Mandralisca, serata del 20 luglio - Presentazione del CD “Parti del discorso contadino” di Antonio Castelli

ritratto di Pino Lo Presti

Versione stampabile

( testi di G. Saja)

Presentazione del CD di Giuseppe Saja

«L’imprestito grammaticale ha fondi multipli. Parti del discorso contadino; dove le parti sono, sì, le voci e il discorso è il costrutto che esse organizzano, adempiono, ma sono anche e propriamente parti, sì, individui, persone; strutturalmente, biologicamente, i contadini medesimi, tutti».

Con queste parole, Antonio Castelli iniziava la presentazione dei racconti in dialetto castelbuonese ‘raccolti’ dalla viva voce dell’amico contadino Peppe, trasmessi radiofonicamente dalla RAI il 17 maggio del 1978 e pubblicati per la prima volta nel 1998, dopo essere stati precedentemente trascritti e annotati con l’aiuto della moglie Liana di Pace. Essi sono ora nuovamente leggibili, in seguito ad una più attenta revisione dei testi, nel volume Opere, dato alle stampe dall’editore Sciascia. Ma quell’incipit veniva da Castelli postillato, per la versione scritta, da una breve notazione, con la quale il suo autore sottolineava la parzialità della trascrizione, priva del «parlato», della dimensione orale nella quale i racconti erano come riaffiorati e ritornati in vita: «Prego il lettore di non prescindere, leggendo la nota introduttiva e i racconti, così, in trascrizione, in stasi, dal parlato (Questa ricerca fu trasmessa dalla RAI).

- il prof. Tommaso Romano, vicepresedente della Fondazione Buttita, che ha contribuito lla realizzazione del Cd e che ha arricchito la serata con le sue considerazioni e le sue tesimonianze

I racconti aspirano a ricostituirsi come narrativa orale. (A.C.)». Per colmare lo iato tra oralità e scrittura e restituire la genuinità di quella «narrativa orale» si è ritenuto utile riproporre i ‘cunti’, cercando pure di lumeggiare da quali assilli l’operazione di recupero aveva avuto inizio, quale la genesi di quelle registrazioni.

Intorno alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso, Castelli comprende che di un’intera cultura, quella contadina, erano leggibili solo dei frammenti, tessere che non si ricomponevano in unità. Quelle stesse tessere, quei frammenti erano in pericolo, e allora era necessario registrare le voci, le parlate della sua Castelbuono. Lo scrittore chiede aiuto, consiglio ad un uomo che condivideva lo stesso assillo: Antonino Uccello. Alla fine del ’66, Castelli invia ad Uccello delle registrazioni e questi, sempre in giro nel tentativo di mettere in salvo i segni di un mondo che stava svanendo, gli risponde da Palazzolo Acreide il 13 novembre dello stesso anno: «Egregio Dottore, mi voglia scusare del notevole ritardo con cui le rispondo: sono stato fuori e riparto l’altro domani.

Non m’è riuscito di ascoltare il nastro da lei gentilmente inviatomi, perché il piccolo magnetofono che momentaneamente ho a disposizione non permette l’audizione del nastro inciso con ben altra velocità. Immagini la mia ansia e il vivo desiderio! Lo farò non appena mi sarà possibile e le risponderò più diffusamente. Intanto mi permetto di suggerirle di proseguire e di raccogliere quanto più materiale è possibile: è un problema di vita o di morte. Basta un mese di ritardo per non avere più la possibilità di raccogliere un documento a volte importantissimo».

Castelli era d’accordo sull’urgenza, sul fatto che fosse «un problema di vita o di morte»; anche se, con il tempo, lanciò i suoi strali contro quegli etnologi che consideravano e trattavano il contadino e la sua cultura solo come dei fossili, come meri resti da classificare ed esporre. Probabilmente, da questo iniziale interesse prende corpo un progetto più ambizioso, come lo stesso Castelli rivelò al giornalista Giuseppe Servello in un’intervista apparsa sul «Giornale di Sicilia» del 17 agosto 1972: lo scrittore non voleva mettere insieme un’opera divulgativa sulla Sicilia, che parlasse semplicemente della storia, della cultura, delle tradizioni isolane; bensì un «brogliaccio» di materiali differenti (elzeviri, fotografie, dischi), fruibili senza percorsi prestabiliti.

Quest’opera, una sorta di ipertesto, o forse meglio, di ‘multitesto’, costituito di documenti ‘vivi’, di testimonianze dirette, soprattutto della civiltà contadina, avrebbe avuto pochi ma competenti collaboratori, e per essa Castelli aveva pensato al titolo Sicilia, una pianta. Lo scrittore avrebbe voluto raccogliere le parlate, le testimonianze di vita dei «siciliani senza galloni e senza araldica, letteraria o artistica che sia; il contadino, il pescatore, il paesano e il cittadino qualunque». Il progetto si arenò, poi fallì; ma rimasero quelle registrazioni, alcune delle quali furono trasmesse nel 1978.

I racconti non furono tutti mandati in onda e non con l’ordine poi deciso dall’autore per una possibile pubblicazione. Nel dettaglio: il primo racconto diventerà il secondo della stesura scritta; mentre il secondo della trasmissione radiofonica ora figura al primo posto del corpus trascritto. Il terzo racconto editato, quello dei ‘pruni’, fu preparato per la messa in onda con la relativa introduzione, ma non fu trasmesso, per ragioni di tempo. Invece il terzo racconto, mandato in onda nel 1978, era molto lungo e comprendeva i testi del quarto, del quinto e del sesto racconto della versione successivamente preparata per la pubblicazione.

Dunque, nel cd si ripropongono integralmente i racconti di Peppe trasmessi dalla RAI , compreso quello non mandato in onda, accompagnati dalla presentazione e dalle introduzioni scritte e lette per quell’occasione dallo stesso Castelli. Si è pensato di aggiungere anche il discorso del fraterno amico Leonardo Sciascia, pronunciato il 18 febbraio 1986 durante la cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria di Cefalù a Castelli, e i ringraziamenti di quest’ultimo per quell’alto riconoscimento.

Meritoria, ora, l’iniziativa delle Fondazioni Mandralisca e Buttitta che hanno accolto con entusiasmo l’idea di realizzare il presente cd impreziosito da cinque disegni di Bruno Caruso, quello di copertina acquarellato, i quali illustrano alcuni dei racconti.

All’amata Cefalù, alla Biblioteca e al Museo Mandralisca Castelli dedicò un commosso ricordo in quella prosa ispirata - Per Cefalù, per i Cefaludesi- scritta per la ‘sua’città d’elezione: «… O il ricordo di Via Mandralisca, la via più pensosa e aristocratica di Cefalù; e della Via Mandralisca quell’edificio al numero 13. I1 mio lignaggio di uomo e di scrittore s’è nutrito e plasmato lì. Nei vasi comunicanti di quell’edificio, tra secondo e primo piano, al Ginnasio‑Liceo sopra, con quei maestri, quegli studi, e fra i sortilegi di incunaboli, di raccolte, di libri, di figure, di psicologie, di narrazioni, di paesaggi, di oggetti, di forme e del magnetico Antonello nella Biblioteca e nel Museo sotto».


___________________________________________________

- Marco Manera ha letto vari brani del libro “Opere”, di Castelli

note informative su Antonio Castelli

Antonio Castelli nacque a Castelbuono nel 1923. Compiuti gli studi classici a Cefalù, si laureò in legge a Palermo. Dopo aver collaborato al «Mondo» di Pannunzio ed al «Caffè» di Vicari, nel 1962 pubblicò il suo primo volume, Gli ombelichi tenui, nella collana “Narratori” della Lerici; mentre nel 1967, per i tipi della Vallecchi, vide la luce Entromondo, seconda ed ultima opera pubblicata in vita da Castelli, se si eccettua il volume selleriano Passi a piedi passi a memoria, del 1985, che è un florilegio dei primi due.

Castelli, morto tragicamente nel 1988 a Palermo, città nella quale risiedeva da molti anni, fu un autore tanto schivo quanto esigente con la propria scrittura. Nel 1986, il Comune di Cefalù conferiva allo scrittore la cittadinanza onoraria, riconoscendogli ‘ufficialmente’ un’appartenenza che Castelli aveva sempre manifestato attraverso i suoi scritti.

La casa editrice Sciascia ha pubblicato nel 2008 l’Opera omnia (con il titolo Opere) di questo raffinatissimo autore: gli scritti già editi e ormai introvabili, le prose e gli aforismi ancora inediti e i testi (già pubblicati in riviste, quotidiani e periodici) che l’autore non raccolse mai in volume.

Questi scritti di Antonio Castelli hanno alimentato nuove letture della sua opera; letture che hanno affondato il bisturi nel corpo vivo della scrittura castelliana, facendone risaltare le peculiarità più evidenti: dal ‘candore’, all’«angoscia laica», all’innocenza come scandalo, al particolare, moderno, «idillio», al tracciato allegorico di tanta parte della sua produzione.

Il recupero delle prose disperse e di quelle che ancora erano inedite ci ha consentito di delineare con più precisione la seconda ‘anima’, neanche tanto nascosta, presente nella scrittura di Castelli: quella del ‘polemista’ accorto, tagliente, commosso e indignato, partecipe e razionale.

La penna dell’autore si pose, negli anni, al servizio delle persone e delle cose dimenticate, emarginate: tale progressione naturale è chiara per ciò che riguarda la dolente denuncia della morte della civiltà contadina. Con struggente e assoluta coerenza, Castelli testimonia il crollo di un’intera civiltà, di cui voleva contribuire a salvare quantomeno il ricordo ‘materiale’ «a futura memoria», per dirla con il suo amico Sciascia. Castelli fu autore apprezzato da scrittori, intellettuali e critici del calibro di Romano Bilenchi, Mario Luzi, Geno Pampaloni, Ennio Flaiano, Leonardo Sciascia, fraterno amico, Vincenzo Consolo e tanti altri. L’opera, frutto di un lungo lavoro di ricerca e di revisione, è stata curata dal prof. Giuseppe Saja.