11 Febbraio 2015, 16:57 - Angelo Sciortino [suoi interventi e commenti] |
Il freddo gelido aveva lasciato le strade del Paese deserte. Non erano ancora le dieci di sera e il corso Ruggero era vuoto. Non passavano neppure automobili né motocicli. Il silenzio era quasi spettrale. Soffiava un forte vento di maestrale, che agitava i lampioni, che finivano, con il loro movimento, con il creare ombre ora piccole e ora grandi, che si riflettevano a terra o sui muri degli edifici. Sembravano, queste ombre, fantasmi neri e avrebbero messo paura a tanti, se soltanto qualcuno avesse voluto avventurarsi in quella tempesta.
Una paura più grande avrebbe avuto chiunque, se avesse incontrato l'ombra che saliva dal Duomo. Era l'ombra imponente di un guerriero, che avanzava senza movimento delle gambe, come se lo reggesse uno strato d'aria, sul quale scivolava senza fatica. Di tanto in tanto si fermava e sembrava guardare le vetrine. Quando riprendeva il suo andare, sollevava la testa e soltanto allora chi avesse guardato avrebbe scoperto che invece degli occhi aveva due fori accesi come di carbone infuocato.
L'ombra percorse tutto il corso Ruggero e da piazza Garibaldi si diresse verso la Rocca. Saliva silenziosamente, restando sempre un'ombra nera, che piano piano sembrò sparire su per l'erta, che conduce verso la cima della Rocca. Nessuno avrebbe più potuto vederla, confusa com'era con il nero buio della notte. Ci fu soltanto un momento in cui qualcuno avrebbe potuto vedere i due carboni ardenti al posto dei suoi occhi. Sarebbe accaduto quando, giunto quasi al tempio di Diana, prima di entrarvi si girò verso il paese e rimase per alcuni minuti a guardare. Questo, però, non accadde, perché in giro non c'era nessuno.
Quando si fece quasi mezzanotte, una fortissima folata di vento fece tremare le porte e le finestre delle abitazioni; per le strade volarono i lampioni e caddero quasi tutti gli alberi; poi si udì come un urlo disumano e infine si spense ogni luce. Nessuno osò aprire le finestre né scendere in strada, per vedere cos'era accaduto. Tutti coloro che erano in possesso del suo numero telefonico provarono a chiamare il Sindaco. Inutilmente, però, perché non c'era linea.
La paura era ormai diventata terrore. I bambini si riunivano accanto ai genitori, che a loro volta non sapevano come dar loro coraggio, perché non riuscivano a darlo a se stessi. D'andare a letto non se ne parlava, perché era scomparsa ogni stanchezza e si viveva soltanto come in attesa di qualche terribile evento.
La vecchia nonna, che quella sera non era andata alla recita del Rosario, esclamò: “Dio vuol punire me e tutti i peccatori di questo paese!” Il figlio e la nuora la guardarono spaventati e tacquero. Ognuno di loro pensò in un attimo al proprio peccato: la moglie al tradimento del marito con il macellaio e il marito al furto del portafogli dimenticato su un tavolo di un bar. Anche i bambini pensarono ai loro peccati: il maschietto pensò alla bugia raccontata e la femminuccia di essersi guardata allo specchio, indossando una sottana della madre.
Non appena ognuno di loro ebbe ricordato ogni peccato, tutti insieme caddero in ginocchio e implorarono il perdono di Dio, promettendo che non avrebbero più peccato.
Lo stesso accadde in tutte le altre case, cosicché l'intero paese cadde in una sorta di crisi mistica, dalla quale sembrava non potersi più liberare. Ovunque erano pianti e strepiti, corpi che si rotolavano per terra o che non rispondevano più all'anima prigioniera. Sembrava che tutto l'abitato si fosse trasformato in una clinica psichiatrica con pazzi furiosi.
Tutto durò più di due ore. Fino a quando, cioè, un sonno profondo non s'impadronì di tutti contemporaneamente. E mentre tutti dormivano, in giro per le strade scorrevano quella già vista e numerose altre ombre. Esse scorrevano veloci e s'incrociavano, ma non facevano nulla per salutarsi. Continuò così fino al mattino, quando le prime luci dell'alba ruppero il buio della notte e i primi raggi di sole riscaldarono l'aria, rendendola più gradevole. Fu a questo punto che tutti gli abitanti si svegliarono e rimasero straniti per le posizioni in cui si ritrovarono: chi a terra su un fianco, chi abbracciato a un congiunto e chi persino dentro la vasca da bagno. A parte ciò, nessuno di essi ricordava che cosa gli era accaduto. Né lo ricordarono, quando furono fuori in strada e lessero uno dei tanti manifesti, tutti uguali, che così recitavano:
QUESTA NOTTE, MENTRE DORMIVATE,
ALCUNE ANIME DEL PASSATO SONO TORNATE IN QUESTO PAESE
E
HANNO PROVVEDUTO A LIBERARVI DALLE IPOCRISIE,
DALLE MISTIFICAZIONI
E
DALLE MENZOGNE.
NON RITROVERETE COLORO CHE VI HANNO INGANNATI
E
DAI QUALI AVRESTE DOVUTO LIBERARVI VOI STESSI.
IL VOSTRO PAESE CORREVA IL RISCHIO DI SPARIRE
PER COLPA DELLA VOSTRA INAZIONE.
PER QUESTA RAGIONE SIAMO DOVUTI INTERVENIRE NOI,
LIBERANDOVI DA UNA FALSA AMMINISTRAZIONE.
ANDATE, PERCIO', E NON PECCATE PIU'.
La gente leggeva e non capiva. Qualcuno consigliò, a questo punto, di recarsi in Municipio per chiedere spiegazioni.
Grande fu la meraviglia dei numerosi cittadini, quando si accorsero che a riceverli erano uomini diversi da coloro che conoscevano. Il Sindaco era un uomo alto e con la barba lunga, ma curata. Dava l'impressione di un vecchio nobile per la sua figura altera, ma non superba, perché mitigata da un sorriso bonario. Le sue parole, poi, incantavano vuoi per la forma elegante e vuoi per la sostanza. “So che volete spiegazioni sul significato dei manifesti affissi in ogni dove. Vi confesso che di spiegazioni non ne ho. Potrei fare qualche ipotesi, ma lascio a voi di farne. Posso assicurarvi che Chi può ogni cosa mi ha incaricato di occupare questa poltrona finché non tornerete in grado di scegliere fra voi stessi qualcuno capace di amministrarvi correttamente. Con quelli che mi hanno preceduto avete sbagliato, come dimostrano le tristi condizioni in cui versa il Paese. Cercherò di rimediare e sono certo che, quando ci sarò riuscito, voi avrete imparato a governarvi da soli. Adesso lasciatemi lavorare. Come vedete sono stati dimezzati i dipendenti comunali e pochi di quelli del passato sono rimasti in servizio. Gli altri sono stati spediti in un luogo da dove non potranno più tornare a far male a Cefalù.”
A un cenno del Sindaco, tutti uscirono e si riversarono nella piazza di fronte alla Cattedrale. Come per incanto, tutti guardarono verso di essa e grande fu la loro meraviglia, quando la figura del Pantocratore vi apparve sul prospetto. Ancora più grande fu la loro timorosa meraviglia, quando essa parlò:
“Questa è l'ultima occasione, che avete avuto per salvarvi. Se non saprete approfittarne, tutto il Paese e il suo splendido territorio sarà affidato ancora una volta all'ultimo sindaco, che avete eletto. Egli, con l'aiuto degli altri, potrà continuare la sua opera di distruzione e darne la colpa ai suoi predecessori. Sappiate, però, che voi e voi soltanto siete i responsabili della distruzione di Cefalù. Andate ai vostri doveri, adesso, e sappiate meritarvi quest'ultima occasione”.
Per incanto, com'era arrivata, la figura del Pantocratore sparì e con essa tutti i cittadini, che si diressero alle loro incombenze.
Fu così che Cefalù si salvò.
- Accedi o registrati per inserire commenti.
- letto 2564 volte
Commenti
Giuseppe Cassata -
CHI CI SALVERA'?
E' NECESSARIO UN MIRACOLO?