscuri, il cui lento montaggio, il cui ricercato tono fotografico con le sue penombre, con le sue sovraesposizioni, con i suoi controluce, plasmano un paesaggio crepuscolare (lavoro in cui la parola è sapientemente ridotta al minimo in favore dei suoni, dei rumori ambientali che qui assurgono a specifico filmico), denunzia un sottaciuto senso di inquietudine esistenziale.

L'espressa amarezza del racconto (che rispecchia una condizione sociale forse non debitamente considerata, forse obsoleta e di cui s'é detto, della quale forse non ce ne rendiamo facilmente conto) trova la sua ragion d'essere nella profonda conoscenza della superficialità esistenziale che tarpa le ali della sensibilità agli uomini sostenuti dalle migliori intenzioni.

Culotta dimostra di conoscere bene la materia cinematografica e la grammatica della settima arte. Il suo è un cosciente calarsi nella dimensione del sentimento, analizzandolo; ma confonde le idee la farraginosa sceneggiatura che rende incerte le trame che la intersecano.

 

Cefalù, Marzo 2015.                                                                                                                                                                     Giuseppe Maggiore

Commenti

Ho visto il film Cometa in occasione della prima proiezione al Cinema Di Francesca, il 24 dicembre: dopo qualche giorno ho scritto qualche breve riflessione, una sorta di invito alla visione, che mi fa piacere proporre in questa occasione.

Cometa è un film per certi versi imbarazzante perché non solo parla della difficoltà di noi moderni di affrontare il silenzio e la sua musica, ma fa provare l’ansia del silenzio quando le immagini scorrono senza alcun suono, senza alcuna parola e, dopo una manciata di secondi, si comincia ad avvertire un certo disagio…
Non siamo più preparati ad affrontare il silenzio, che diventa “rumoroso” perché mette di fronte alle “voci di dentro” con cui difficilmente facciamo i conti nella nostra quotidianità frenetica e chiassosa, in cui, il più delle volte, subiamo passivamente rumori e inutili conversazioni da talk show.
E allora Cometa, il protagonista, può certamente apparire strano, perché con i suoi mezzi di fortuna cerca di catturare i suoni, soprattutto quelli dell’acqua e del mare, quelli di una natura che invita all’ascolto vero, profondo e sincero.
È un film costruito sulle sensazioni ma, nello stesso tempo, sulla privazione delle sensazioni. Cometa ha un giovanissimo amico cieco al quale, attraverso un percorso fatto di sinestesie, cerca di far percepire i colori attraverso i suoni, fino al nero…
Bella la dimensione di una realtà attutita, in cui la formazione delle nuvole e la loro creazione ‘in laboratorio’ fa sentire ovattati perché, nella nebbia in cui si entra, i suoni e le immagini giungono sfumati, senza violenza, con delicatezza.
“Un film da abitare” dice Alberto Culotta, e io direi una poesia da abitare e in cui sostare, in cui riappropriarsi di tempi fatti anche di attesa, quell’attesa che non conosciamo più perché proiettati costantemente in un eterno e piatto presente in cui tutto accade qui e ora, consumato nell’attimo di un messaggio o di una chat.
Ed allora è naturale che i dialoghi siano lenti, lentissimi, come i gesti, gli sguardi, i lievi movimenti espressivi, evidenziati ed esaltati dalle inquadrature.
Dialoghi e pause che in qualche momento conducono verso il  teatro dell’assurdo, dove lo spettatore è coinvolto nel tentativo di dipanare i laconici messaggi provenienti dalla dimensione profonda, dalla ricerca di autenticità e dal bisogno silenziosamente urlato di comprensione.

                                                                                                                                        Rosalba Gallà