28 Novembre 2013, 08:59 - Giuseppe Maggiore [suoi interventi e commenti] |
CONSIDERAZIONI A TEMPO PERSO -
(de mulieribus)
di Giuseppe Maggiore
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La donna, impegnandosi nel lavoro esterno e spesso anteponendolo alla famiglia, perde di femminilità oppure no?
In buona sostanza, il processo dell’emancipazione femminile è in simbiosi con la stessa femminilità?
E’ un’aporia il ritenerlo?
E’ andato verso un migliore indirizzo l’Occidente con la metamorfosi familiare intervenuta?
Questi interrogativi che mi pongo sono espressione di puro nichilismo o un leale tentativo di coscienza tendente a sceverare un fenomeno globale niente affatto circoscritto?
E’ indubbio che la società, ogni società civile che si rispetti, sin dai primordi ad ora si fondi sull’istituto familiare: nucleo compatto, omogeneo, ciascun componente del quale rappresenta un cardine essenziale, con dei compiti ben precisi, che tende alla prosperità ed alla difesa del costituito gruppo.
Un coacervo di nuclei familiari forma una comunità e si consolida nello Stato.
Ora è chiaro, e se non lo è lo deve essere, indiscutibilmente (e qui propalo delle notizie ovvie e risapute), che già sin dalla nascita, fisicamente, i costituendi una famiglia, i due sessi, mostrano delle caratteristiche ben distinte, l’uno dall’altro, che servono a dar loro una ben netta connotazione necessaria all’impiego nella vita associativa; si nasce, infatti, maschi e si nasce femmine; monadi entrambi formati in diversa maniera, appunto, per due ben precise finalità, una fisica e una sociale: la procreazione per la continuazione della specie, la prima e per provvedere alle necessità vitali della comunione familiare nutrendola e difendendola nei rapporti con gli altri, la seconda.
E come gli esseri umani, così, anche le forme animali.
Il maschio è in linea di massima più robusto, più adatto alla fatica, più risoluto nell’ affrontare i pericoli dell’esistenza; la femmina, invece, è più delicata, fisicamente appare più allargata nei fianchi, caratteristica necessaria per poter concepire, più bisognevole di difesa, più ponderata nelle decisioni.
Ciò, almeno, nelle linee generali e per natura.
Queste due evidenti caratteristiche han fatto sì, sin dai primordi, mi si consenta l’analessi, che il maschio si è rivelato più indicato ad interessarsi dell’approvvigionamento alimentare per la creata famiglia e per la sua difesa, mentre la donna è rimasta in casa, anticamente nella grotta, nel primordiale abituro, all’interno insomma, ad accudire i nati e a prendersi cura dell’intero nucleo familiare, provvedendo nel contempo anche a tutto quanto attiene al lavoro domestico; dimensione privata che non è per niente meno gravosa di quella esterna, pubblica e che, in maniera analoga, contribuisce fattivamente all’andamento del gruppo.
Fino alla prima metà del ‘900 il menage di una comunità familiare tipo si è basato sul sopra descritto ordinamento, definito patriarcale.
Poi è subentrata la catarsi.
La sottomissione all’uomo, per natura subìta da millenni dalle femmine, le ha indotte allo scontento, alla rabbia, alla esasperazione, e quindi, il passo è breve, all’aperta ribellione sociale, ingenerando in esse una insorta volontà di rivalutazione, di eguaglianza ai maschi nelle prerogative occupazionali o direttive che ad essi da tempo sono retaggio e pretendendone il pubblico riconoscimento che oggi è in atto con la definizione di “pari opportunità”; con ciò ritenendo, a buon diritto o no, che tali incombenze per loro più appetibili fossero a loro anche più congeniali, ipotizzando di poterle svolgere con non minore perizia, se non addirittura meglio dei loro compagni.
Questo, per sommi capi e per una traslazione inspiegabile d’idee, mi riporta un po’ al famoso apologo di Menenio Agrippa (ciò qui potrebbe anche non cascare proprio a fagiolo, ma lo voglio lo stesso ricordare, così per mio esclusivo diporto) espresso per convincere la plebe romana, impegnata in uno sciopero rivoluzionario sul Monte Sacro, a ritornare in città riprendendo i propri consueti basti; la parabola si riferisce alla rivolta delle membra contro lo stomaco che apparentemente rimaneva inoperoso mentre loro, stressandosi, provvedevano a muoversi, a procacciare il cibo, a portarlo alla bocca, a masticarlo e a deglutirlo. Così fecero sciopero e non si adoperarono più per la cennata bisogna e inevitabilmente, l’individuo, non più nutrito, deperì e morì.
Con il modernizzarsi dei costumi, delle concezioni, col progredire della scienza, della cultura e di quant’altro, l’impronta della famiglia arcaica, patriarcale e tipica e (aggiungerei anche) così costituita per la ripetuta vitale esigenza naturale, se n’è andata a puttane, come si dice (mi si permetta la fiorita espressione gergale), ha perso valore e consistenza, insomma, ed è subentrato un nuovo clichè che vede la donna non più regina dell’interno (o per usare un eufemismo letterario tanto caro al preterito “angelo del focolare”), bensì la vede sostituirsi addirittura all’uomo in certi suoi ruoli e compiti più specifici, da sempre per abitudine e per comune convinzione a lui destinati, competendo con lui e in effetti strappandogli quella pretesa egemonia appariscente, quell’appannaggio, che sin dalla notte dei tempi egli ha, più o meno, onorevolmente detenuto.
Infatti oggi la donna esplica attivamente delle incombenze alle quali fisicamente non sembrerebbe adatta, svolgendole comunque con estremo impegno e rigore: così la vediamo soldatessa, carabiniera, finanziera, poliziotta, vigilessa urbana, capitana d’industria, imprenditrice, corrispondente estera, operatrice ecologica, macellaia, operaia e quant’altro; particolari branche, queste, di provata pericolosità e delicatezza che una volta, ripeto a iosa, rappresentavano esclusiva prerogativa dell’uomo per le caratteristiche fisiche sopra enunciate (nella definizione delle nuove mansioni uso volutamente il termine al femminile perché mi sembra anacronistico fare diversamente).
A supporto della pretesa valenza maschile è un caso o forse no che la maggior parte delle religioni releghino la femmina ai suoi particolari ruoli storicamente conosciuti? Non dimentichiamo che la stessa corrente di pensiero cristiana, ammannendo l’abusata storia di Adamo ed Eva nell’Eden, riporta che dopo il peccato commesso dai due all’uomo venne comminato “il lavoro con sudore” e alla donna “il parto con dolore”.
Non voglio, di grazia, pervenire qui ai rigori dell’Islam che considera e tratta la donna nei modi che tutti conosciamo; pur tuttavia, così ella comportandosi, svolgendo cioè certi particolari lavori più consoni all’uomo, indossando i pantaloni come lui e spesso anche a livello inconscio copiandone certi atteggiamenti e modi di essere e protestandosi realizzata e soddisfatta per aver acquisito questo suo voluto diverso status, a mio infimo parere perde qualcosa della sua naturale essenzialità.
Questa sua nuova facies, degnissima e rispettabilissima tuttavia, (sempre a mio infimissimo avviso) ha come contraltare una netta diminuzione di buona parte della sua femminilità.
Dov’è più quel suo languore, quella sua dolcezza, quel suo tenero atteggiamento, soave, di compiacenza, di accettazione, di sottomissione anche (e non è una tara!), di finezza, di complicità, di riservatezza, che rende il compagno orgoglioso di averla a fianco e lo spinge ad impegnarsi sempre di più nel suo ruolo e a fargli sopportare meglio le avversità, notevoli, a cui va incontro? Dov’è più la “madonna” tanto vagheggiata dai poeti nei madrigali? Dov’è più un Cielo D’Alcamo che ne canti le lodi “..Rosa fresca aulentissima?…” Dov’è più un Cecco Angiolieri che scriva una inebriante lirica inneggiante all’amore? E lo stesso Dante celebrerebbe più l’eterno femminino col suo “..Donne ch’avete intelletto d’amore?...” E oggi il Petrarca troverebbe più una sua vagheggiata Laura da eternare nel suo eccelso canzoniere?...” E la linfa del suo ineguagliabile splendido sorriso femminile, del suo capzioso sguardo ammaliatore, può mai più essere ravvisata nel suo sembiante oggi violato da un rude berretto di militare ordinanza o nel bel mezzo di un lavoro gravoso di maschile spettanza al quale ella si sottopone con ostentata alacrità???
Basta addentrarsi appena un po’ nella letteratura per toccar con mano la grande ispirazione lirica che la donna, intesa nel senso classico del suo ruolo, abbia sempre in passato potuto ingenerare.
Invero non possiamo non ammettere, d'altronde, che ci siano state donne (e rimaniamo preminentemente ad una individuazione “terra terra” perché questa disamina non vuole affatto assurgere a veruna trattazione specifica universale) che, a buon diritto, per la loro intelligenza e capacità han lasciato una gran positiva memoria di sé superando di gran lunga una certa umanità maschile.
Ne cito alcune a caso: Callas, Bellonci, Cederna, Montessori, Morante, Negri, Montalcini, Valli, Duse, Giovanna d’Arco, Madre Teresa di Calcutta, Miccichè e tant’altre ne potrei ricordare degnissime di notazione. Perché in fondo, ammettiamolo pure seppure con qualche riserva, la femmina in generale e a certi livelli si è dimostrata sempre più versatile e capace del maschio.
E poi, come non richiamare alla mente che lo stesso Victor Hugò, in una sua lapidaria massima sancisce che “…la poesia della donna sta nell’esser vinta?…”. E il profondo Nietzsche giammai obsoleto (ora che sono in vena di sciorinare massime lo faccio con foga da neofita) non sentenzia forse che: “..la donna impara ad odiare nella misura in cui disimpara ad affascinare….” “…le medesime passioni hanno nell’uomo e nella donna ritmi diversi, perciò uomo e donna continuano a fraintendersi…” “…quando una donna ha tendenze dotte, di solito qualcosa non è in ordine nella sua sessualità….” “…paragonati nel complesso, uomo e donna, possiamo dire che la donna non avrebbe il genio dell’ornamento se non avesse l’istinto del suo ruolo secondario…” (sic!) ?
Quel profumo lirico e quegli innegabili convincimenti che emanano da tali concetti, oggi, purtroppo, al 99 per cento sono andati persi o proprio “a puttane” (sempre, ripeto, modus dicendi non corrente nella sfera dell’eleganza e dell’educazione ma comunque, oggi, nel linguaggio ordinario molto d’effetto), come determinavo prima.
Da quanto accennato, presumo, appare evidente che questa emblematica emancipazione della donna, per quanto proficua ed opportuna in specifici campi, ha fatto sì che allo stato attuale l’uomo, esautorato in buona parte del suo compito primario, è stato relegato ad una condizione di secondarietà, più che di parità, che in fondo in fondo, per quanto si possa al contrario asserire in giro per apparire progressisti, in realtà lo umilia nella sua più intima essenza e lo abbacchia.
Ricordiamoci anche, e qui è di nuovo Nietzsche che mi soccorre, che “..la nostra verità è più duramente offesa proprio quando è stato appunto il nostro orgoglio ad essere ferito…”
La base d’impianto della famiglia è stata stravolta, dunque, con indubbi esiti negativi nel cuore della sua organizzazione.
Qui non si vuole minimamente misconoscere la valenza intellettuale e caratteriale femminile, il proprio muliebre senso artistico, l’indiscusso buon gusto, la capacità di fermezza, la profondità dei sentimenti e degli atavici valori, la costanza profusa negli impegni assunti, né si vuole fomentare differenza alcuna per quanto attiene alla sfera esistenziale come già espresso e ribadito. Sul piano umano uomo e donna debbono prioritariamente avere gli stessi diritti. Non si discute! E neppure si vuole criticare la sostenuta aspirazione femminile ad emergere. E’ pienamente legittima. Ci sono campi, oltre a quello familiare, in cui la donna è senz’altro maestra, campi che spaziano dall’arte all’insegnamento, dalla moda alla estrema professionalità in alcune specifiche carriere.
E’ la intervenuta confusione dei ruoli che da più di mezzo secolo a questa parte (non in tutte le culture, comunque) ha preso fermo piede e il connesso variato fenomeno socioculturale determinatosi che sbigottiscono e inducono a perplessità favorendo innegabili risultati negativi nella reciproca convivenza; nonchè questa emersa aspirazione femminile all’affrancamento che l’ha portata ad invadere il settore del lavoro maschile con estrema determinazione, quando le attribuzioni date dalla natura sono palesi, inequivocabili ed immutabili. Ma è indubbio che le battaglie, pubbliche e private, portate avanti dalla corrente di pensiero femminista abbiano segnato (come assumono Eugenia Roccella e Lucetta Scaraffia nel testo “Italiane”) la fine della separazione non tanto dei sessi quanto dei ruoli sessuali.
Tenuto conto, poi, che il numero delle donne sulla terra è di gran lunga superiore a quello degli uomini, ne viene nella comunità uno spiccato disorientamento che inevitabilmente è responsabile della mancanza endemica di lavoro: prima, infatti, era solo l’uomo a lavorare, a provvedere autonomamente ai bisogni materiali della famiglia della quale era a capo, mentre la donna lo supportava, come sopra accennato e secondo le proprie prerogative, nella conduzione interna della casa e del nucleo familiare.
Adesso, lavorando fuori casa la donna e assumendo gli stessi ruoli dell’uomo, oltre a venir diminuito quell’armonico suo contributo di presenza in casa che sostanzia l’imprescindibile saldezza della famiglia stessa, di fatto viene a determinarsi l’esiziale penuria di posti di lavoro che spesso fà sì che l’uomo resti disoccupato e, quindi, per necessità di cose, casalingo, per non dire “mammo” e sia la sua donna a provvedere materialmente per lui affrontando i rapporti esterni.
Inoltre, facendosi ella sostituire per necessità nel disbrigo della conduzione domestica da una estranea, bambinaia, collaboratrice, badante o come altro la si voglia chiamare, ne viene che la prole non è più accudita come una volta, per mancanza di tempo e di vigore della insostituibile madre; ciò determina nei figli una minore capacità di acquisire i sani principi comportamentali che rappresentano il fondamento di ogni proba vita associativa. E gli stessi anziani, che una volta vivevano in famiglia e rappresentavano una insostituibile riserva di esperienza e di sapere a cui eventualmente attingere, oggi, avulsi dal loro habitat, sono relegati alla cura di terzi prezzolati in più o meno fatiscenti case di riposo, ospizi, luoghi che per loro rappresentano amaramente l’anticamera del loro ultimo respiro.
Nel bailamme di tutte le metamorfosi intervenute nel sociale, metamorfosi che hanno mutato radicalmente i costumi dei popoli, questa destabilizzazione dei concetti primordiali che hanno permesso in passato il prosperare di una società basata, appunto, sull’istituto familiare (concetto oggi estremamente allargato) ha reso possibile il verificarsi di anomalie destabilizzanti, quale quella che tende a far apparire normale un comportamento che normale non è (fenomeno, fra l’altro, che in alcuni Stati è stato già ammesso e legalizzato): che, cioè, anche due individui dello stesso sesso possano vivere insieme more uxorio e allevare una prole (naturalmente adottata o figlia dell’uno o dell’altro) come in seno ad una normale coppia.
In un mondo progressista in cui la democrazia è indice di civiltà e di libertà può accettarsi che ognuno persegua in privato la propria sessualità come meglio creda; ma che in società si accampino pretese di riconoscimenti che sanciscano legalmente un siffatto connubio non mi sembra né da condividere né da apprezzare.
Quindi l’istituto familiare propriamente detto, così come sin qui ho ipotizzato in queste mie precarie “considerazioni a tempo perso”, ha subìto delle notevoli mutazioni con grande perplessità di quanti, come me, sono “laudatores temporis acti”.
Cefalù, 2013. Giuseppe Maggiore
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