A proposito di Arte Informale

Ritratto di Giuseppe Maggiore

12 Aprile 2014, 20:40 - Giuseppe Maggiore   [suoi interventi e commenti]

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“A PROPOSITO DI ARTE INFORMALE”
non aetate verum ingenio apiscitur sapientia”  (la sapienza non si acquista con l’età, ma grazie all’indole - Plauto, Trinummus)

di  Giuseppe Maggiore

 

Preambolo minimo:

(Recupero un testo da me scritto tanti anni fa e non ricordo più se pubblicato o meno  sul “Corriere delle Madonie” o altrove, oggi opportunamente rimaneggiato per puro mio divertissement a posteriori; e poiché io mi dichiaro altruista  (non so se effettivamente lo sia) lo elargisco all’altrui fruizione sperando che, nel leggerlo, il lettore sortisca lo stesso piacevole diletto che ho provato io nello scriverlo).

 

Un’opera, frutto dell’ingegno e della fantasia, qualunque essa sia, per essere giudicata, valutata, apprezzata e assimilata, deve, in primo luogo, necessariamente, essere capita; sennò ogni cura nel crearla risulta vana, frutto di inconcludente narcisismo.

Per il che mi chiedo: è arte ogni manifestazione dell’umano pensiero, intesa come sofferta proiezione della visione soggettiva del reale dell’autore?

Oppure è arte soltanto quella particolare soluzione tecnica ed espressiva che di primo acchito desta un elegiaca emozione e che consente una immediata comprensione dell’opera che viene mostrata?

Questi concetti li ho già espressi in precedenti mie disamine?

Sarà! Ma sta di fatto  che quando uno scrive, ripetutamente e a ruota libera, volendo o non volendo, i convincimenti, le frasi, i costrutti mnemonici inevitabilmente restano e ritornano, perché ormai fanno parte di te, del tuo modo di pensare, di vivere, del tuo credo, del tuo personalissimo stile, già radicato ed imperituro; e, naturalmente, uno non se ne ricorda più e così, a volte, si ripete, neppure accorgendosene.

Mi spiego meglio: specifico dell’arte è, dunque, la forma, più che la sostanza o viceversa?  Oppure la maniera, che amalgama ogni espressione?

Mah! Io, proprio, Vi giuro, non lo so. I miei modesti limiti (come credo di averne già accennato in passato, a mò di scusa per le mie continue chilometriche sciorinate), la mia scarsa cultura, la mia caracollante memoria, la mia incerta fantasia (e il Cielo sa che dico il vero e mi danni se non è così!) non mi consentono, spesso e volentieri (per non dire sempre), di pervenire alla comprensione di un’opera informale o astratta che sia che si discosti vistosamente dai parametri, dai modi e dagli stilemi consueti, studiati ed assimilati, impregnati di una certa linfa classicheggiante, più o meno, secondo le moderne vedute, sorpassata.

 

 

Ma cosa “c….!.”  Guarda, guarda un po’ che inqualificabile scherzo mi stava apparecchiando la distrazione! Ero proprio sul punto di lasciarmi sconsideratamente andare a pronunziare un vocabolo disdicevole, dimenticando che è tale;  perché se un consimile epiteto, pur espressivo quant’altri mai e d’effetto, più d’estrazione gergale che di lingua, viene comunemente pronunziato in pubblico o ripetuto in TV, allora appare lecito, simpatico, coinvolgente, non desta titubanze, passa addirittura l’esame della comune cortese accettazione perbenista, ottiene il “pallio”; ma guai a trascriverlo su un pezzo di carta qualsiasi e a darlo in lettura a terzi! Apriti cielo! Si disvela! Scopre la sua equivoca ed infima natura! Diventa espressione discutibile, amorale, sconveniente, turpe, equivoca, inammissibile insomma, quantunque sia perfettamente inserito nel glossario della lingua italiana “Devoto/Oli”!

Per convenienza, pertanto, “pro bono pacis”, per non ingenerare turbamenti a chicchessia passo ad usare il termine “cavolo” che da un punto di vista squisitamente “digestivo” è più “mangereccio”; appare un sinonimo più consono, perbacco, più ammesso!

Però non Vi sembra un pò ipocrita e anacronistico questo dualismo di vedute, questa duplicità di giudizio, questo contrapposto modo d’intendere, questo “gianesco” assunto letterario che licenzia all’unisono due pareri contrari, nettamente all’opposto l’uno dall’altro, pur riferendosi allo stesso vocabolo, a seconda che venga scritto o venga proferito? Non sono, forse, due pesi e due misure? Ecco tutto!

Comunque, a ben guardare, il termine “cavolo” ci guadagna in qualche modo nella sostanza: si differenzia, infatti, dal primo  logos (prudentemente obliterato o, meglio, non espresso affatto e sostituito per opportunità all’ultimo momento, in “zona Cesarini” come si dice) per due  “zz” in meno; ma, in compenso, acquista con fierezza una “ v ”, una “ o ” ed una “ l ” in più. Ha perso qualcosa, si, ma ne ha conquistato altre!!

Cosa che in commercio si configurerebbe con l’abusato aforisma che spartanamente recita: “prendo tre e pago due!” Un certo guadagno, quindi, l’ha avuto!

E riprendendo il discorso, ahimè irregolarmente interrotto qualche periodo fa da questa impremeditata ma estemporanea digressione, indubbiamente casuale, determinata da una più che risibile intemperanza concettuale seppure sgorgata dall’animo o dall’anima come voglia chiamarsi, continuo e dico: ma cosa “cavolo” (si apprezzi la pulizia del vocabolo!) ci vogliono ammannire costoro, questi elevati artisti di queste particolari ed ostentate nuove forme d’arte, con opere che all’insegna di una modernità portata avanti ad oltranza misconoscono tutta la secolare cultura della forma, volutamente rifiutandola ed inneggiando ad uno stile che vorrebbe superare le molteplici possibili insorte perplessità nel comune fruitore?

Così, ritornando al dunque (rafforzativo del precedente “riprendendo il discorso”), al tema dello specifico della presente disamina, insomma, debbo umilmente ammettere che io non deglutisco (per mia incapacità, sia chiaro, e non certamente per una insufficiente valenza degli autori focalizzati) soprattutto quelle opere cosiddette d’avanguardia, variamente catalogate come “astratte, informali, simbolistiche, surrealistiche”, “segniche”, “materiche”, “geometriche”, “dadaistiche”, “fauvistiche”, “puntiformi” e non (per puro spirito di personale sacrificio mi sono imposto di citare alcune delle più conosciute effemeridi oggi imperanti e da molti apprezzate e che già al solo sentirle nominare mi sono indigeste), sia che propugnino altisonanti teorie quali il rifiuto esplicito della raffigurazione di ogni forma e con essa anche la conoscenza razionale che ne deriva, sia che interpretino l’arte in base alla “intenzionalità” dell’artista, sia, infine, che vogliano significare l’avvicinamento e lo scostarsi dalla realtà contingente immergendosi nella ricerca della dimensione pura tramite colori e valori geometrici; espressioni multiple dove la “forma” è intesta esclusivamente come risultato dell’incontro precipuo fra uomo e mondo.

 

        

Jackson Pollock, Alchimia (Alchemy), 1947. Olio, pittura d'alluminio (e smalto?) e spago su tela, cm 114.6 x 221.3, Collezione Peggy Guggenheim, Venezia

 

Alberto Burri, Sacco e Rosso, 1954. Sacco e olio su tela, cm. 86 x 100, Tate Gallery, Londra

 

Piet Mondrian, Grande Composizione A, 1920. Olio su tela, Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma

 

Pertanto, cosa vogliano assumere i maestri delle evidenziate discipline, i vari Fautrier, Wols, Burri, Tàpies, Riopelle, Mondian, Albers, Reggiani, Radice, tanto per citarne alcuni, per me rimane un tangibile rebus.

Né mi sento proclive alla sceverazione d’un contenuto adombrato da ghirigori di linee e di colori, né al dipanamento di un pensiero involuto espresso graficamente in modo confuso, stilemi e tematiche che possano rivelarsi, per me, estrema ipotesi dei motivi profondi, ancestrali e carismatici che abbiano potuto ispirare l’artista (o pseudo tale) a por mano a quel determinato lavoro anziché a tal’altro, connotato in quel dato modo e non in uno diverso.

Ahimè, mi chiedo, in tali frangenti, perché difficoltare la forma eludendo la sostanza? A che adombrare? “Cui prodest?” Perché, invece, non “sic et simpliciter?” Eh?

Ma una spiegazione, per quanto banale, cari amici io me la sono data. Non è che io sia, poi, completamente ottuso, di corto comprendonio, fuori dal mondo, insomma! Qualche sprazzo di intuizione, con buona pace di tutti, mi pare di averlo!

In sostanza credo di aver capito (con difficoltà, è vero, ma alla fine pur ci sono riuscito!) e di poter sostenere che quando ci si è accorti che è difficile riprodurre la realtà onnivora che ci circonda, così com’è, allora “l’artista” avvedutamente accorto, che con maggiore opportunità guarda più al futuro che al passato sottendendo il presente,  ha dirottato le sue tematiche, il suo interesse ed il suo stile in diversa maniera, chiamando questa diversa maniera “arte informale”, “astratta”, dentro le cui branche  confluiscono tutte quelle creazioni con il finale in “ismo”.   

Un po’, se vogliamo, com’è capitato alla “lyrica” moderna col rifiuto della rima che la faceva “poesis”.

E qui mi pare opportuno sfornare un’altra considerazione, che reputo basilare, sulla radice dell’arte.

L’ho esternata tante volte che una in più o una in meno non può  portare nocumento all’andazzo del discorso.

Tale “feto” o “radice”, come voglia chiamarsi, trae origine dall’innata aspirazione dell’essere umano alla sublimazione dello spirito; dall’anelito, cioè, sentito come un’esigenza primaria, irrefrenabile, irredimibile ed impellente, ad elevarsi, a riscattarsi dalla caduca materia per scavalcare la propria finitezza fisica ed assurgere ad una immortalità, seppure illusoria, ma almeno conservata nella memoria che dia in futuro contezza di sé.

E poi, dacchè ci siamo, vogliamo anche spendere un leale giudizio sulla vita, che è il pascolo primo, la greppia colma alla quale si pasce un autore e da cui egli  trae la linfa necessaria che lo porta a tentare di cambiarla con la migliore arma che egli possiede e che è la sua fantasia?

E spendiamolo, questo giudizio! Utile, se la proposizione è volta a fare chiarezza, se la percezione del reale, come accennavo prima, rappresenta il “pabulum animi”!

La vita, ammettiamolo, è un susseguirsi di colpi bassi, mancini, negativi.

L’uomo è vessato dalle mille miserie che continuamente gli elargisce il quotidiano. Egli assiste impotente al graduale continuo inesorabile disfacimento della propria fisicità, deterioramento che, infine, lo conduce all’apoteosi estrema: la morte!

Parlare, pertanto, di una sublime bontà profusa a piene mani nella creazione, ammesso che vi sia stata, mi pare una esagerazione bella e buona. Una rodomontata!

E se così non è, vuol dire che mi sarò sbagliato e mi trincero dietro l’abusato motto: “ai Posteri l’ardua sentenza”.

Ma ecco che ho divagato nuovamente! E’ una manìa congenita, la mia, lo riconosco, quella di incominciare un discorso e di impinguarlo con altri, più o meno attinenti; manìa forse derivata dalle molteplici letture di Hugò, Eco, Balzac, Dumas padre, Dostoevskij, Tolstoj, Freud, Nietzsche e quant’altri, che mi hanno irreversibilmente condizionato e formato.

Ma vai a cambiarla questa tendenza, adesso che mi trovo in quella particolare età nella quale (come asseriva un mio navigato amico) “gli sguardi femminili non arrivano più”.

Pertanto, ritornando all’arte, il fatto si è, cari amici, che io, come apprezzamento pittorico e scultorio, se di pittura e di scultura parliamo, sono rimasto a Michelangelo e a Cimabue, per non dire a Leonardo; e ci aggiungo anche il Pinturicchio, per formare un quartetto, non d’archi ma di pennelli. E, se vogliamo, non sottaccio nemmeno Raffaello Sanzio, tanto per ingrossare il quartetto e farne un quintetto. Pensate un po’, quindi, come mi possa sentire io in presenza di un dipinto o di una scultura che da qualsiasi lato tu la giri capisci sempre la stessa cosa: niente!

L’unico che la capisce a fondo e può spiegarne senza tema di smentita i motivi che l’hanno determinata è indubbiamente l’autore!

E così mi raffiguro come il classico “scarafaggio nella stoppa” (qui lo affermo per i Benpensanti) quando mi trovo, invitato da taluno cui mi sembra scortese dispiacere, a dover dissertare su l’una o l’altra espressione della sensibilità e della creatività umane, esternate secondo la metodologia della forma astratta o informale che sia.

E, recalcitrando come l’asino del non mai abbastanza celebrato Don Abbondio, di sana memoria (e che il Cielo abbia in gloria lui e pure il Manzoni), vorrei che mi fosse fatta grazia, che mi fosse evitato, voglio dire, di bere quel determinato calice.

Purtroppo, invece, no! Sono costretto a vuotarla, quella fatidica coppa, d’un fiato, senza ripensamenti, sino all’ultima goccia, provocandomi usura e disgusto a due palmenti.

Ma ciò, ovviamente (e qui mi attacco all’analessi), non tanto per difetto dell’arista, il quale, attraverso il soggetto e la forma e lo stile, scelti nell’esternare il suo più riposto “humus”, esprime la propria personalità, il proprio gusto, la propria cultura e quant’altro, quanto per l’estrema incompetenza mia (sia di esperto gusto che di doviziosa cultura); chè, a stento, riesco a capire le linee rette e, già, quelle storte mi recano affanno.

Inoltre, per non menare viepiù il can per l’aia, come comunemente si chiosa e volendo sull’argomento spendere una definitiva parola per arrecare un qualche sfogo alla mia contenuta insipienza, insomma, senza ulteriori indugiamenti, raggiri o fronzoli che siano, mi butto a capofitto nella seguente puntualizzazione; brevissima, per non incorrere sia nel tedio dell’ipotetico benevolo lettore che nella altrui comune meritoria sopportazione.

E affermo che l’unico vero compito dell’arte, a mio vedere, dunque, opino, non possa che esser quello deputato a destare un’emozione intellettuale che capti il nostro interesse, che appaghi il nostro spirito nel visionarla, sia che l’opera riproduca la realtà, sempre mediata dalla sensibilità e dalla cultura dell’artista, sia che non la riproduca affatto ma che l’adombri sotto colorite metafore o spoglie che siano, comunque recepibili.

Da questo secondo metodo, da questa seconda forma di esternazione (e lo dico a profitto di quelli ignoranti come me, ove ve ne siano, ma non ci credo) si diparte una particolare maniera, che, a giudizio dell’artista, vorrebbe poter dire tutto, ma che a me, tapino, purtroppo non dice niente: essa nominasi, appunto, arte “informale” (e non “infernale”, beninteso, come taluni scoscenziati assumono di battezzarla), termine che adombra tutte quelle altre da me sopra citate..

E tale assurda, per più versi discutibile, per me negativa opinione trae i natali dal fatto che, soprattutto nella pittura o scultura che sia, alcune opere mostrano certe figure, certi sgorbi, certe variopinte combinazioni di colore, a prima vista policrome seppure irrazionali, che se non fanno uscir di senno l’osservatore nell’affannoso tentativo infruttuoso di sceverarne il recondito significato, per lo meno gli annebbiano le idee gettandolo nel più nero smarrimento psichico e scoramento fisico.

In questo caos mnemonico di colori stratificati, sovrapposti, discontinuamente accoppiati, in questo bailamme primordiale, apocalittico, pregno di motivazioni ancestrali, asfittico, amorfo, eminentemente fuori da ogni realtà artistica palpabile, nel quale le linee, i ghirigori, le parvenze di disegno d’uomini e cose adombrate da macchie e da soluzioni grafiche inconcepibili par che fluttuino in una dimensione da nosocomio di psichiatria irreversibile, si staccano, come cigni in verde stagno, le composizioni piane e ridenti, rasserenanti, di immediata comprensione, almeno per me, dei non mai abbastanza lodati cosiddetti paesaggisti, che il Cielo conservi per la magnificazione delle generazioni future (e anche questa espressione l’ho usata altrove!).

Alea iacta est!

Da tutta questa chiosa precedente, forse fatua e prolissa, impregnata dal convinto preminente sentimento del rigetto, si evince, appare chiaro, emerge indiscutibilmente (si è ormai capito!) che il sottoscritto l’arte, informale, astratta e via dicendo, non l’ha mai capita, digerita, assimilata, eccetera. Né goduta, quindi; e ciò, esclusivamente come si accennava prima, per propria estrema riluttanza in proposito e limitatezza di vedute.

Poste tali cose o, come chiosavano i latini, “”sic stantibus rebus”, nulla si vuol togliere a quanti vi si dedicano facendone oggetto della loro manifestazione più eloquente; e che, per mezzo della quale esprimono il proprio modo di vedere le cose.

Questo io volevo dire e l’ho detto, per rispetto, sia di me stesso (a cui devo molto), che per la natura stessa dell’arte in generale.

 

Cefalù, senza data.                                                                                                                                                                    Giuseppe Maggiore