9 Aprile 2014, 15:37 - Deborah Maranto [suoi interventi e commenti] |
Gli occhi intensi e rassicuranti di Ibrahim e il dolce sorriso di Elisa sono le cose che mi hanno colpito, quando ho avuto il piacere di conoscerli, in occasione della presentazione del loro libro Il deserto negli occhi. Due persone tanto diverse fisicamente, quanto simili umanamente, perché dotate di una ricchezza d'animo ormai rara.
A rendere così emozionante il loro libro è stato l'amore per la libertà, di cui ogni sua pagina è intrisa. L'amore inteso come sentimento nelle sue forme più disparate, l'amore verso la propria terra e la propria cultura, verso la libertà e verso i propri cari. "Il deserto negli occhi " non è soltanto la mera testimonianza di un uomo costretto a emigrare lontano, ma è anche la celebrazione del popolo tuareg, un popolo nomade e libero, abituato ad affrontare le difficoltà della vita del deserto, che conserva radici profonde, che risiedono nelle tradizioni e nella famiglia stessa.
Impossibile è stato, dunque, non affezionarsi al tuareg Ibrahim, un uomo innamorato del deserto, della sua famiglia e della sua professione che, in seguito allo scoppio della ribellione in Niger, è stato costretto ad allontanarsi e a rinunciare ai suoi amori per cercare di costruire altrove un futuro più sicuro per i suoi figli. "Un tuareg lascia la propria terra solo se non ha altra scelta" ed è proprio questa espressione che racchiude tutta la sacralità del sentimento che lega ogni tuareg alle proprie radici, radici che sono profonde, come lo erano quelle del leggendario albero del Teneré, punto di riferimento per innumerevoli viaggiatori nel deserto. E anche per Ibrahim è stato così: egli non ha avuto una valida alternativa. Poteva decidere di restare e di finire in prigione, facendo vivere ai suoi figli il dramma che da ragazzo aveva vissuto egli stesso, quando il padre venne arrestato, oppure poteva partire per l'Italia, lasciando la sua famiglia e la sua terra. Così con la sofferenza di chi pensa di avere perso per sempre quei luoghi, ma con la dignità di chi ha vissuto senza inginocchiarsi mai davanti a nessuno, Ibrahim è arrivato da solo a Pordenone, dove in seguito è stato raggiunto dalla devota moglie e dai figli. Pordenone, che è la capitale dei tuareg in Italia, non è, però , l'Africa e i tuareg non smettono mai di pensare al deserto e alle loro tradizioni, che fra essi sopravvivono, ma che soprattutto riescono a trasmettere ai loro figli, che continuano a essere Tuareg, uomini liberi. .
A rendere il libro ancora più piacevole è la scrittura piana e pregna di alti contenuti di Elisa Cozzarini, che è riuscita con non poca abilità a ricreare l'atmosfera del deserto. Posso assicurarvi che, attraverso la penna di Elisa, con soli pochi euro io nel deserto ci sono stata davvero e con Ibrahim ho attraversato le dune del deserto in groppa ai dromedari, ho dormito all'aperto guardando il cielo stellato, ma soprattutto ho sofferto: prima, per la sua partenza per la quale ho provato tanta nostalgia; dopo, per quei meravigliosi luoghi ormai lontani che, però, continuano a vivere nel cuore del tuareg.
Grazie, quindi, a Ibrahim per aver deciso di condividere la sua storia e per non aver dimenticato mai le sue radici e grazie a Elisa per aver accolto l'invito di Ibrahim, dando voce alla sua emozionante storia.
Mi piacerebbe che in tanti leggessero questo libro, soprattutto coloro i quali ancora oggi guardano con diffidenza a chi appartiene a culture diverse. Forse capirebbero che anche coloro che considerano "diversi" altro non sono che uomini pieni di sogni e speranze, proprio come loro.
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