Per la Sicilia sei progetti in cerca d'autore
13 Gennaio 2010, 14:27 - Staff [suoi interventi e commenti]
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Riconvertirsi o perire. Piccole, medie o grandi imprese, ricerca, innovazione, capacità di competere: la realtà che Start up Italia, la grande inchiesta che Il Sole 24 Ore ha avviato da giovedì scorso, sta portando alla luce è quella di un paese che ricomincia, che riparte e che fa della più impressionante crisi economica e finanziaria degli ultimi ottant'anni un'occasione straordinaria per rialzarsi. Con una doppia consapevolezza: che nulla sarà più come prima e che per anni la ripresa che ci attende sarà pallida e debole.
In questo l'Italia è avvantaggiata, perché noi siamo maestri nell'affrontare l'emergenza e il paese che lavora e che produce è lontano mille miglia ed è infinitamente migliore dell'Italia ufficiale. Tutto vero e tutto giusto ma c'è un però e c'è una verità scomoda che è meglio guardare in faccia e con cui bisogna fare i conti: le tante iniziative dell'Italia che stiamo raccontando e che continueremo a raccontare sono tutte bellissime, scaldano il cuore e accendono le speranze, ma il vero salto di qualità l'Italia lo fa se vince le scommesse proibitive e se risolve i casi-simbolo e i test di frontiera con colpi d'ala al limite dell'impossibile. Uno per tutti: lo stabilimento di Termini Imerese, nato nel '68 come SicilFiat ed entrato a far parte a pieno titolo del gruppo Fiat esattamente quarant'anni fa, è dentro o fuori Start up Italia? Il paese riparte con un grande polo industriale in meno o anche nel Mezzogiorno fare industria e fare impresa è possibile e lo è senza pagare il pizzo e senza imboccare le scorciatoie dell'assistenzialismo?
È questo che fa davvero la differenza, ma diciamo la verità: con o senza la Fiat, oggi l'impianto di Termini Imerese non è in Start up Italia. Ma può ancora entrarci e forse un giorno ci entrerà. Per ora è quasi un sogno o, se volete, una scommessa pensare che in Sicilia, nella regione a più bassa intensità manifatturiera del Mezzogiorno, c'è uno stabilimento industriale di rilevanti dimensioni (1.400 dipendenti che producono in due turni 380 vetture al giorno in un'area di 414mila metri quadrati) che non solo sopravvive alla crisi ma che sta in piedi e va avanti con le sue gambe. Eppure è una partita ancora tutta da giocare, che si può vincere e che non parte da zero.
Diseconomie con cui fare i conti
Della decisione della Fiat di rompere il vaso di Pandora di Termini Imerese si può pensare quel che si vuole ma un merito va riconosciuto a Sergio Marchionne: quello di aver infranto il muro dell'ipocrisia e di aver dato la parola non ai pregiudizi ma ai numeri, sapendo che dietro i calcoli più sofisticati ci sono sempre persone in carne e ossa e che di questo bisogna tener conto. Non è responsabilità dei lavoratori di Termini, di cui tutti riconoscono la qualificazione professionale, ma se produrre l'auto nello stabilimento siciliano costa all'azienda mille euro in più a vettura che produrla nella fabbrica polacca di Tichy il problema c'è e non è nemmeno nuovo. Colpa di un indotto industriale che attorno a Termini non è mai decollato e che obbliga lo stabilimento siciliano a far venire da fuori motori, componentistica elettronica, lamierati. Colpa della logistica e dei trasporti che rendono insostenibili e antieconomici i costi di produzione. E colpa del contesto socio-economico che sta attorno a Termini e che genera diseconomie finora insuperate.
È una realtà sgradevole ma non si può nascondere la testa sotto la sabbia. Del resto, non è la prima volta che il destino di Termini Imerese sale alla ribalta e la Fiat sollevò la questione già negli incontri di Palazzo Chigi nel 2002 quando la casa torinese sembrava sull'orlo del fallimento. Poi alla guida del Lingotto è arrivato Marchionne e ha fatto il miracolo ma nemmeno il vulcanico amministratore delegato della Fiat può moltiplicare pani e pesci. Oggi però una novità, anche se amara, c'è: stavolta non si parlerà dell'emergenza di Termini Imerese per mettersi a posto con la coscienza e poi riporre la pratica nel cassetto, ma per risolverla.
La soluzione non è dietro l'angolo: Torino è pronta a cedere l'impianto anche alla concorrenza (come cambiano i tempi e le filosofie rispetto ai tempi della battaglia per la privatizzazione dell'Alfa...) perché non crede più nella sostenibilità economica dell'auto a Termini. Prima sembrava che a sostituire il Lingotto arrivassero i cinesi, poi gli indiani e da ultimo è affiorato il fondo di private equity Cape Natixis di Simone Cimino con il suo progetto di sunny car: prepariamoci a una raffica di annunci e di colpi di scena tutti da verificare, ma di sicure ci sono solo due cose.
La prima è che la gestione di un impianto del calibro di Termini non si improvvisa e che raggiungere l'equilibrio economico non è un gioco da ragazzi, ma l'altra è che la peggiore delle soluzioni possibili sarebbe quella di tenere in vita lo stabilimento solo artificialmente e cioè con i sussidi, pagati da tutti noi e a fondo perduto, dello stato o della regione Sicilia. Se nell'isola fosse impossibile continuare a produrre auto sotto un altro marchio e senza perdere un mare di soldi, meglio allora sarebbe esplorare la seconda delle ipotesi messe in campo dalla Fiat: la disponibilità di Torino a studiare e a collaborare alla riconversione industriale di Termini per produrre qualcos'altro, che ancora nessuno e nemmeno Marchionne sa cosa sia, ma che può avere futuro solo se sta economicamente in piedi.
Fonte. www.ilsole24ore.com
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