Abel Ferrara a Palermo

Ritratto di Totò Testa

2 Dicembre 2014, 14:15 - Totò Testa   [suoi interventi e commenti]

Versione stampabileInvia per email

Ai “Cantieri Culturali alla Zisa”, la sera del 27 novembre 2014.

Abel Ferrara, sessantatre anni, newyorkese del Bronx, origini Italiane, maestro di cinema, anzi no, artista a tutto tondo, cattolico problematico, anzi, no, ateo, anzi, no, buddista.

L’autore di alcune delle più importanti scene di cinema della fine del ‘900 non può essere raccontato nel suo insieme, come Stanley Kubrick, come David Lynch, come Joel ed Ethan Cohen, tutti dotati di una loro irregolare coerenza.

Abel Ferrara, incoerente tra gli incoerenti, irregolare tra gli irregolari, indipendente tra gli indipendenti, può essere solo letto per frammenti e, se mai, riepilogato per emozioni, mai per genere.

Meno che mai può essere circoscritto alla categoria dei registi cinematografici, come disperatamente ha tentato di fare, con brillante inadeguatezza e aggettivi non sempre calibrati, Franco Maresco.

Ferrara, per fortuna, sicuro dei percorsi ardimentosamente già condotti nella complessa cultura americana di un fine-novecento forse non ancora finito, non ha neanche bisogno di schivare le trappole dialettiche che il suo anfitrione (e, grossomodo, collega) continua, forse ivolontariamente a tendergli e, sotto un titolo sbagliato dell’evento (“Abel, Domani a Palermo”), dentro un cinema sbagliato (il “De Seta”), Egli, unico, forse, a poterlo e saperlo fare, inizia un racconto di sé e del suo mondo.

Se si potesse sintetizzare il viaggio emotivo cui Abel ci ha condotti nell’ora della sua presenza, tanto leggera da sembrare “fortuita”, direi: “ironia”.

Ironia di sé, innanzi tutto, della sua esperienza umana di alcolista e tossicodipendente, dove, non a caso egli non pone la minima enfasi sulla vicenda del riscatto e della “guarigione”, quanto, invece, la pone sul racconto della “redenzione dallo spirito attraverso lo spirito” giocando sul doppio significato di “spirit”.

Ironia del sentimento religioso, del cinema d’autore, dell’italianità, dell’essere, in quanto artista, necessariamente anche intellettuale.

D’altra parte, cos’è l’ironia se non l’inoculazione del dubbio felice che può far crollare le più granitiche certezze ed, insieme, la forma più alta di compassione che un uomo possa esprimere nei confronti di un altro essere umano (per esempio, il “suo” Pasolini) e, soprattutto, verso se stesso?

Abel Ferrara si presenta come una sintesi perfetta ed irragionevole di un Bukowski, comunicato “di fresco” nel corpo  e nel sangue di Andy Warol e Patty Smith, ma anche di quel “Jesus”, trascurato per Budda, ma pur sempre assunto in sè nella condivisione delle comuni radici umane.

Questa la chiave di lettura (ironia, quindi compassione, quindi umanità) attraverso la quale, forse, va rivista e riconsiderata l’opera cinematografica di Abel Ferrara, a cominciare da quella scena del “perdono della suora” nel film “Il cattivo tenente” del  1992, dove c’è Carné, c’è Bresson, ci sono soprattutto Bergman e Buñuel, ma forse c’è solo Ferrara e, guarda caso, niente del cinema americano di fine novecento

Il gemito di pentimento del cattivo tenente o si guarda attraverso il filtro dell’ironia, o si giudica come uno dei più grandi infortuni di regia e di recitazione di Ferrara e di un mostro sacro come Harvey Keitel, oppure lo si legge, con Maresco“come uno dei più grandi pezzi di cinema degli ultimi ven’anni”.

Salvo che a considerare che di anni ne sono passati già ventidue e che quella scena è tutt’al più una delle più grandi opere di “anticinema” mai realizzate.

Ciò che Maresco non coglie, o non vuole cogliere, è la differenza tra la “constatazione cinica” del mondo degli ultimi (che è il suo registro) e l’ironia, che permette a Ferrara di mostrare un “Cristo” martoriato e palestrato in mezzo alla navata della chiesa fare delle domande al tenente, laddove questi attenderebbe delle risposte.

Risposte che né il tenente, né Abel Ferrara, né nessun altro avrà mai, perché non c’è nessun Cristo che te le darà, se non le hai di già trovate nel tuo spirito.

L’atteggiamento di quel Cristo è, infatti, proprio quello di dire “che c’entro io se tu sei una schifezza d’uomo?”

Una scena “pesante”, anche se guardata attraverso il filtro dell’ironia, ma , addirittura, intollerabile ai più se guardata su un registro diverso, per esempio quello del cattolicesimo osservante alla Ratzinger.

Secondo wikipedia i film di Ferrara  “narrano storie  religione redenzione  peccato  tradimento   violenza  e sono ambientati in metropoli notturne e infernali”.

Ma la “redenzione” di Ferrara è redenzione dalla redenzione, l’unico peccato è quello che un uomo può commettere contro l’uomo (sé stesso compreso) e l’inferno è nelle città (nel Bronx, come a Napoli) perché non può stare da nessun’altra parte, come la “Palermo senza pasticcerie” della principessa nonna di Marianna Ucrìa.

In Napoli, Napoli, Napoli (altro film di cui abbiamo visto frammenti nella serata al “De Seta”) l’intreccio tra l’approccio documentaristico e il risultato narrativo è descritto in maniera omologa alla scelta del titolo, dove si parte da una prima Napoli raccontata dalle detenute del carcere di Pozzuoli, per poi addentrarsi nella Napoli “teatro” di quei racconti, mentre la terza Napoli è Ferrara stesso, nata e cresciuta con lui nell’inferno parallelo del suo Bronx.

Uno degli sceneggiatori (dovrebbe trattarsi di Maurizio Braucci, se non ricordo male) ha tenuto a sottolineare che, nello scrivere il film, hanno cominciato parlando con la Napoli “benestante”, proprio perché “non si possono capire i poveri - e, quindi, le loro storie di degrado, emarginazione, disagio - se non si conoscono i ricchi”.

Perché? Perché sono i ricchi che fanno i poveri.

Maresco ha risposto a questo affondo con un trailer di “Belluscone” proposto come “umile omaggio al maestro”, ma il suo paragone tra la Napoli di Ferrara e la sua “cinica” Palermo non regge, non è la stessa cosa, come non sono la stessa cosa l’irrisione, che è la presa d’atto dell’emarginazione, e la compassione umana.

Il risultato è che Maresco continua a fare il suo cinema, dove, sì, è vero, può venire fuori un forte carattere “impressionistico”, grazie, anche e soprattutto alla sua capacità di cattura del “genio inconsapevole” dei suoi attori naturali, o di quello consapevolissimo di mostri sacri come Toni Servillo, ma nel suo cinema non c’è né speranza, né redenzione, né spirito.

Ma torniamo allo spirito di Ferrara, ma anche a quello del “suo” Pasolini, indefinito come un punto geometrico (per “definizione” non definibile), eppure capace di generare la retta infinita, che, a sua volta, ruotando intorno a quel punto indefinito secondo infinite direzioni dà luogo allo spazio infinito che è l’universo e, forse è Dio stesso.

Ma cosa c’è oltre l’universo e prima e dopo Dio?

“Meglio non farsi certe domande, altrimenti si esce pazzi”, risponde Ferrara, citando le sue suore del Bronx.

Eppure lo spirito dell’uomo quelle domande non può esimersi dal farle, e il non trovare risposta è, in fondo, la dimostrazione palese della sua stessa esistenza.

Perchè lo spirito è l’unico punto fermo della nostra umanità, ed, in quanto punto, indefinito ed indefinibile, quindi immortale, quindi infinito, quindi eterno, anzi, generatore d’eternità.

A tirar le righe, una serata “gustosa”, anche se non pienamente appagante: un po’ sospesa, un po’ irrisolta, un po’ sopra le righe, in una parola: “spiritosa”.

Grazie Maestro e, alla fine, grazie anche a Franco Maresco di averlo portato a Palermo.

Vorrei chiudere questa piccola “cronaca” con una riflessione di una mia amica di Web che si chiama Cristina Biffi, che riprendo, pari - pari:

“… se davvero esiste la reincarnazione, da qualche parte nel mondo ci potrebbero ancora essere i nostri resti confusi nella polvere, e sassolini, parte di ciò che è rimasto delle nostre lapidi. Camminate piano” .

 

Beh, più o meno Ferrara ha detto le stesse cose.